di Stefano Piazzese
La superbia dopo il fiore dà frutto: ed è spiga di rovina da cui si miete messe di pianto. Guardate quindi questo castigo e ricordatevi sempre di Atene, ricordate la Grecia! Nessuno dovrà mai disprezzare ciò che Dio gli accorda, e per brama di altri possessi dissipare una grande fortuna. Zeus, si sa, punisce i progetti troppo superbi: è lui che presiede al giudizio, e chiede il conto, severo.[1]
L’agone tragico della Grecia del V secolo è una dimensione storico-sociale dove molti dei concetti costitutivi dell’Occidente sono nati, hanno preso forma e si sono sviluppati. Dice bene Untersteiner quando nella prefazione alla prima edizione della sua opera Le origini della tragedia e del tragico afferma che per quanto riguarda le origini della tragedia «chiunque si fissa in una tesi unilaterale è condannato a errare. […] La tragedia, nata per la prima volta fra i Greci, deve la sua formazione a tutta la spiritualità di questo popolo. […] La spiritualità greca si presenta come una sintesi, instabile e in continuo fermento, di un travaglio svoltosi nel corso di secoli e secoli»[2]. Il travaglio di cui parla il filologo ha generato la poliedricità che intride il teatro dei Greci, uno sguardo proteiforme sull’esistenza e diretto all’esplorazione del tragico stare – Stimmung – dell’uomo e di tutte le insanabili fratture esistentive nelle quali si ritrova gettato una volta accaduto per lui il superno decreto di necessità: venire al mondo.
Va da sé che l’agone in cui lo spirito tragico dispiega le proprie forze e pulsioni creatrici – schaffende Wille secondo la formula nietzscheana – è sempre un oltre che ci invita a cogliere il carattere dell’inesauribile sempre nuovo di cui è possibile fare esperienza ogniqualvolta ci si sofferma a riflettere e a studiare una delle più gloriose creazioni dello spirito umano; per tale ragione, bisogna prestare ascolto a quanto dice Untersteiner per non fossilizzare la volontà creatrice del tragico che da secoli continua ancora a vivere: premessa metodologica, questa, che poniamo a fondamento del presente lavoro. E chi meglio di Nietzsche può esserci d’aiuto in questo tentativo? Il filosofo nella seconda delle Unzeitgemässe Betrachtungen – Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben – enuncia la celebre distinzione dei tre tipi di storia (monumentale, antiquaria e critica), evidenziando come l’uomo, animale storico, debba concepire la storia (Geschichte) alla luce del rapporto di quest’ultima con l’esistenza: storia al servizio dell’azione e della vita. La risposta filosofica che ha saputo realizzare il vero oltre-passamento dell’ipertrofia storica – la malattia di cui era affetto lo Zeitgeist in cui Nietzsche visse (da qui la critica alla cultura del suo tempo) – ci viene da Heidegger, il quale non rileva solo nella storia critica “l’utilità della storia per la vita”, ma compie anche l’armonizzazione dei tre modi indicati da Nietzsche, come leggiamo dal § 76 di Sein und Zeit: «la storicità autentica è il fondamento della possibile unità delle tre modalità dell’istorìa»[3]. Il divenir archetipo del tragico – modello estetico – in quale delle tre dimensioni nietzscheane della storia si colloca? Una risposta immediata consisterebbe nell’attribuire alla tragedia la prima o la seconda dimensione. In effetti, cos’è un archetipo se non una cristallizzazione (storia monumentale) di ciò che ha esaurito il proprio accadere nel qui e ora (storia antiquaria) e che si vuole, perciò, conservare? Ma uno sguardo più lungimirante le attribuisce anche la terza dimensione, in quanto da un archetipo può prendere forma l’impulso che dà vita all’azione del e per il presente. Possiamo, dunque, considerare l’archetipo tragico il coabitare delle tre modalità dell’istorìa? La risposta è affermativa, ed essa trova la sua giustificazione storico-teoretica proprio nell’agone tragico nella forma archetipica come caratterizzazione che il tragico acquisisce all’interno della πόλις. Considerare la tragedia messa in atto nel θέατρον un archetipo estetico significa interpretarla come individuo spazio-temporale, e allo stesso tempo come rappresentazione di qualcosa che non è più solo qui e ora poiché vive sempre della sua possibile ripetibilità/riproducibilità in un altro momento e in un altro luogo.
Qualsiasi riflessione estetica sul pensiero tragico a partire da Aristotele, passando per Hölderlin, Kierkegaard, Gadamer, non può non essere considerata anche indagine storica, alla cui base bisogna porre il Nietzsche della Seconda inattuale: se di esperienza estetica si tratta bisogna collocarla all’interno di quel movimento temporale in cui x diventa archetipo, attraversa il dove e il quando e diviene riproducibile, fino a giungere a me, e dunque fino a essere esperienza estetica nel mio hic et nunc[4]. Non è forse quello che accadeva nell’antica Grecia quando in tempi e in luoghi diversi veniva messa in atto la stessa tragedia ad opera dello stesso tragediografo? La domanda è circoscritta, e dunque anche la riflessione che ne scaturisce, entro l’arco temporale di quei secoli dell’antichità in cui le tragedie erano viventi nello Zeitgeist che le ha concepite, quando venivano messe in atto nei teatri delle πόλεις greche[5], e non la si estende temporalmente fino ai nostri giorni poiché è risaputo che la forma delle tragedie a noi pervenuta attraverso i secoli risulta piuttosto alterata e impoverita rispetto alla sua matrice antica, e diversa in riferimento allo sviluppo successivo di alcuni dei suoi elementi costitutivi.
Il percorso teoretico che qui verrà proposto si articola in due momenti principali. Partiremo dal concetto di archetipo in relazione all’ermeneutica filosofica di matrice gadameriana, per poi protenderci verso il tragico come archetipo, e in particolar modo al tragico eschileo. La riflessione nietzscheana sull’antichità greca costituisce lo sfondo teoretico in cui ci muoveremo, e tale scelta è dovuta al fatto che, come prima si è detto, Nietzsche ha fatto dell’essenza del tragico una forza per plasmare il presente, e per tale ragione lo spirito tragico presuppone sempre un’ermeneutica del tragico; espressione, quest’ultima, che indica i due pilastri teoretici del presente lavoro: ermeneutica filosofica e filosofia del tragico.
Il teatro diventa il luogo dove la polarità in cui la tensione dell’uomo lacerato (uomo tragico), dissestato da una frattura emotiva che gli viene dal suo essere-nel-mondo, si abbandona alla volontà di senso che lo spinge, alla luce della consapevolezza dell’assenza di senso – Abwesenheit –, a pronunciare sempre un nonostante che costituisca la necessità di un senso in cui dimorare: Vi sono ancora case da costruire![6]
1. Tragico come struttura dell’esistenza e sommo artificio estetico
Arrivati qui è opportuno tornare a domandarci circa le due strade che può imboccare la riflessione sul tragico, quella esistenziale-esistentiva e quella estetica. Per parlare dell’archetipo tragico terremo in considerazione ambedue le strade, in quanto il tragico è unità storica dei due percorsi che non si presentano mai disconnessi tra loro, ma presteremo maggiore attenzione alla questione estetica.
Affrontare il tema del tragico è un’impresa complessa e assai delicata; esso costituisce un inesauribile universo di studio, di ricerca e di elaborazione teorica sempre vivi nella cultura Occidentale. Per tale ragione, il nome a cui limiteremo la nostra analisi è quello di Eschilo, il poeta eleusino. La ragione della scelta risiede innanzitutto nel fatto che tra le forme già date e compiute delle tragedie a noi pervenute quella di Eschilo è certamente la più antica, e il suo teatro costituisce il primo grande esperimento di estetismo tragico e poetico che abbiamo. In un passo de La nascita della tragedia successivamente eliminato, quando Nietzsche argomenta intorno a Eschilo afferma che: «per guardare entro il cuore della tragedia greca, abbiamo Eschilo: che cosa può darci di più la teoria estetica aristotelica? Nient’altro se non cose discutibili, che già troppo a lungo hanno danneggiato insanabilmente una considerazione in profondità del dramma antico»[7]. Nietzsche definisce Eschilo pensatore, oltre che poeta, a conferma anche di quanto si è detto sul nesso tra pensare e poetare (Denken und Dichten), un coabitare che il filologo trae, ancor prima di Heidegger, dal cuore della tragedia greca.
Prima di procedere è opportuno rispondere alla seguente domanda: qual è l’essenza del tragico in Eschilo, ovvero l’elemento (o gli elementi) che lo contraddistingue dagli altri sviluppi dello spirito tragico della e nella grecità? Nietzsche nel rispondere alla suddetta domanda pone in risalto quello che possiamo qui definire il fondamento metafisico su cui la struttura delle tragedie è stata edificata – almeno per il teatro di Eschilo:
Di fronte alla stupefacente arditezza con la quale Eschilo pone il mondo olimpico sulla sua bilancia della giustizia, dobbiamo immaginare che l’animo profondo del Greco trovava nei suoi misteri un sostrato incrollabilmente saldo del pensiero metafisico, e che tutti i suoi impulsi scettici potevano sfogarsi sugli dèi olimpici. L’artista greco in particolare avvertiva, riguardo a queste divinità, un oscuro senso di reciproca dipendenza, e questo sentimento è simboleggiato proprio nel Prometeo di Eschilo. L’artista titanico trovò in sé la caparbia fede di poter creare uomini o almeno di poter distruggere dèi olimpici: e ciò mediante la sua superiore sapienza, che era però costretto a scontare con un’eterna sofferenza. Il magnifico «potere» del grande genio, che anche con un dolore eterno è pagato troppo poco, l’aspro orgoglio dell’artista – questo è il contenuto e l’anima della poesia di Eschilo[8].
Il teatro tragico a partire da Eschilo, considerato anche il binomio concettuale della Poetica aristotelica ἔλεος/φόβος [9], proietta lo spettatore in
una dimensione spazio-temporale parallela a quella della normalità. […] La realtà – insegna il teatro – è finzione. O piuttosto: la realtà si lascia dire solo attraverso la finzione e il teatro è sommo artificio in quanto, smascherando nei suoi presupposti lo scarto tra verità e apparenza, attiva – producendola nel corso dell’azione – una forma di sapienza; e «chi si fa ingannare» – dirà Gorgia in riferimento anche all’esperienza teatrale – «è più sapiente di chi resiste all’inganno»[10].
Il teatro è sommo artificio, il luogo dove la tragedia vive della possibilità di essere nuovamente ascoltata, nuovamente vista; ed Eschilo è la più antica testimonianza che abbiamo di questo binomio antropologico e storico in cui la poesia tragica incontra la possibilità di essere nuovamente messa in atto, ovvero la sua riproducibilità. E siccome ciò avveniva entro i confini della πόλις, nel cuore della città-stato, la tragedia non poteva non avere un carattere politico[11]: un evento storico che dispiega tutta la sua politicità come momento in cui i cittadini si riuniscono per vedere e ascoltare vicende che suscitano ἔλεος e φόβος. Il carattere politico della tragedia attica non deve mai essere considerato scisso dal carattere teologico e filosofico. Dobbiamo piuttosto considerare Eschilo, e più in generale il teatro dei Greci, dal punto di vista culturale nei termini di una monade dove le diverse espressioni della sapienza antica non stavano separate come lo sono oggi, ma abitavano insieme. Eschilo è questa unità di riflessione sull’esistenza, filosofia, teologia, politica.
Qual è uno dei significati profondi del dramma eschileo? Iniziamo la nostra analisi a partire dai Persiani. Eschilo esperì e conobbe il furore della guerra, e da guerriero scrisse questa tragedia non esaltata dal trionfo maratonomaco, anzi, mitigata dal senso del limite, dalla consapevolezza del νόμος divino. Il λόγος tragico diviene λόγος πολεμικός, parola che inerisce alla dimensione politica a cui appartiene per essenza. Politica e teologia sono qui unica voce narrante, e il coro della tragedia nel declamare l’ammonimento solenne ricordatevi sempre di Atene – μέμνησθ ҆ ҆Αθηνών[12] – enuncia, in modo chiaro, il significato politico del dramma in atto che è sempre legato al sacro e al discorso intorno agli dèi. Eschilo risponde a una delle domande più antiche della filosofia: chi è l’uomo? La risposta ricalca la consapevolezza della complessità di un interrogativo simile, ma lascia comunque intravedere la grande operazione speleologica nel dramma esistentivo dell’esserci: l’uomo è ισόθεος φώς, pari agli dèi. Il nesso ossimorico può avere un duplice significato, ma in entrambi casi è un significato tragico. Dice Centanni: «La locuzione “uomo pari agli dèi” designa dunque la natura divina del sovrano, ma prefigura anche l’atto di empia superbia del mortale che si crede “pari agli dèi”, che crede di poter trattare gli immortali come suoi pari (così come Serse tratterà Poseidone)»[13]. La trasgressione dei limiti è da intendere nell’unità del duplice senso politico-teologico, ed è proprio nei confronti di esso che il dramma vuole mettere in guardia lo spettatore, difatti «questa superba empietà – la greca ϋβρις, trasgressione dei limiti imposti all’umano che gli dèi mai risparmiano – anche nel caso di Serse chiama una punizione»[14]. La metafora del fiore-spiga è un severo monito sull’avvenire pronunciato da chi presiede al giudizio sulle azioni e sugli eventi degli uomini.
L’ateniese, attraverso l’agone in cui era spettatore, doveva prendere consapevolezza di un fatto storico che non veniva semplicemente rappresentato, ma trasfigurato dallo spirito tragico in qualcosa di esistentivo che al di là della rappresentazione vissuta doveva rimanere: cominciava a farsi strada una visione del mondo permeata dalla consapevolezza dell’essenza tragica della vita e di ogni avvenimento storico, come le guerre combattute contro la Persia di Serse. Gadamer chiama questo momento giudiziosità – Einsicht – in quanto comporta sempre «un momento di conoscenza di sé e rappresenta un aspetto essenziale di ciò che abbiamo chiamato esperienza in senso proprio»[15]. Eschilo costituisce un momento significativo per questa determinazione dell’esperienza, nella sua formula πάθει μάθος, imparare attraverso la sofferenza, è possibile cogliere la profonda storicità di ogni esperienza umana. La suddetta formula appartiene al coro dell’Agamennone, nell’Orestiade, ma certamente è possibile estenderla a tutti i componimenti eschilei, precedenti e successivi, ed è possibile rilevare il motivo principale del tragico in Eschilo proprio nella celebre espressione summenzionata che contestualizzata neiPersiani è il discorso che il re Dario, invocato dalla moglie, fa al suo popolo; un ammonimento a non dissipare più i beni e le ricchezze del regno andando incontro alla sciagura e alla dismisura, che consiste nel non considerare quanto gli dèi hanno concesso ai Greci: la terra, la terra stessa, combatte al loro fianco[16].
2. Potenza e gioia della consolazione metafisica: la salvezza che viene dall’arte
Vi sono degli elementi costitutivi della tragedia rilevati dall’opera filologica e filosofica di Nietzsche, il quale è riuscito a dare uno sguardo alla grecità capace di cogliere anche ciò che nel tragico è andato conservandosi nel tempo in riferimento ai concetti di salvezza e consolazione; termini in cui si riflette la dimensione sacrale della tragedia che risponde certamente al bisogno soteriologico che si manifesta nell’esistenza dell’uomo, in questo caso del cittadino della πόλις. Mettere in scena una tragedia vuol dire conservare, preservare e veicolare, nonostante l’incessante scorrere del tempo in cui si susseguono epoche, civiltà e paradigmi culturali, degli elementi che appartengono così intimamente allo spirito umano da non subire l’annichilimento e l’usura dei mutamenti epocali che anzi ne assorbono pienamente gli stimoli. La tragedia greca è anche il veicolo, il modello, mediante il quale il suddetto movimento è avvenuto e avviene ancora oggi.
Vediamo, adesso, in che modo Nietzsche definisce il concetto di consolazione:
La consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia – lo dico sin d’ora – per cui in fondo alle cose la vita è, a dispetto di ogni mutare delle apparenze, indistruttibilmente potente e gioiosa, questa consolazione appare in corposa chiarezza come coro di Satiri, come coro di esseri naturali che per così dire vivono incorruttibili dietro ogni civiltà e, nonostante ogni mutamento delle generazioni e della storia dei popoli, rimangono eternamente gli stessi.[17]
Questa stabilità che permane al mutare e al susseguirsi delle epoche e delle civiltà dice ciò che rimane incorruttibile nonostante i mutamenti delle realtà sociali, lo stesso incorruttibile di cui l’esserci avverte il bisogno in sé. Ascoltare il coro dei Satiri vuol dire fare esperienza di ciò che nonostante tutto non conosce corruzione. Ciò che non conosce corruzione, e che rimane saldo nella sua perenne stabilità, è la visione disincantata del mondo dove di fronte al dolore viene indicata come via d’uscita l’indistruttibilità della vita intesa come ζωή, la sua gioia, la sua inesauribilità, la sua potenza. La consolazione che nasce dalle parole cantate del coro ha in sé il potere di salvare l’uomo dal dolore:
Con questo coro trova consolazione il Greco profondo, dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più aspra, che ha contemplato con sguardo tagliente il terribile processo di distruzione della cosiddetta storia universale, come pure la crudeltà della natura. […] Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé – la vita.[18]
Dunque, Nietzsche dice anche il modo in cui avviene tale salvezza e in cosa essa consiste. Non è redenzione dal dolore ma redenzione del dolore che nella sua accettazione ha in sé il potere di trasfigurare l’angoscia dell’uomo in gioia per la propria finitudine. La consolazione metafisica a cui può accedere il Greco profondo grazie all’agone tragico è una fonte inesauribile di salvezza che ha continuato a zampillare attraversando i luoghi e le epoche grazie al suo fondamento estetico-esistentivo. Vediamo come quella linea di confine tra questione estetica e questione esistenziale tratteggiata per sommi capi nel primo paragrafo del presente lavoro appare adesso molto debole, nel senso che si tratta di un binomio inscindibile. Nessun pensiero sul tragico può prescindere da questa considerazione che riguarda la sua identità che pone, come tutte le considerazioni estetiche, la domanda circa il problematico rapporto forma-contenuto.
Peter Szondi nelle sue considerazioni sulla Teoria del dramma moderno afferma che «considerare la forma drammatica come non legata alla storia implica insieme che il dramma dev’essere sempre possibile, e che le poetiche possono esigerne la presenza in qualunque tempo»[19]. Il nostro discorso implica adesso il convergere di categoria estetica e categoria storica. Tale convergere è ciò che ha permesso alla tragedia il costituirsi della sua riproducibilità estetica. Il percorso teoretico svolto da Szondi passa anche da Hegel e dalla sua teoria estetica. Definire il rapporto che vi è tra forma e contenuto implica l’esigenza di determinare il modo in cui ciascuno dei due concetti influenza l’altro. Come avviene questa osmosi concettuale nella tragedia? Prima di rispondere a questa domanda sarebbe più opportuno porre una domanda ancor più fondamentale di quest’ultima: chi è l’uomo della tragedia attica? Va da sé che non è possibile dare una risposta univoca ed esaustiva senza passare in rassegna le tragedie a noi pervenute e che oggi possediamo, pertanto verrà data una risposta a partire da Eschilo e dalla sua parola tragica che fino a ora abbiamo preso in considerazione.
La tragedia eschilea da noi considerata (Persiani) non è da intendere come la semplice trasposizione drammatica di un evento storico; ciò non toglie, però, che l’evento storico, o gli eventi storici delle guerre di Salamina e di Maratona siano stati determinanti non solo per l’esistenza del poeta di Eleusi che ha composto la suddetta tragedia, altresì per tutti i Greci che assistettero alla prima sua rappresentazione messa in atto nel 472 presso il teatro di Dioniso ad Atene. Ma, al di là della storicità di un’opera, va ricordato che Szondi fa riferimento al pensiero estetico di Hegel per affermare che
questo rapporto fra poetica al di là della storia e concezione non dialettica di forma e contenuto, ci riporta a quello che è il vertice comune del pensiero dialettico e di quello storico: l’opera di Hegel. Nella Logica si trova la seguente formulazione: «Le vere opere d’arte sono solo quelle in cui forma e contenuto si dimostrano affatto identici». Questa identità è di natura dialettica: nello stesso passo Hegel definisce il «rapporto assoluto di forma e contenuto» come il «rovesciarsi dell’uno nell’altro, sì che il contenuto altro non è che il rovesciarsi della forma in contenuto, e la forma altro non è che il rovesciarsi del contenuto in forma». L’identificazione di forma e contenuto distrugge anche l’antitesi – implicita nel vecchio rapporto – di atemporale e storico, e ne consegue la storicizzazione del concetto di forma e in ultima analisi della stessa poetica dei generi. Lirica, epica, drammatica si trasformano, da categorie sistematiche, in categorie storiche.[20]
È importante dare uno sguardo più profondo alla relazione forma-contenuto perché se si parla di modello estetico come veicolo di questa relazione non si può prescindere dalla chiarificazione dei termini in cui tale modello veicola, appunto, forma e contenuto. Vale dunque per la tragedia quanto Szondi afferma a partire da Hegel: essa da categoria sistematica (a) diviene categoria storica (b). Va precisato che qui non intendiamo il divenire di a in b come la negazione e/o il superamento di a, bensì un divenire che implica sempre il diveniente nel divenuto. In altri termini: la tragedia nel suo divenire categoria storica non cessa mai di essere anche categoria sistematica. La sua sistematicità e la sua storicità le hanno permesso, in qualità di determinazione estetica, di attraversare le epoche della storia adattandosi a esse per giungere fino a noi oggi e continuare l’azione soteriologica nei termini delineati da Nietzsche.
Nell’opera dedicata alla tragedia lo stesso filosofo afferma che essa «perì in modo diverso da tutti gli antichi generi d’arte affini: morì suicida, in seguito a un insolubile conflitto, dunque tragicamente, mentre tutti quegli altri scomparvero a tarda età con la morte più bella e tranquilla»[21]. Di certo, quello che il filologo Nietzsche indica è un evento storico, ovvero l’oblio di questa forma d’arte così come era vissuta ed esperita nella grecità. Bisogna altresì constatare che l’epilogo storico di cui parla il professore di Basilea non ne ha decretato la fine tout court. La parola scritta, sebbene non sia arrivata a noi in tutta la completezza della sua originalità, ha cristallizzato la tragedia rendendola struttura che ha resistito anche all’usura vitale e alla mortedi cui parla Nietzsche. Certamente, non esiste più la tragedia così come i Greci la vivevano nel teatro della πόλις, ma una volta cristallizzato nella parola scritta il suo carattere sistematico, e dunque una volta divenuto riproducibile, ha potuto, sebbene nella sua forma impoverita rispetto all’antichità, essere ancora e sempre categoria storica anche per le epoche successive. Lo spirito tragico è presente in ogni tempo della storia dell’Occidente: la poesia, la letteratura, la filosofia, la teologia, l’arte, la scienza, la politica, il diritto portano tutte, in modi e forme diverse, l’effige di quello spirito che dice quanto di più profondo dimora nell’umano (Hölderlin), plasmando i saperi e le esistenze nel corso dei secoli.
[1] Eschilo, Persiani, in Le tragedie, traduzione, introduzione e commento a cura di M. Centanni, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2003, vv. 821-828, p. 73.
[2] M. Untersteiner, Le origini della tragedia e del tragico, Istituto Editoriale Cisalpino, Milano 1984, p. 21.
[3] M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), trad. di A. Marini, Mondadori, Milano, § 76, p. 1113.
[4] Fondamentale è quanto sostiene Walter Benjamin su questo tema: «L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità», in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936), trad. di F. Valagussa, Einaudi, Torino, 2017, p. 7.
[5] Cfr. quanto sostiene Nietzsche in una delle sue ultime lezioni di filologia sul culto greco (1875-1878) in riferimento ai Greci come abitatori della πόλις: «l’ingegnosità mostrata nel pensare, nell’unire, nell’interpretare e trasformare ha costituito il fondamento della loro πόλις, della loro arte, e della loro potenza ammaliante e di dominio sul mondo» (F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci (Der Gottesdienst der Griechen), trad. di M. Posani Löwenstein, Adelphi, Milano 2012, p. 11).
[6] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (Also sprach Zarathustra), Parte II, Della vittoria su se stessi, in «Opere» VI/1, trad. di M. Montinari, Adelphi, Milano 1968, p. 140.
[7] Id., La nascita della tragedia dallo spirito della musica, in «Opere» III/1, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1972, p. 514, nota 13.
[8] Ivi, pp. 67-68.
[9] Ricordiamo al lettore la tesi sostenuta da Gadamer in riferimento al binomio aristotelico citato, in quanto è proprio quest’ultimo, secondo il filosofo, a rendere possibile la dimensione dello spettatore nella tragedia definendo, in tal modo, il carattere estetico del tragico.
[10] M. Centanni in Eschilo, Le tragedie, cit., p. LVII.
[11] Cfr. sul carattere politico del tragico eschileo V. Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, Einaudi, Torino 1978, p. VIII: «Ci sono sempre critici pronti ad allarmarsi ogni qual volta si voglia trovare in un singolo passo di una tragedia greca un riferimento a questo o a quell’avvenimento contemporaneo: si combatte accanitamente, per esempio, per negare che nelle Eumenidi sia ravvisabile un accenno alla campagna di Atene in Egitto. Tutta questa difesa della purezza della poesia ha qualcosa di patetico. La ‘politicità’ delle tragedie di Eschilo (e anche degli altri tragici a noi noti) non si gioca su questa o su quella allusione ad eventi contemporanei (per quanto, per esempio, è fuori discussione che nell’Orestea ci siano chiarissimi echi della riforma dell’Areopago, della alleanza fra Atene e Argo, ecc.). Ciò che importa è invece un discorso su tempi più lunghi, che coinvolge le strutture di base della società. E in questo discorso trova posto la considerazione dei limiti della condizione umana, il modo come veniva visto il rapporto uomo/divinità, oppure come veniva valutata la realtà del lavoro umano, ecc. Ed è in relazione a questi temi che si rivela, mediatamente, la politicità della tragedia greca, nel senso che di regola lo sbocco consisteva in un atteggiamento che presupponeva il riconoscimento e l’accettazione delle strutture sociali e politiche fondamentali».
[12] Cfr. supra, nota 1.
[13] M. Centanni in Eschilo. Le tragedie, cit., p. 713.
[14] Ibidem.
[15] H.-G. Gadamer, Verità e metodo (Wahrheit und Methode, 1960), trad. di G. Vattimo, Bompiani, Milano 2000, p. 735.
[16] Eschilo, Persiani, in Le tragedie, cit., v. 792, p. 71.
[17] F. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, cit., p. 54.
[18] Ivi, pp. 54-55.
[19] P. Szondi, Teoria del dramma moderno. 1880-1950, a cura di C. Cases, Einaudi, Torino 2000, p. 18.
[20] Ivi, p. 19.
[21] F. Nietzsche, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, cit., p. 75.