«Gli dèi sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa». Il divino in Pavese

di Simona Lorenzano

 

1. L’annunciatrice di Dioniso

 

Dialoghi con Leucò rappresenta il frutto più elevato del viaggio che Pavese compie nel mondo delle origini, in ciò che lui stesso definisce «il “primitivo” e il “selvaggio”»[1]. L’autore sceglie la forma del dialogo, quasi a voler lasciar intendere che le sue verità non sono scaturite dal suo intelletto isolato, bensì dall’incontro con l’altro, dall’interazione dialettica con alcuni protagonisti del mito e delle religioni antiche. A dialogare tra loro infatti sono dèi, eroi, re, poeti, centauri, ninfe e anche uomini comuni. Ma come mai Pavese sceglie proprio Leucò come interlocutrice particolare? 

Leucò, o per meglio dire Leucotea, è colei che nel dialogo La vigna accoglie lo sconforto di Ariadne abbandonata e la consola annunciando l’arrivo di un dio di gioia, quel dio che regna «nel fresco dell’edera, nei pineti e sulle aie»[2], Dioniso. A dare il titolo ai dialoghi di Pavese, dunque, è proprio colei che annuncia Dioniso, colei che dice che amare un dio significa amare la natura perché «gli dèi sono il luogo, sono la solitudine, sono il tempo che passa»[3]. Possiamo allora pensare che alla base di quest’opera ci sia un annuncio del divino che si nutre di mito, riti e simboli.

 

2. Istanti di pienezza

 

Nel periodo precedente alla stesura di questi dialoghi, l’autore visse un momento di intensa ispirazione poetica e mentre si trovava a Santo Stefano Belbo il 27 giugno 1942 all’amica Fernanda Pivano scrisse così: 

Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo. […] e rivedere perciò questi alberi, case, viti, sentieri, ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro, l’immagine assoluta di queste cose […] insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo.[4]

 

Queste parole tratte da una corrispondenza intima e privata richiamano in modo del tutto coerente quelle che l’autore intreccia nel dialogo Le Muse, dove Mnemosine domanda a Esiodo: «Non ti sei mai chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia»[5]. Allora accarezzi quell’albero come se fosse un amico ritrovato, come se lo sguardo di un passante, il volo di un uccello o il profumo di una rosa ti dicessero «proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva»[6]. E così «per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più»[7]. A rivelare il perché è il poeta Esiodo: «Quell’attimo ha reso la cosa un ricordo, un modello»[8]Nel mondo antico, infatti, il poeta è colui che è capace di raccontare il divino agli altri uomini, perché è il solo che grazie all’ispirazione poetica – essendo caro alle Muse – anche nelle cose banali riesce a cogliere l’archètipo, l’infinito, gli istanti di pienezza. In quello che per l’uomo comune – ιδιώτης in greco – sarebbe un cliché, il poeta scorge il modello, l’archètipo. L’umano ha sempre di fronte a sé la perennità della materia, ma sprofondato com’è nella contingenza, non riesce a vederla. Sottolinea Mnemosine: «Non capisci che l’uomo, ogni uomo, nasce in quella palude di sangue? E che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Ogni gesto che fate ripete un modello divino»[9]. Pertanto la madre delle muse assegna al poeta Esiodo il compito di provare a dire ai mortali le cose che sa, perché – come si dice in un altro dialogo – «l’uomo mortale non ha che questo di immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia»[10]

 

3. Mondo titanico e dèi Olimpici

 

Il poeta Pavese racconta di un tempo antico in cui «la bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dèi», un tempo in cui il concetto di morte non esisteva perché non c’era ancora una legge, una forma e tutto era confuso: «La montagna il cavallo la pianta la nube il torrente – tutto eravamo sotto il sole»[11]. Era il mondo dei Titani e dei centauri come Chirone, un mondo in cui «balzavamo come cose come cose ch’eravamo» e «che cos’era il bestiale se la bestia era in noi come il dio?»[12]. Il mondo titanico dunque era caratterizzato da una totale identificazione del divino e dell’umano con la materia.  

Eppure, Ermete chiede a Chirone se il mondo non sia meglio tenuto dai nuovi padroni, gli dèi Olimpici, coloro i quali hanno introdotto ordine, forma e civiltà. Ma Chirone sa bene che con la legge degli olimpici è stata creata anche l’idea della morte, dunque, da quel momento in poi «cosa sono i mortali se non ombre anzitempo?»[13]. In questo “essere per la morte” gli umani supplicheranno il medico, Asclepio, per rimandare anche di un solo giorno il loro destino. Ma Ermete insiste: «E non sarà meglio, ai mortali, finire così, che non con l’antica dannazione d’incappare nella bestia o nell’albero, e diventare bue che mugge, serpente che striscia, sasso eterno, fontana che piange?»[14]. Allora Chirone risponde: «Fin che l’Olimpo sarà il cielo, certo. Ma queste cose passeranno»[15]. Un presagio della fine del mondo olimpico è presente anche nel dialogo Il fiore: «Siamo cose feroci, noialtri immortali. Io mi chiedo fin dove gli Olimpici faranno il destino. Tutto osare può darsi distrugga anche loro»[16]. In queste parole di Pavese possiamo rintracciare l’idea che il modo in cui l’umano intende ed esperisce il divino cambia nel corso del tempo. Freud ne L’avvenire di un’illusione sostiene che le «rappresentazioni religiose […] sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell’umanità»[17], in altre parole il tentativo di sublimare questi desideri proiettandoli in una dimensione divina, eterna, immortale. Potremmo pensare pertanto che così come mutano i desideri umani al variare delle civiltà allo stesso modo mutano le umane rappresentazioni religiose. 

 

4. Il sorriso degli dèi e la tragedia dell’umano schiacciato dal destino 

 

In realtà, non solo l’umano ma tutto il cosmo è in continuo mutamento, niente permane nella stessa forma. Pavese sembra guardare con interesse a questo aspetto come possiamo evincere dalle parole con cui dà voce alla sua Britomarti, la ninfa della rupe mutata poi in ninfa del mare: «La nostra vita è foglia e tronco, polla d’acqua, schiuma d’onda. Noi giochiamo a sfiorare le cose, non fuggiamo. Mutiamo. Questo è il nostro desiderio e destino»[18]. Ogni cosa è materia in mutamento, “nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma”, come sintetizza il primo principio della termodinamica. Per dirla con le parole di Pavese: «Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare sé stesse e il destino»[19]. Sorridere significa diventare il destino, accettarlo completamente. Ma soltanto gli dèi sorridono, perché solo loro riescono a guardare il futuro, il destino e ad accettarlo senza dolore. Parlando di Odisseo, invece, Circe afferma: «Capiva ogni cosa. Tranne il sorriso di noi dèi»[20]. L’umano infatti – vittima com’è delle passioni più conturbanti – ride e piange ma non sa sorridere, e non sa sorridere perché non è capace di alzare lo sguardo di fronte ad άνάγκη. Edipo, ad esempio, non riuscendo a sostenere la vista del suo tragico destino decide di accecarsi con gli spilloni di Giocasta, colei che è sua sposa ma anche sua madre. 

 

5. Il divino, l’eroico, la giovinezza: gli immortali

 

È la giovinezza la sola stagione della vita nella quale l’umano riesce quasi a sfiorare il divino. Come dice Achille nel dialogo I due «da ragazzi si uccide, ma non si sa cos’è la morte. Poi viene il giorno che d’un tratto si capisce, si è dentro la morte, e da allora si è uomini fatti»[21]. È proprio con lo spirito di un ragazzo infatti che Patroclo imbraccia le armi di Achille e va a combattere, sprezzante della morte, del destino che lo attende. Immortali sono coloro che non conoscono la morte, gli dèi. Immortali però sono anche coloro che pur avendo un destino mortale non lo temono, gli eroi. «Immortale è chi accetta l’istante. […] Che cos’è la vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va?»[22]. E dunque Achille rimpiange la sua giovinezza passata:

 

Meglio quel tempo che non c’era l’Ade. Allora andavamo tra boschi e torrenti e, lavato il sudore, eravamo ragazzi. Allora ogni gesto, ogni cenno era un gioco. Eravamo ricordo e nessuno sapeva. Avevamo del coraggio? Non so. Non importa. So che sul monte del centauro era l’estate, era l’inverno, era tutta la vita. Eravamo immortali.[23]

 

In queste parole possiamo rintracciare una certa insofferenza verso una forma del divino che introduce in modo sempre più forte il nomos, quel senso del limite imposto dall’alto. Se con gli dèi ctoni tutto è mischiato, brutale e a-nomico tanto che «la bestia e il pantano eran terra d’incontro di uomini e dèi»[24], è con gli Olimpici che si introduce l’idea della morte e della legge divina. In questo caso però gli dèi sono ancora molti e per di più vivono tra gli uomini. Con il trionfo del Cristianesimo si passa dalla molteplicità degli dèi all’unicità di un dio geloso che peraltro impone il suo decalogo dall’alto di una dimensione trascendente, indirizzando gli umani a vivere da morti per poi resuscitare “passando a miglior vita” In questa escalation di leggi divine, la libertà umana è sempre più ridotta. La dimensione primitiva, istintuale, naturale del divino risulta quasi del tutto soffocata da una dimensione del divino in cui a prevalere è la forma, chiusa, esclusiva e definita. Oggi nell’Occidente con la secolarizzazione della società la forma divina, – quella equilibrata del mondo greco-romano che vive nelle statue più “formose come la Venere di Milo – tende sempre più a nascondersi. Si può assistere all’elaborazione di una tale varietà di concezioni del divino al punto da poter parlare di forme di “religiosità individuale”.  

 

6. Il selvaggio e il divino cancellano l’uomo

 

Nel dialogo La belva Pavese sottolinea il panteismo e l’animismo insiti nell’antica religione greca: «La terra è tutta piena di divino e di terribile. Se ti parlo è perché come viandanti e sconosciuti, anche noi siamo un poco divini»[25]Eppure, il divino può essere pericoloso, in alcuni casi «il selvaggio e il divino cancellano l’uomo»[26]. Questo lo sa bene Endimione che, innamorato di Artemide, non trova più riposo nel sonno perché dorme a occhi aperti, in attesa che la sua dea amata possa rivolgergli anche solo un altro sorriso. Il divino ha cancellato l’umano anche nel caso di quei martiri cristiani che hanno annullato la loro vita terrena vivendo nella consunzione della carne per dimostrare a Dio il proprio disprezzo verso questo mondo. I dogmi cristiani hanno diffuso nel mondo occidentale l’idea di un umano dominatore della natura. Se la religiosità cristiana è esperita ormai in maniera più pacata – potremmo parlare di un “cristianesimo tiepido” –, per contro il retaggio ideologico e culturale che deriva dalla sua morale è percepibile ancora oggi in modo evidente. Basti pensare, ad esempio, agli Stati Uniti dove il puritanesimo dei coloni delle origini ebbe un impatto notevole sulla cultura indigena. Non a caso è possibile tracciare una relazione tra il puritanesimo e la filosofia politica che caratterizza questo Paese, distintosi negli anni per atteggiamenti usurpatori verso la natura, aggressivi e prevaricatori verso altre nazioni e un sistema economico estremamente volto all’utile. Del resto, morto il Dio cristiano, il vuoto che rimane può essere colmato eleggendo a proprio dio altri aspetti della cultura tra i quali lo sport, gli hobby, la politica, il denaro. Oggi homo sapiens – così interessato ai suoi capitali, alla sua individualità, alla sua esistenza circoscritta – rischia di cancellare il genere umano con azioni turpi verso il pianeta che abita e verso la natura di cui è egli stesso parte. Ecco un esempio di come – anche in maniera indiretta – «il selvaggio e il divino cancellano l’uomo»[27]

 

7. Il divino e la natura 

 

Nonostante tutto «gli dèi durano finché durano le cose che li fanno»[28]: finché le capre salteranno tra i pini e i vigneti, finché il vento soffierà tra le spighe e l’uva maturerà sui rami, finché la terra si coprirà di fiori e ci saranno albe e tramonti, finché esisteranno gli atomi che compongono l’umano così come le stelle. Gli dèi durano finché dura la materia che costituisce il tutto. E sino a quando homo sapiens continuerà ad abitare il mondo, difficilmente potrà estinguersi il suo bisogno di spiritualità così strettamente connesso alla necessità di attribuire un senso al suo stesso esistere. A suggerircelo è proprio Pavese attraverso il dialogo Il Mistero, dove Dioniso a proposito degli uomini dice che «hanno un modo di nominare se stessi e le cose e noialtri che arricchisce la vita. […] Dappertutto dove spendono fatiche e parole nasce un ritmo, un senso, un riposo»[29]. L’umano anela alla forma: ha bisogno di parole, di dare un nome, un ordine alle cose. Il silenzio, l’indefinito, l’insensato possono essere fonte di grande turbamento. «Sanno darci dei nomi che ci rivelano a noi stessi […]. Chi direbbe che nella loro miseria hanno tanta ricchezza? Per loro io sono un monte selvoso e feroce, sono nuvola e grotta […]. Tutto devo a loro»[30] dice Demetra. Eppure non sanno sorridere, «non sarebbero uomini se non fossero tristi. La loro vita deve pur morire. Tutta la loro ricchezza è la morte, che li costringe a industriarsi, a ricordare e prevedere»[31]

 

8. Racconti di rinascita

 

Se l’umano dunque si adopera per dare un senso al suo esistere è proprio per tentare di superare il suo più grande limite, la morte. Allora per aiutarli a «dare un senso a quel loro morire»[32], Demetra vuole insegnare agli umani che possono eguagliare gli dèi al di là del dolore e della morte. Così dona loro un racconto: «Come il grano e la vite discendono all’Ade per nascere, così […] la morte per loro è nuova vita»[33]. Il grano e la vite, simbolo di Demetra e Dioniso, di rinascita nella natura, diventeranno emblema anche di un altro racconto di vita eterna, quello cristiano. Lì saranno simbolo del corpo e del sangue di Cristo, di una resurrezione nell’aldilà. È la stessa Demetra nell’opera a preannunciare che un giorno gli umani ci penseranno da soli a elaborare un altro racconto «e allora noi [gli dèi] ritorneremo quel che fummo: aria, acqua, e terra»[34]

Si tratterà sempre di un racconto ma con delle differenze sostanziali: il racconto degli dèi greco-romani è un annuncio di “rinascita nella natura”, una natura eterna perché se βίος, la vita del singolo, nasce e muore, ζωή, la natura in quanto tale, non muore mai; quello dei cristiani invece sarà un racconto di rinascita dei corpi nell’aldilà, ponendo la resurrezione di Cristo come modello per gli uomini. Del resto – com’è detto in un altro dialogo – «sanno favoleggiare, i mortali. […] Saranno dèi. Oseranno uccidere gli dèi per vederli rinascere. Si daranno un passato per sfuggire alla morte. Non ci sono che queste due cose – la speranza o il destino»[35]. Nonostante questi racconti gli umani moriranno ugualmente, ma moriranno avendo vinta la morte, «vedranno qualcosa oltre il sangue, vedranno noi due»[36], cioè Demetra e Dioniso, il grano e la vigna, il pane e il vino, la carne e il sangue di Cristo. Sarà sempre un racconto, avente peraltro gli stessi simboli, ma il racconto cristiano pone un rischio: «Penseranno soltanto all’eterno. Se mai, c’è il pericolo che trascurino queste ricche campagne»[37]. Un pericolo che difficilmente potrebbe appartenere al panteismo e all’animismo della religione greca. 

 

9. I Greci e la natura, i Greci e il divino

 

Ne Il diluvio Pavese offre una splendida testimonianza del rispetto e della cura che i Greci avevano per la natura. Protagonista del dialogo è un’amadriade, ovvero una ninfa dei boschi che nasceva e moriva insieme all’albero a cui era legata. In altre parole, le amadriadi impersonavano l’albero nella sua corruttibilità, distinguendosi dalle driadi, ninfe che costituivano invece la componente spirituale dell’albero ed erano immortali. Se l’albero muore, anche l’amadriade a esso legata muore. Per questo, secondo gli antichi, gli dèi avrebbero punito qualunque mortale che avesse danneggiato un albero. Secondo un ragionamento simile, l’amadriade di Pavese interpreta il diluvio come una punizione degli dèi verso la tracotanza degli uomini. Sarebbe corretto allora se anche noi interpretassimo i disordini climatici del nostro tempo come una punizione della natura per i danni che l’umano ha arrecato all’ambiente? Come risponde il satiro all’amadriade, tuttavia, «non pensi che, se avessero veramente violata la vita, sarebbe bastata la vita a punirli, senza bisogno che l’Olimpo ci si mettesse col diluvio?»[38]. Abbandonando il nostro antropocentrismo, potremmo pensare piuttosto che forse la natura semplicemente è e quello che a noi parrebbe una punizione sarebbe in realtà l’essere della natura che accade, al di là di quello che è bene o male per l’umano. 

 

10. L’incontro con gli dèi

 

Dialoghi con Leucò racchiude nelle sue pagine il riflesso del divino nel mondo antico e per certi aspetti anche nel mondo contemporaneo. Non sembra casuale infatti la decisione dell’autore di chiudere l’opera con un dialogo intitolato proprio Gli dèi. Questa volta gli interlocutori sono due amici dai nomi imprecisati che vivono in un tempo in cui oramai «sul sentiero non s’incontrano più dèi. Quando dico “è mattina” o “vuol piovere”, non parlo più di loro»[39]. Per i Greci dietro un viandante poteva nascondersi Zeus, nelle prime luci del mattino c’era Afrodite, nelle aie che profumano di uva matura c’era Dioniso. Ma al nostro tempo non è più così: alla vista della nebbia o di un sasso che rotola non si pensa più alle cose divine. Non è più nei momenti del quotidiano che ognuno manifesta le proprie credenze, piuttosto «chi siamo e che cosa crediamo viene fuori davanti al disagio, nell’ora arrischiata»[40]. Del resto, come si può oggi vivere come se quello che accadeva in altri tempi fosse vero? Si può davvero tornare a credere «ai mostri, […] ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?»[41]. Eppure uno dei due interlocutori, forse la voce dello stesso Pavese, chiosa: 

 

Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo, fu perché ci trovavano qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane né il piacere, né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi […] l’altra cosa l’abbiamo perduta[42].

 

Qual è la cosa che abbiamo perduta? L’incontro con il divino che abita la natura, la materia, il mondo. Il sacro non riguarda soltanto chiese e paradisi ultramondani, ma ha a che fare anche con un vivere profondo, con l’abitare sensatamente il mondo. In quest’opera, dunque, Pavese, poeta del ‘900, fa sua la raccomandazione di Mnemosine al poeta greco Esiodo: racconta il divino agli umani attraverso la poesia, l’espressione più elevata della nostra capacità semantica.

 


[1] S. Givone, Introduzione, in C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 2015, p. V. 

[2] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 141.

[3] Ibidem.  

[4] S. Givone, Introduzione in C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., pp. VI-VII. 

[5] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., pp. 164-165. 

[6] Ibidem

[7] Ibidem.  

[8] Ibidem

[9] Ivi, p. 166.  

[10] Ivi, p. 116.  

[11] Ivi, p. 28.  

[12] Ibidem.  

[13] Ivi, p. 29.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 29. 

[16] Ivi, p. 35.  

[17] S. Freud, L’avvenire di un’illusione (Die Zukunft einer Illusion, 1927), in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, trad. di  M.T. Dogana, Boringhieri, Torino 1971, p. 170.

[18] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., pp. 47-48.

[19] Ivi, p. 48. 

[20] Ivi, p. 116. 

[21] Ivi, p. 59. 

[22] Ivi, pp. 101-103.  

[23] Ivi, p. 61.  

[24] Ivi, p. 28. 

[25] Ivi, p. 40.

[26] Ibidem.  

[27] Ibidem.

[28] Ivi, pp. 141-142.

[29] Ivi, p. 151.  

[30] Ivi, p. 150. 

[31] Ivi, p. 152.

[32] Ivi, p. 153. 

[33] Ibidem.  

[34] Ibidem.

[35] Ivi, p. 159. 

[36] Ivi, p. 153.

[37] Ivi, p. 154.  

[38] Ivi, p. 159.  

[39] Ivi, p. 170.  

[40] Ibidem.  

[41] Ibidem.  

[42] Ivi, pp. 170-171.

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