di Enrico Carmelo Tomasello
La libertà è
una parola che canta
P. Valéry
Moltiplicare i punti di vista e relativizzare il sapere è ciò verso cui tendiamo in quanto pensatori naturali. Tra l’accostamento di opinioni e l’ineccepibile verità dichiarata, in poche ma lapidarie affermazioni, oscilla ciò che chiamiamo “conoscenza”. Quest’ultima è sempre al centro del dibattito mediatico per metterne alla prova le fondamenta, provare a demolirle e valutare una diversa visione del mondo. Per queste ragioni la ventunesima edizione del FestivalFilosofia 2021 dedicata al tema Libertà è stata una delle più affascinanti ed intrinsecamente legate al tempo che stiamo vivendo. Col susseguirsi di lezioni magistrali, tavole rotonde, attività laboratoriali ed esperienze attive le tre città ospitanti (Modena, Carpi e Sassuolo) hanno intrecciato sentieri ed itinerari della mente percorsi lungo l’arco dei tre giorni (17-19 settembre). Persino il numero dei partecipanti è stato notevole se consideriamo le difficoltà legate alle prenotazioni online e quelle strutturali/logistiche legate agli spostamenti. Quasi 45.000 persone animate da curiosità, interesse e passione hanno assistito alle 45 lezioni in programma per la tre giorni emiliana. Tra i relatori di queste brevi lezioni emergono alcuni profili come: Massimo Cacciari, Eva Cantarella, Maurizio Ferraris, Umberto Galimberti, Carlo Sini, Massimo Recalcati e Donatella Di Cesare. Tutti mossi dalla volontà di presentare una prospettiva sul concetto/idea della libertà ma consapevoli che nessuna di queste avrebbe esaurito la mole di domande ed interventi che seguivano metodicamente alla fine di ogni lezione. Il tempo di un caffè separava una lezione dall’altra, poi la pioggia e qualche rintocco di campana nelle ore prescelte accompagnavano lo scorrere dei pensieri, degli stimoli e delle idee che coinvolgevano l’intera piazza. I colori, le luci e le linee geometriche degli edifici circostanti erano la cornice perfetta per contenere l’incontenibile evoluzione del pensare collettivo. Tra i diversi punti di vista credo che due di questi si pongano a delimitare i contorni del tema: la libertà come illusione e l’individuo condannato necessariamente alla libertà. Cercando di riprendere la trama delle idee esposte dal Prof. Galimberti[1] e delle riflessioni dello psicoanalista Recalcati[2], tenteremo di emulare e ricreare le condizioni per dar vita all’esercizio della nostra ragione.
1. L’ illusione della libertà
Se avessimo la reale cognizione del significato attribuito alle parole che utilizziamo in un dialogo e se fosse chiaro il modo in cui impieghiamo i concetti coinvolti nel nostro parlare quotidiano, ci sarebbero meno incomprensioni e l’indagine filosofica ne uscirebbe impoverita. Questo perché gran parte dei problemi filosofici sono problemi di natura linguistica ed anche quando parliamo di libertà dovremmo chiederci cosa intendiamo per “libertà”. Da queste considerazioni ha preso le mosse la riflessione del Prof. Galimberti, tenutasi all’interno di Piazzale della Rosa (Sassuolo), intorno alle 11:30 di una domenica uggiosa. Dalle sue parole appariva evidente l’idea secondo la quale la maggior parte di noi confonda il concetto di libertà con quella dell’indeterminazione, ovvero con l’assenza di limiti o di determinazioni[3]. Così per rinnovare questa concezione errata bisogna svincolarsi definitivamente da una visione valoriale della realtà ed accogliere lo stato di cose per cui i valori non sono altro che il risultato di un coefficiente sociale. Persino qualcosa che non esiste può incidere e determinare le nostre vite, anche una concezione errata. Per queste ragioni sarà necessario fare qualche passo indietro e ripensare alle due grandi radici dell’occidente: il mondo greco ed il mondo giudaico-cristiano.
Per il primo, il termine libertà non ha spazio in una realtà dominata dalla necessità (άνάγκη) ed in cui la natura è lo sfondo immutabile che regola i cicli della vita. In questa dimensione l’uomo non sta al vertice ma si limita ad osservare la natura per comprendere le sue leggi. L’uomo greco vive dunque nella relazione tra necessario (non prestabilito) e la violazione dei limiti inviolabili; così quando decide di disubbidire alla legge universale della natura è destinato alla rovina, poiché molte sono le cose tremende ma la tracotanza è la peggiore tra quelle che possono capitare all’uomo[4]. Parallelamente nella seconda dimensione, ovvero quella giudaico-cristiana, il concetto di libertà è utile al fine di comprendere il perché sia stato difeso così ferocemente dai rappresentanti del mondo cristiano. A quest’ultimo appariva evidente il nesso tra la libertà, la responsabilità e la sua conseguente punibilità. Il fascino della pena (talvolta persino coercitiva) ammaliava le menti/la mente di chi aveva già interpretato la religione come uno strumento per regnare[5], ma nulla di tutto ciò dovrà apparire originale, dato che l’input della supremazia umana sul resto della specie era espressamente presente nel DNA della dimensione giudaico-cristiana. Basti pensare al celebre passo biblico in cui il comando si rende esplicito “dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”[6]. Ecco il punto di non ritorno della nostra cultura; nostra poiché nessuno potrà dirsi non cristiano da lì in poi.
Siamo tutti cristiani, nella misura in cui abbracciamo una prospettiva positiva del futuro e crediamo che nel passato risiedano le radici dei problemi attuali. Continuando il Prof. Galimberti ha suggerito qualche esempio a sostegno di quest’ultima tesi. Dicendo ad esempio che: per il cristianesimo, nel passato vi è il peccato originale, nel presente la redenzione e nel futuro la salvezza; per la scienza, il passato è ignoranza, il presente ricerca ed il futuro progresso; per Marx nel passato vi era ingiustizia sociale, nel presente bisogna far esplodere le contraddizioni e nel futuro vi sarà la giustizia; ed infine persino per Freud nel passato risiedono i traumi e le nevrosi, nel presente vi è la psicoanalisi ed al futuro è riservata la guarigione. Di fatto tutte queste visioni del mondo apparentemente distanti e diverse sono accumunate da un denominatore comune. D’altronde difficilmente si riuscirebbe a comprendere pienamente l’Occidente a cui apparteniamo se si escludessero le categorie interpretative che il mondo giudaico-cristiano ha prodotto. Da queste proveniamo ed a queste dovremmo guardare se aspiriamo a comprendere il mondo in cui viviamo oggi. Persino nei temi principali del paradigma dominante, come la ricchezza o il denaro, ritroviamo del materiale che richiama il tema della libertà. Già per gli antichi la ricchezza era chiamata la parte maledetta, perché quella parte che eccedeva la necessità e che andava oltre i limiti dell’utilità. Dunque è vero che ciò che possiedi alla fine ti possiede e quest’idea di libertà ci possiede da troppo tempo. Non importa che abbia un vantaggio economico o che sia semplicemente un’illusione vitale, il reale è reale anche perché segna la storia, e l’idea di libertà umana ha fatto la storia della nostra specie. Quella che consideriamo solo quando affrontiamo un discorso prettamente scientifico o sull’evoluzionismo, si ripresenta quando pensiamo al tema filosofico per eccellenza cioè alla fine ultima del nostro percorso, all’implosione di tutti i significati, alla nostra morte. Solo nell’attimo della consapevolezza piena e profonda, comprendiamo che probabilmente non siamo che funzionari della nostra specie e che il nostro crederci liberi è solo un’illusione.
2. Fughe dalla libertà
Immaginando spazi di pensiero non ancora esplorati percorriamo un’altra via tracciata dal FestivalFilosofia2021. La prospettiva proposta da Massimo Recalcati, nell’ultimo pomeriggio emiliano è stata conclusiva nel suo riprendere i temi principali che si sono succeduti in tutte le lezioni precedenti, sia in termini cronologici che in termini concettuali. Il nesso tra libertà e necessità, l’idea di una libertà assoluta, il rapporto dell’individuo col web, la libertà come aspirazione o come sfondo ed infine l’idea di libertà come condanna alla scelta. L’insieme di questi temi trovano approdo nell’aspirazione alla libertà che ci definisce come esseri umani. Dunque è necessario considerare anche che questa ricerca incessante diviene un peso quando riprende i tratti di una ricerca angosciante. Sartre paragonava senza mezzi termini la libertà ad una condanna, nel senso che siamo tutti incastrati in questo continuo fluire di dolori e passioni; oppure parafrasando un celebre testo di Cioran potremmo dire: “L’inconveniente di essere liberi”[7] è la condizione nella quale ci ritroviamo. In questa siamo mossi da diverse spinte interne ed esterne che destabilizzano il nostro percorso continuamente. Senza sosta è la vita degli uomini, senza pace il suo procedere, nell’affanno il suo respiro quando siamo assaliti dalle vertigini delle scelte decisive della nostra vita. Quale carriera intraprendere? Come impiegare il mio tempo? Quali stili di vita attuare? Nel susseguirsi rapsodico delle domande le due spinte (dell’apertura e della chiusura) determinano il nostro fare. Così veniamo accecati dalle logiche del consumo, dal paradigma che annulla il desiderio e lo ripropone nella forma del surrogato di una libertà vuota. Con le parole di Recalcati in uno dei suoi testi più celebri: «È il paradosso dell’iper-edonismo del nostro tempo: la pulsione appare dotata di una potenzialità infinita, si afferma come finalmente libera, svincolata dai limiti della Legge, ma questa libertà non è in grado di generare alcuna soddisfazione. È una libertà vuota, triste, infelice, apaticamente frivola. Lo vediamo nella nostra pratica clinica, lo vediamo nella nostra comune esperienza del mondo. Nella promessa di liberare il desiderio dai lacci di una morale civile repressiva e antiquata, il discorso del capitalista finisce per sancire la sua mortificazione, perché il desiderio, per essere fecondo, per essere generativo per alimentare altro desiderio, per animare l’orizzonte positivo dell’Altrove, necessita una Legge»[8]. Dalle promesse non mantenute del capitalismo bisognerebbe ripartire, dall’essere umano heideggeriano come un essere-con (dove l’altro svuota quell’idea auto-identitaria dell’essere), dalla visione del mondo greca e non dalla paura del diverso e dell’estraneo; dove l’altro è sempre la soluzione nella nostra esistenza ma è anche ciò che la destabilizza e la mette in discussione.
Come viene definita nel dizionario pubblicato recentemente dal Prof. Galimberti[9], la libertà è polisemantica, quindi sarebbe cosa giusta pronunciare il suo nome al plurale, parlando delle libertà e non di una sola libertà assoluta. Di quest’ultima temiamo la sua potenza perché nessuno è in grado di reggere la vista vertiginosa delle sue conseguenze ma preferiamo essere obbedienti ad un padrone affinché ci sia possibile affrancarci dal gesso della nostra libertà individuale. Assetati d’obbedienza andiamo desiderando quella Legge che ci svincoli dal peso della scelta.
A seguito di queste considerazioni è apparso evidente all’uditorio come sia stato possibile che nel ventennio fascista si sia sviluppato un profondo desiderio di dominio e di coercizione. Per queste ragioni Recalcati insisteva sulla pluralità di visioni e sul perché libertà e liberazione non coincidano del tutto ma siano una il presupposto dell’altra. Di fatto anche la pensatrice dei totalitarismi riporta questa distinzione. In Arendt la distinzione è netta: «La libertà viene distinta dalla liberazione, sua condizione necessaria, che consiste nell’assenza delle servitù naturali necessarie al sostentamento […] La liberazione non rende però l’uomo libero, finché questi non agisce con altri suoi pari nello spazio pubblico»[10]. A queste parole aggiungiamo la visione pasoliniana del Novecento che rivedeva nelle parole fede e progresso le mostruosità di un secolo tanto cruento da non avere termini di paragone con le altre epoche storiche. Tuttavia bisogna ancora aggiungere un termine fondamentale che racchiude la soluzione del problema. È necessaria la carità perché da questa proviene l’amore per il prossimo che ci libera e non per un regime che svincola le nostre capacità decisionali ma che sostanzialmente sostituisce le vecchie catene con delle nuove prigioni. Quel desiderio ha solo motivazioni, ma non ammette giustificazioni. Per essere veramente liberi bisogna farsi liberi dal non decidere di esserlo, o con le parole di Fichte, padre dell’idealismo tedesco, che diceva: «Essere liberi è cosa da nulla: divenirlo è cosa celeste»[11]. Questo è il suo significato ultimo ed il motivo per cui l’essere umano continua a provare una fiducia inconscia nei confronti del prossimo. Nonostante i regimi totalitari abbiano agito tutti allo stesso modo, trasformando il diverso (potenzialmente fonte di ricchezza e miglioramento) in deforme, in questa metamorfosi vive il tema del confine sconfinato. Da questa dimensione dobbiamo allontanarci per divenire liberi, per modificare la nostra condizione, per divenire finalmente Dei.
3. Conclusione
Nel corso del ‘900 il mondo della cultura umanistico-scientifica ha prodotto un numero esorbitante di teorie pedagogiche, nella velleitaria speranza di ottenere un modello educativo di riferimento. Ciò che abbiamo ottenuto è stata solo una quantità enorme di precetti, codici deontologici sul comportamento, analisi dell’apprendimento e della meta-cognizione. Sebbene l’intuizione che conoscere o sapere qualcosa non sia una questione di possesso, l’idea che le fasi della vita umana potessero essere suddivise in periodi, stadi o fasi ha da sempre esercitato un certo fascino sulle nostre menti. In questo panorama non trova spazio la libertà umana come “possibilità di fare o di essere”. Quest’ultima appare all’uomo come un paradosso, come qualcosa di necessario, inevitabile ed allo stesso tempo superflua, ma come diceva il filosofo de La ribellione delle masse:«All’uomo è necessario solo ciò che è oggettivamente superfluo»[12]. Infine comprendiamo quanto sia essenziale riflettere ancora una volta sul tema della nostra libertà, nella misura in cui accettiamo il compromesso fondamentale, cioè che l’idea che tutti andiamo ricercando è pur sempre sfuggente per sua natura e ogni volta che crediamo di averla compresa vi è sempre una nuova accezione, una nuova prospettiva attraverso cui poter analizzare la questione della libertà. Paradosso affascinante e crudele quello del nostro tempo. Intriso nel guazzabuglio di solitudine, depressione e palliativi di cui trabocca la postmodernità ben descritta nelle pagine di Lyotard[13] ed in quelle di Benasayag[14]. Da loro abbiamo compreso quanto la questione delle scelte libere sia una faccenda che investe la sfera pratica (non consapevolmente quella metafisica) e quanto siano necessarie le catena nel processo di liberazione che ogni essere umano singolo o all’interno di una comunità intraprende. Proseguendo abbiamo compreso l’amoralità del processo, sperimentando le violenze che prevede il percorso, ma d’altronde come anticipò quel nobile spirito di Nietzsche: «Senza crudeltà non v’è festa: così insegna la più antica, la più lunga storia dell’uomo – e anche nella pena v’è tanta aria di festa!»[15]. Nella stessa aria dimora la potenziale libertà non ancora conquistata, quella voce che si espande velocemente nel crepuscolo delle opinioni e che invoca l’avvenire nella chiarezza angosciante delle tenebre notturne. Negli orizzonti dell’eterno si spande una voce che giunge come un monito, la voce che prefigura l’entità del futuro ed il suo peso specifico. La voce del destino, come nota la pensatrice spagnola M. Zambrano[16], è l’epifania del logos sommerso o di ciò che prefigura la libertà anelata (nel nostro caso).
Giunti all’epilogo di quest’itinerario avremo la consapevolezza di ciò che è accaduto, poiché la domanda iniziale ha mutato forma, non si tratta più del domandarsi se siamo o non siamo liberi ma del saper abitare per qualche minuto lo spazio di questa domanda. Contrariamente a quanto appreso a scuola per anni, comprendiamo adesso che la conoscenza ed il sapere non sono qualcosa di statico, non sono lineari e non percorrono traiettorie semplici. Alcune risposte vivono in superficie mentre altre sono inabissate nei fondali della nostra memoria sociale; nel marasma delle opinioni, dei dati e delle informazioni si nasconde la Verità. Non bisogna dunque aver paura delle aporie perché sono parte dell’itinerario conoscitivo, questa consapevolezza deludente ci aiuterà nelle prossime ricerche a capire che alla fine potremmo pure non ritrovarci nulla di concreto in mano nonostante l’indagine sia stata profonda ed analitica.
Spero solo che nel groviglio filosofico di domande sulla libertà si siano dipanati i contorni e che abbiano assunto finalmente i connotati di un paesaggio limpido e cristallino. In questo luogo meraviglioso il nostro sapere ha tentato di abitarne i quesiti, ha provato a spostarsi con flessibilità ed è forse riuscito a rialzarsi velocemente ad ogni caduta. Questa è non l’ultima parola sul tema, e con ogni probabilità non lo sarà ancora per molto, perciò continueremo ancora a navigare le acque della riflessione filosofica ricordando che il fine ultimo della nostra conoscenza non è possedere tutte le risposte alle nostre domande ma saper sperimentare le infinite combinazioni che giungono ad ottenere una risposta.
[1] U. Galimberti ha insegnato Filosofia della Storia presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia. Nel suo percorso di studi ha indagato con metodo genealogico le nozioni di simbolo, corpo e anima, rendendo visibili le tracce del sacro che persistono nella nostra civiltà dominata dalla tecnica.
[2] M. Recalcati è uno psicoanalista italiano di orientamento lacaniano. Insegna Psicopatologia del comportamento alimentare presso l’Università di Pavia e Psicoanalisi, estetica e comunicazione presso l’Università IULM di Milano. Oltre ad un lavoro di ermeneutica dello sviluppo e della struttura del pensiero di Lacan, ha indagato la figura del padre, della madre e della relazione familiare nell’epoca della crisi dell’autorità.
[3] Cfr. N. Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Torino, Utet, 2013, p. 575.
[4] Cfr. «Molte sono le cose tremende, ma nulla è più tremendo dell’uomo» in Eschilo-Sofocle-Euripide, Tutte le tragedie, Milano, Bompiani, 2018, p. 785.
[5] Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Milano, BUR, 1984. La religione veniva definita dal filosofo italiano come «Instrumentum regni» attribuendole in tal modo un’accezione politica e civile.
[6] Gn 1, 28.
[7] Cfr. E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, Milano, Adelphi, 2019.
[8] M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2018, p. 8.
[9] “In psicologia questo concetto […] è stato affrontato nell’ambito della psicologia della personalità e qui cadenzato a due livelli: 1) assenza di costrizioni o di impedimenti (libertà da…); 2) capacità di determinarsi secondo un’autonoma scelta in vista di fini con ricerca di mezzi adeguati (libertà per…)” in U. Galimberti, Nuovo dizionario di Psicologia, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 703.
[10] M. Redaelli, Lezioni di libertà. Hannah Arendt in America, Pisa, Edizioni ETS, 2014, p. 81.
[11] Cfr. Isaiah Berlin, Libertà, a cura di Henry Hardy, trad. di G. Rigamonti e M. Santambrogio, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 52.
[12] J. Ortega y Gasset, Aurora della ragione storica, Milano, SugarCo Edizioni, 2009, p. 285.
[13] Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2017.
[14] Cfr. M. Benasayag, Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa, Milano, Feltrinelli, 2015.
[15] F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, Milano, Adelphi, 2018, p. 55.
[16] «La voce del destino si ode molto di più di quanto non si veda la sua figura», in M. Zambrano, Chiari del bosco, Milano, SE, 2016, p.18.