La società senza dolore

di Enrico Palma

 

Byung-Chul Han                                     

La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite 

(Palliativgesellschaft Schmerz heute, 2020)

Trad. di S. Aglan-Buttazzi

Einaudi, Torino 2021                               

«Einaudi/Stile Libero Extra»

Pagine 88

€ 13,00

 

 

Un volume agile ma molto denso e ricco di riferimenti alla grande tradizione filosofica e poetica tedesca, uno specchio in cui rinvenire alcuni dei principali caratteri etici, sociali, antropologici e ontologici che la contemporaneità ha perduto o sta rischiando di perdere in una radicale trasformazione. La tesi di fondo di Han è tra le più interessanti, in special modo se considerata in modo armonico con il capitolo breve ma illuminante sulla pandemia, il vero e proprio trionfo dell’algofobia contemporanea. L’uomo contemporaneo aborrisce e repelle il dolore tanto da desiderare di espungerlo dal proprio orizzonte esistenziale e di gettarlo via come un fossile da consegnare a un museo di storia naturale, simbolo di un’umanità affrancata dalla sofferenza e da un impedimento considerato ancestrale e non più necessario. Se lo Jünger citato a più riprese nel testo sosteneva di poter dire chi sia una persona sulla base del suo rapporto personale col dolore, Han prolunga l’eco di questa affermazione agganciandola alla società contemporanea edonistica, liberista e ultra-capitalistica, sostenendo che per comprendere alla radice tale società è necessario operare una seria e rigorosa ermeneutica del dolore, come cioè essa risponda e si rapporti al dolore in tutte le sue forme. Il dolore, prima di essere oggetto della medicina a cui procurare un rimedio, è innanzitutto un concetto filosofico.

La Palliativgesellschaft, concetto tanto felice quanto pregnante che intitola il volume nella versione originale, ovvero la società del palliativo, della cura e della panacea a ogni male, tenta in ogni modo di diminuire il dolore, fino a renderlo un vero e proprio tabù. Il dolore viene rimosso dal nostro orizzonte esistenziale, se ne tace, è ormai quasi una questione di buona educazione non condividerlo con altri, semplicemente lo si soffoca. In quanto viventi è nella biologia dei corpi e del comportamento animale evitare il più possibile esperienze dolorose e favorire invece quelle piacevoli ed edificanti. E tuttavia, la sofferenza ha il suo lato costruttivo, poiché è solo attraverso il dolore e lo scontro che può avvenire l’individuazione e che si può pervenire a una più piena consapevolezza su alcune questioni del mondo. L’ottimismo coatto a cui la contemporaneità si è ormai votata esclude di netto ogni parvenza della negatività costitutiva all’esserci e al mondo, di cui il dolore è l’emblema. 

In questo modo, la vita e l’arte sono diventate instagrammabili e sottomesse al dominio dei like come «vero e proprio analgesico della contemporaneità» (p. 8), un doppio clic sullo schermo di uno smartphone che regala un sollievo all’insicurezza quotidiana e una qualche sensazione di vacua e infondata vicinanza dell’altro nei nostri confronti, in una forma che Han descrive molto bene come «cultura della compiacenza» (ibidem). Ma tale compiacenza, soprattutto nel campo dell’arte e dell’estetica, conduce a pessimi risultati, poiché a essere assente è la capacità di rottura, estraneità e inquietudine che costituiscono la cifra del rischio a cui ci si dispone quando si compie un’esperienza artistica. «È proprio l’estraneità a caratterizzare l’aura dell’opera d’arte. Il dolore è lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente Altro. È proprio la negatività del completamente Altro a mettere l’arte in condizione di offrire una narrazione antagonistica rispetto all’ordine vigente. La compiacenza, invece, perpetua l’Uguale» (p. 11).

La soppressione del dolore è anche una forma subdola del dominio, come spiegato in modo magistrale dalle analisi foucaultiane. Il potere che sopprime il dolore e che instilla un desiderio sempre più forte di starne lontani, e una ripugnanza patologica anche verso chi soffre davvero e non sa liberarsi, annulla la dissidenza, poiché essa transita da un’esperienza dolorosa che provocando un cocente disappunto muove all’azione. E dunque, il comandamento moderno Sii felice a ogni costo innesca una serie di meccanismi nel soggetto tesi al raggiungimento di certi standard, invero necessari al mantenimento del sistema stesso. 

Un essere che soffre e che sa di soffrire, per definizione, non obbedisce, essendo consapevole della falsa coazione alla felicità della società capitalistica contemporanea in cui il dolore è vissuto soltanto come privazione della gioia in quanto effimero ottenimento materiale di ciò che, in un circolo vizioso, la società stessa auspica per l’individuo. Eppure, se l’esperienza dolorosa e la profonda insoddisfazione dovevano essere l’anticamera alla dissidenza e alla rivoluzione, lo sbocco immediato del bersaglio mancato è la depressione, la patologia dilagante della nostra epoca di esistenze comode ma inappagate. Han, ricordando Nietzsche, afferma che dove cresce la possibilità di soffrire aumenta la possibilità di gioire, per la ragione che solo chi rischia di soffrire è aperto alle felicità più grandi.

Il capitolo più interessante del volume, Sopravvivenza, è invece dedicato alla pandemia e alle sue profonde ragioni, inserendo a mio modo di vedere magnificamente le argomentazioni sull’algofobia contemporanea nel discorso pandemico. Tentando una formula che unisca i titoli dell’intero volume e di questo capitolo, Han definisce la società attuale in preda all’emergenza sanitaria società della sopravvivenza. La posizione dell’autore, largamente condivisibile, può essere riassunta tenendo conto dei seguenti passaggi. Lo sdegno contemporaneo verso il dolore non è altro che una forma attenuata, o al più un epifenomeno, del rifiuto della morte, che irrigidisce la società al punto da farla retrocedere al mero dato biologico di continuare a vivere purché si viva, anche a costo di un’anestesia totale del corpo sociale. Sicché accade che «la società della sopravvivenza perde del tutto il senso della buona vita» (p. 22), che proprio «nel nome della sopravvivenza sacrifichiamo volentieri tutto ciò che rende la vita meritevole di essere vissuta. Dinanzi alla pandemia, anche la radicale limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza discussioni. Senza opporre resistenza ci adeguiamo allo stato di eccezione che riduce la vita a nuda vita» (p. 23), e addirittura che «la virologia esautora la teologia» (ibidem). 

La vita diventa dunque un’effimera perpetuazione di se stessa e «perde qualsiasi dimensione meta-fisica» (p. 24), gli spazi pubblici vengono abbandonati in favore della sicurezza domestica, l’altro diviene un pericoloso avversario da respingere e da tenere a distanza, le relazioni si rinserrano in un perverso contatto digitale che esautora del tutto la condivisione spaziotemporale della corporeità in ogni sua forma. Troppo impegnati a vivere nella preoccupazione di non morire, ci sfugge così di mano la possibilità autentica dell’esistenza, facendoci dunque perfetti imitatori di quel virus che ci ostiniamo a combattere, il quale a confine tra la vita e la morte ha come unico obiettivo la cieca e istintuale perpetuazione di se stesso (cfr. p. 27).

Il dolore diventa anche una prova di coraggio esistenziale, poiché esso svela il fondo assurdo del nostro durare nel mondo, un’insensatezza a cui le religioni hanno tentato di dare una spiegazione, specie il cristianesimo che giustifica il dolore in quanto luogo metafisico privilegiato in cui conoscere e arrivare a Dio. Sopprimere il dolore significa troncare le relazioni nutrienti con l’Altro che ci dilaniano, perché, secondo questa concezione che richiama Lévinas, Benjamin e Badiou, è proprio questa ferita a essere la presenza dell’Altro in noi. Eliminare il dolore significa eliminare l’Altro anche come oggetto amoroso, perché l’impulso naturale a lenire e guarire dalle pene d’amore che l’Altro ci infligge consiste in prima istanza proprio nell’avvicinarci a Lui nel tentativo di farci ricambiare. Il dolore causato dall’amore è differenza, attrito, trascendenza. Difatti: «L’amore come consumo che reifica l’Altro a oggetto sessuale non fa male. È contrapposto all’eros quale desiderio dell’Altro» (p. 43. I corsivi sono nel testo). 

Naturalmente conosceva tutto questo alla perfezione Marcel Proust, al quale è dedicata una pagina molto intensa e giustamente elogiativa, per il fatto di avere accettato il dolore come un dono per la sua arte, il pungolo migliore che esista per conoscere se stessi e il mondo, lo sprone di ogni letteratura. Con un passaggio a dir poco formidabile: «Il dolore guida la penna di Proust. Estorce la lingua, anzi, la forma persino alla morte. La rende servizievole ai fini della scrittura. Questa passione della scrittura è impensabile senza dolore» (p. 48. I corsivi sono nel testo). Il dolore è la prova che il mondo in noi si sta rinnovando e noi in esso, che c’è una situazione inedita, una sfida da superare, poiché, citando Emily Dickinson, solo nel rimettersi in piedi dopo essere stati abbattuti si può provare la nostra grandezza. Non a caso: «Il dolore però è una levatrice del Nuovo, un’ostetrica del completamente Altro» (p. 51).

La reificazione dell’Altro, il suo farsi oggetto per impedirgli di infliggere dolore, è la prova inconfutabile che l’Altro in quanto tale sta svanendo, oltre ogni falso nietzschianesimo e sogno transumanista, in un’orgia insensibile alla naturalità e alla più propria condizione di esseri umani. In una bella ricognizione ontologica del dolore compiuta a partire da molti testi heideggeriani, sulla scorta del filosofo di Meßkirch, Han può affermare che «il dolore è la tonalità fondamentale della finitudine umana» (p. 60). Tutto ciò ha ovviamente anche una seria implicazione etica, perché non essendo la sofferenza più presente nel nostro orizzonte esistenziale, si diviene sordi alla chiamata altrui, in un modo che anziché prestare ascolto al clangore del dolore gridato a questo mondo esso viene calpestato, perché, come si sa, non si può nascondere o ignorare che il dolore è il vero addensante delle relazioni umane, che niente avvicina di più gli umani tra di loro rispetto a quando vibra una sofferenza all’unisono e sorge il desiderio di arrestarla regalando un calore e una gioia che, ignorando questo sfondo, sarebbero altrimenti inconcepibili. 

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