Una specie di magia. Io e Freddie

Recensione a:

Francesco Santocono

Una specie di magia. Io e Freddie

Algra Editore, Viagrande (Catania) 2021

Pagine 168

€ 14,00

 

di Mattia Spanò

 

 

Soltanto se esisto in un mondo in cui la Storia, o le esigenze della natura, o le necessità dei miei simili, o i doveri della cittadinanza, o l’appello di Dio, o qualcos’altro di questo genere ha un’importanza essenziale, posso definire un’identità per me che non sia banale. L’autenticità non è il nemico delle istanze che provengono dall’esterno dell’Io; essa anzi le presuppone.

Charles Taylor

 

«Conosci te stesso», recitava una delle massime incise all’ingresso del tempio di Delfi, consacrato ad Apollo. Insieme ad altre sentenze oracolari, l’appena citato detto delfico avrebbe costituito il nucleo speculativo attorno al quale si sarebbe coagulata, in larga misura, la ricerca filosofica della Grecia arcaica e classica. Ma al dire apollineo – come si addice ad ogni pulsante parola divina – sarebbe poi toccato un destino capace di travalicare i secoli, sconfinare ogni steccato, squarciare qualsivoglia confine, per risuonare, ancora oggi, più moderno ed attuale che mai. Breve, netta, asciutta, apparentemente semplice, la massima apollinea reca in sé il gusto del difficile, l’asintotica gittata del complesso, l’inaudito fondo del mistero: è una domanda che rinvia ad un’altra domanda, in un processo che si fa in-finito.

Cenno del dio che mai afferma né nega, ma indica, il «conosci te stesso» è una traccia, un sentore, una chiaroscurale avvertenza che Apollo squaderna all’uomo, instradandolo nel sentiero ininterrotto della ricerca, della conoscenza. Tocca poi all’esserci umano approssimarsi, con meraviglia e perizia, alla complessità dell’intero che, da frammento, abita. E, sulla scorta di ciò, organizzare il proprio stare al mondo. L’itinerario ontologico-ermeneutico sgorgante dal detto delfico si configura, così, come un canale di espansione teoretico e vitale, come la possibilità di addentrarsi nelle più strette e recondite maglie dell’essere, come l’occasione di vagliare il denso, profondo, originario, fondativo rapporto tra le parti ed il tutto, l’unità e la molteplicità, la stasi ed il mutamento, l’identità e la differenza; perché il «conosci te stesso» rimanda ineludibilmente dinanzi a sé e al mondo, se l’uomo – come suggerisce Martin Heidegger – è un essere-nel-mondo e un essere-con-il-mondo, e non può pensarsi prescindendo dal fondo ontologico in cui si trova gettato e dalla nebulosa comunicativa, relazionale, sociale, comunitaria che ne fonda l’esserci. 

Seguire le orme di Apollo si configura, allora, come una pratica indagatoria in cui l’uomo, ri-scoprendosi come parte di un tutto che soverchia gli angusti limiti dell’esistenza isolata, può rivolgersi – in maniera, come si è detto, asintotica ed ininterrotta – all’evento-vita abitandone la complessità. Il che significa divincolarsi dal non di rado implacabile irretimento a cui conduce un atteggiamento solipsistico, sciogliere gli stretti nodi allacciati ad arte dal narcisismo; e, quindi, predisporsi in maniera altra nei confronti di sé, dell’altro da sé, del mondo: vivere politicamente, se per politica si intende – in senso greco – qualunque genuina, autentica e costruttiva estrinsecazione di sé nella polis, nel contesto comunitario; vivere eticamente, lasciare un’impronta, restituire tracce, spunti, orizzonti. Abitare il detto delfico significa, dunque, rivolgersi all’altro, tentare di accostarsi allo straordinario che traluce dall’ordinario, inerpicarsi in sentieri ardui, scoscesi, difficili, in ultima analisi aporetici, ma non per questo meno necessari da percorrere; perché in ciò consiste la meravigliosa e, al contempo, terribile vicenda dell’uomo nel mai-del-tutto-afferrabile intero. 

Le polifoniche e multidirezionali vie che si dipartono dal «conosci te stesso» sfiorano le corde di quanto più intimamente appartiene all’uomo: ripercorrerle significa ritrovarsi, in maniera sempre rinnovata, in quanto esseri umani. Ed è questo movimento archetipico che accade, che si ripropone, nelle pagine dell’ultimo lavoro di Francesco Santocono: Una specie di Magia. Io e Freddie.

Il testo, edito da Algra Editore, si articola attorno alle vicende esistenziali ed esistentive di un nutrito e variegato spettro di protagonisti, nell’ossimorico teatro della città di Catania. Su tutti svetta Andrea, giovane musicista e studente del Dams, la cui esistenza – apparentemente distesa, priva di orpelli, avviluppata attorno a pochi punti saldi – è puntellata da capillari e carsici turbamenti, inquietudini, sradicamenti; l’imperante e totalitario senso di spaesamento – sfondo costante dell’odierno incedere nel mondo nell’età della tecnica – investe, travolge, scompiglia, destabilizza, destruttura la vita del giovane catanese che, a contatto con il gelido tocco dell’horror vacui, rifugge gradualmente dai più cari affetti e dallo studio, per riempire i vuoti esistenziali con torbide frequentazioni di covi di violenza ed intolleranza e non rari momenti di eccessi: «Da quando mio padre è andato via di casa, il suo rapporto con gli altri è del tutto cambiato. Non è più riuscito a ritrovare la strada maestra ed è come se cercasse l’occasione giusta per farsi puntualmente del male. E quei suoi amici poi, dove mai li avrà trovati?» (p. 97) – avrà modo di constatare suo fratello Marcello. Ed è proprio in seguito ad una nottata di stordimento, trascorsa tra alcol e marjuana[1], che ad Andrea comparirà il fantasma di Freddie Mercury. Inizialmente incredulo, il giovane addebita l’inverosimile visione ai postumi della serata precedente; ma il frontman dei Queen, lungi dal ridursi ad un’isolata ed improbabile allucinazione post sbornia, non abbandonerà più Andrea, facendosi banco di confronto e scontro nel percorso di resilienza che il protagonista dell’opera intraprenderà. Come suggerito dalla stessa etimologia del termine ‘fantasma’ – dal greco phántasma: figura, visione, apparizione, immagine e, per estensione, pensiero, idea – Freddie Mercury non è altro che la voce interiore di Andrea, la più profonda fonte di dialogo con sé stesso; una figura assimilabile a ciò che nella Grecia arcaica e classica era definito dáimōn, entità intermedia tra l’umano ed il divino che fungeva, secondo Socrate, da genio tutelare dell’incedere dell’uomo nel mondo: «[…] in me si manifesta qualcosa di divino e di demonico, quello che anche Meleto, facendo beffe, ha scritto nell’atto di accusa. Ciò che si manifesta in me fin da fanciullo è come una voce che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello che sono sul punto di fare»[2]. Da questo breve passo dell’Apologia di Socrate, emergono tre principali direttrici di fondo: in primo luogo, il filosofo si riferisce al dáimōn in termini di influsso, ispirazione proveniente dall’alveo del divino, del demonico – nel senso sopracitato di entità semidivina che si configura come un canale di tensione e approssimazione dell’uomo al divino; nelle battute finali del passo, Socrate descrive invece il demone come una voce interna che, manifestandosi (imponendosi, come precedentemente specificato, dalla dimensione divino-demoniaca), ne orienta l’agire. In mezzo a questi due tracciati, poi, fa riferimento all’accusa che lo vede protagonista e vittima del processo che lo porterà alla morte, sottolineando come Meleto – uno dei tre accusatori di Socrate – sbeffeggi il concetto-realtà di dáimōn

Riavvolgendo il nastro, dunque, probabilmente Socrate intende rimarcare, anche in sede processuale, l’importanza, la decisività, la dimensione originaria e fondativa dell’ascolto della complessità dell’intero, dell’altrove, del divino che soverchia l’uomo, nel tentativo umano di pensare il mondo e, conseguentemente, di muoversi in esso. Il dáimōn si configura, allora, come la voce interna che fermenta, gorgoglia, pulsa nell’ineludibile confronto, scontro, dialogo con la voce dell’altro, dell’intero, del divino: è accostandosi ai metabolici ritmi dell’intero – in altri termini, predisponendosi all’ascolto di una voce che proviene da altrove e rimanda altrove – che l’uomo può approssimarsi alla complessità dell’intero (si badi bene ad un’altra topica socratica: il «so di non sapere»).

Chi non tiene conto di ciò – come Meleto o alcune figure che intervengono nell’opera di Santocono – resta arroccato, irretito nel più sfrenato ed acritico solipsismo, nello stagnante emisfero del Diktat, nella condanna senza appello di orizzonti altri; il che comporta, inevitabilmente, ricadute sul modo di intendere e vivere la dimensione relazionale e comunitaria che fonda l’esserci dell’uomo. Da qui l’importanza del «conosci te stesso», nel senso già discusso. E non è un caso che l’impegno morale e sociale di Socrate derivi proprio dal dettato apollineo e da questo, a sua volta, la possibilità umana di approfondire, affinare, perfezionare asintoticamente il proprio modo di vivere nel e con il mondo. Avvalendosi di un dáimōn che, nel caso del protagonista del testo di Santocono è – anche per convergenze biografiche, che culminano in una delicata e profonda sensibilizzazione sul tema HIV – la figura di Freddie Mercury che, presentatosi ad Andrea, ha subito modo di osservare, a mo’ di pungolo socratico, «Se dobbiamo lavorare insieme, serve rivedere proprio tutto!» (p. 23). Ecco il punto: intraprendere un itinerario di resilienza significa affacciarsi alla possibilità di porre in discussione il dato finora per assodato, affrontare faccia a faccia anche il contrario di sé, sciogliere la superficiale coltre di vincoli caduchi, abitare il mistero – perché se non lo si ricusa o non lo si subisce passivamente, l’enigmatico può rivelarsi fonte inestimabile di arricchimento; approcciarsi, in definitiva, all’apertità del mondo in senso problematizzante. 

In una congiuntura storica in cui è la frenesia a dettare i tempi, allora, in questa rinnovata cornice esistenziale, sono concessi momenti di scrupolo teoretico, di meditazione, in cui ritorna più attuale e moderna che mai la massima delfica «conosci te stesso», come ricorda il dáimōn-Freddie ad Andrea: «Mio caro, il tuo è un classico caso di crisi d’identità. Dobbiamo sapere prima possibile chi sei […]. Il mondo cambia in fretta e, se perdi ancora altro tempo prezioso, rischi di riconoscerti in un contesto completamente sbagliato» (p. 47). Se l’odierna, diffusa e pervasiva tendenza a solcare corrivamente le tappe della quotidianità inibisce – quando non elimina – l’approfondimento, si fa sempre più impellente la necessità di approcciarsi al mondo riconoscendone la complessità; così da preservare, custodire lo spirito umano nelle cose, di fronte al rischio di incorrere in una schiavitù vestita da libertà. 

È l’ontologia a fondare la ricerca, la comunicazione, l’in-formazione e non viceversa; e risulta necessario, in tal senso, far fronte a quei processi di riduzionismo, superficialità, banalizzazione ed appiattimento che si inverano come corollari degli assunti fondanti l’età della tecnica: efficacia, efficienza, funzionalità, velocità. E di fronte a metamorfosi ormai collaudate – ma non per questo meno passibili di riflessione – come l’impianto precipuamente massmediatico dell’informazione, della relazione, dell’organizzazione, risulta fondamentale un impegno teoretico e prassico che permetta un movimento libero ed espansivo, e non perimetrato ed ottenebrante. La questione non si adagia sul piano echiano del fronteggiarsi tra apocalittici ed integrati – sarebbe ridondante soffermarsi sullo spettro di benefici al quale permette di accedere l’attuale stato di cose, nella cui bolla ci muoviamo quotidianamente – ma affonda le radici nell’alveo del modo in cui una tale cornice si abita. Santocono, da comunicatore, lo sa bene e ne tratteggia con precisione i contorni (cfr. p. 98). 

Tra ambienti cupi e panorami meravigliosi, spunti di pienezza e frange di disperazione, coni di luce e pesanti corpi di decadenza, scorie ombrose e scampoli di trame rigogliose, i ramificati itinerari squadernati dall’opera Una specie di magia. Io e Freddie, si incontrano a più riprese in una strada maestra: abitare l’evento vita in profondità, seguirne il battito, i respiri, le risonanze. Come tenta di fare Marcello, fratello del protagonista – i cui rapporti, vista un’omosessualità non accettata da Andrea, sono ridotti ai minimi termini – che in occasione del primo incontro con Chiara (fidanzata del protagonista ed altra figura-cardine del testo), si presenta come «un inguaribile appassionato del dettaglio», tendente «alla perfezione», perché d’altronde «Cosa c’è di meglio di un’evoluzione tendente al meglio?» (p. 66). Come rimarca il dáimōn-Freddie Mercury, riferendosi all’attitudine che ne fondava lo stare al mondo: «A me della vita piaceva ogni cosa, ogni dettaglio! Amavo vivere nella bellezza delle cose» (p. 147). La qual cosa, ci porta di fronte ad un ulteriore orizzonte costitutivamente aporetico: cos’è la bellezza? In che modo la si abita? Tentando una risposta definitiva e definitoria si approderebbe ad uno scacco. Come Platone rimarca in chiusura dell’Ippia maggiore – dialogo sulla bellezza – «Le cose belle sono difficili»[3]. Ed è, dunque, forse più fecondo accostarsi alla bellezza, non facendone una questione di esattezza, ma intendendola come un richiamo: un essere tratti a ciò che soverchia il sé; in questo senso, da animali sociali quali siamo, la realizzazione di ciò che più intimamente si definisce ‘umano’, non può che compiersi nel più vasto ambito relazionale-comunitario. Da qui le difficoltà, le lacerazioni, gli sconquassamenti ma anche lo stupore, il ricongiungimento, il sublime, che si avvicendano – anche intersecandosi – nella meravigliosa e, al contempo, dolorosa via della bellezza. «Eroi della resilienza», li definisce il Freddie Mercury di Santocono, ammirati «non […] tanto» per «la loro capacità di rivalsa», quanto piuttosto per «il prezzo da pagare per raggiungere gli obiettivi» (p. 59); prezzo elevatissimo, ma arricchente. 

Tra caratteristici, ma sempre inauditi, panorami e vicoli che raccontano la Sicilia; tra archetipici scenari dove il tempo sembra sospendersi e tipici contesti in cui una sterile stasi regna incontrastata; tra una musica che si fa vita e un’altra, orrenda, «che non concedeva tregua alle orecchie dei presenti» (p. 41); e ancora tra bar, biblioteche, ristoranti, night, squarci marittimi dai quali osservare l’Etna, e zone montane dalle quali osservare il mare; insomma, nel vivo del ritmo pulsante di un mondo siculo, Santocono non fa sconti, non si presta ad assoluzioni e tesse anche una pregiata dichiarazione d’amore alla città di Catania, teatro dall’essenza e dai contorni profondamente contraddittori, ambigui, ambivalenti, «inesorabilmente divisa tra voglia di riscatto e declino culturale» (p. 54); ma gravida di luoghi, storie ed opere dall’inaudita gittata. Sta a noi tentare di viverla e vivificarla, abitandone la straordinarietà dell’ordinario, predisponendoci all’evento-vita nella sua complessità. Con meraviglia e rigore: come «una specie di magia» (p. 161). 

 

 



[1] Rimbomba qui il tema dell’odierno fenomeno, particolarmente diffuso tra i giovani, del tramortimento come ultimo, disperato gesto per poter sentirsi vivi; e più che sugli effetti, bisognerebbe soffermarsi seriamente sulle cause di questo preoccupante stato di cose.

[2] Platone, Apologia di Socrate, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2015, 31d, pp. 105-107.

[3] Platone, Ippia Maggiore, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2015, 304e, p. 291.

 

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