Recensione a:
Simon Critchley
Note sul suicidio
(Notes on Suicide, Fitzcarraldo 2015)
Trad. di Alberto Cristofori
Carbonio Editore, Milano 2022
«Particelle, 3»
Pagine 155
€ 9,00
di Sarah Dierna
«Non ho niente da dire, che possa essere detto.
Avrei preferito il silenzio, il mio più fedele amico,
elegante infallibile, adatto a tutto,
ma per quanto sia stato capace di vivere nell’isolamento, il più completo,
mi assale ora l’assurdo desiderio di ringraziare.
Scusarmi. Dare una spiegazione. Un segno, quale non saprei.
Dimenticatemi spesso.
Dimenticate Onoff!».
Onoff – Una pura formalità (1994)
Parlare di un atto radicale ingombrante definitivo come il suicidio è possibile soltanto se si possiede l’esperienza– e non il linguaggio, come vorrebbe Critchley – giusta. Esperienza che non acquisisce solo chi ha attentato alla propria vita ma chiunque abbia davvero saputo «sperimentare e descrivere quanto accade quaggiù»[1]. L’autore di questo breve saggio, che tuttavia confessa persino di avere pensato al suicidio, «[mi] sembrava una decisione logica per uno che lottava con quelle che potremmo chiamare pene d’amore e con la sensazione che la sua vita si stesse disintegrando»[2], pare mancare di tale esperienza e questo segna poi anche il limite di un lavoro che dichiara di volere semplicemente «capire il fenomeno, il gesto in sé, ciò che lo precede e ciò che ne consegue»[3]. L’analisi di Critchley finisce dunque per proporsi come una banale ripresa di alcune delle tradizionali tesi contrarie al suicidio e della loro fallacia, argomentate poi da alcune nuove intuizioni che tuttavia mancano anch’esse di cogenza logica, per approdare infine a un «rifiuto pessimistico del suicidio» che forse altro non è che il tentativo di giustificare in realtà le ragioni della scelta dell’autore, alla fine, di restare ancora un po’.
Come Hume anche Critchley, partendo dalla constatazione che «la primigenia costituzione dell’io ha luogo nella libido narcisistica che mira a conservare l’io stesso a qualsiasi costo»[4], ritiene che nessuno faccia «getto della vita» finché valga la pena conservarla; per il secondo però, perché il suicidio sia possibile, o anche solo pensabile, occorre che l’individuo si faccia oggetto a se stesso rendendosi così soggetto responsabile della morte dell’oggetto odiato:
Dato l’intenso amore che proviamo per noi stessi, per ucciderci dobbiamo trasformarci in oggetti. Più precisamente, dobbiamo trasformarci in oggetti che odiamo. Il suicidio quindi, a rigor di logica, è impossibile. Io non posso uccidere me stesso. Ciò che uccido è l’oggetto odiato che sono diventato. Io odio la cosa che sono e voglio che essa muoia. Il suicidio è omicidio[5].
È una tesi che ha dell’assurdo, per tante ragioni. La prima e più evidente consiste già nella presunta distinzione che di un individuo si può fare tra soggetto e oggetto; affermare di uccidere non se stessi ma «l’oggetto odiato» che si è diventati equivarrebbe infatti a dire che il suicida continua a esistere sopprimendo solo quella parte-oggetto che ha e tuttavia, siccome «io odio la cosa che sono» ciò che si uccide alla fine è quel se stesso che si vorrebbe salvare. Il suicida, detto altrimenti, non vuole rinunciare a una parte di sé, ma alla propria presenza nel mondo. Che nei messaggi di addio questi «trasform[erebbe] se stesso in oggetto […] da affondare in un pozzo amaro»[6] può anche essere vero ma perché colui che sta per non esserci sta pensando se stesso a posteriori, come qualcosa che nel momento in cui quel biglietto verrà letto non ci sarà già più. Il suicidio è quindi, sì, omicidio, perché ciò che comporta sarà sempre privare un uomo di una vita, un omicidio in cui vittima e assassino coincidono però.
Non soltanto un omicidio. Ma un omicidio, sempre secondo Critchley, anche esibizionista, irrazionale, altruistico, vittimistico.
A meno di accettare che il suicidio è molto spesso un gesto pubblico, si tratta di un gesto pubblicitario. Il che forse comincia a spiegare la popolarità di certi luoghi di “suicidio”. […] Il messaggio di addio dei suicidi, quindi, è una forma di messa in scena, il sintomo di un deliberato esibizionismo[7].
Se c’è qualcosa che si esibisce nell’atto di togliersi la vita è il fardello di quella stessa vita che si stava vivendo. E ancora, una messa in scena il suicidio? A meno che sia solo una tragedia da palcoscenico al termine della quale il protagonista torna vivo una volta chiuso il sipario, di un gesto ultimo come la morte non si ha nessuna messa in scena. La popolarità di certi luoghi, invece, non possiamo credere che risieda davvero nella loro visibilità, anche perché questo comporterebbe il rischio di essere ostacolati nel compiere il proprio gesto; più semplicemente chi vuole morire vuole avere la certezza di riuscire a farlo e attingere agli stessi luoghi in cui, prima di lui, altri hanno posto termine alla loro vita può essere confortante (confortante che anche per loro accadrà lo stesso). Alla credenza che con la propria morte si voglia in realtà punire qualcun altro o vendicare un’ingiustizia subita si risponderà con Hume dicendo che «nessuno [ha] mai gettato al vento la sua vita, quando valeva la pena di conservarla. Perché l’orrore che proviamo naturalmente per la morte è tale che delle piccole ragioni non riusciranno mai a riconciliarci con essa»[8]. Non fa parte dell’atteggiamento vendicativo un sentimento di piacere rispetto a ciò di cui ci si sta vendicando? E questo godimento non si può avere solo rimanendo in vita? Anche alla luce delle letture che lo stesso Critchley dice di avere fatto e a cui ha attinto per accostarsi a questo tema, dovremmo ricordare che chi ne parla è sempre colui che esiste; è chi esiste ancora – e magari ha assistito a casi di suicidio che hanno fortemente scosso i rispettivi affetti – che ipotizza le ragioni che si celano dietro queste morti e che per questo avverte quello di colui che si è congedato come un modo appunto di vendicarsi rispetto a qualcosa. Almeno da parte di chi scrive resta, tuttavia, la supposizione che le ragioni debbano essere meno ‘umane’ per portarti all’ ‘inumano’ (perché contrario al normale istinto di volersi conservare) atto di togliersi la vita; insomma, degli altri esseri umani, arrivati sull’orlo della propria esistenza, dovrà importare loro ben poco.
Al di là della natura di queste ragioni ciò che è certo è che delle ragioni ci siano. E allora agli interrogativi di Critchley che domanda
Non è forse la morte un fatto in sé eteronomo, un consegnarmi a qualcosa al di fuori del mio controllo, un tipo di esperienza di cui non posso mai fare esperienza, cioè la morte? Non è quindi il suicidio implicitamente irrazionale? Un salto nel buio? Un atto di fede?[9]
si risponderà che sì, la morte è «un tipo di esperienza di cui non posso mai fare esperienza», ma che della vita però si è fatta abbastanza esperienza per decidere di interromperla; che no, proprio per questo il suicidio non è «implicitamente irrazionale» perché – come lo stesso autore in una delle sue pagine scrive – «per quanto possa suonare paradossale, la decisione di porre fine alla propria vita è un’esigenza della vita per sfuggire a una vita di prigionia senza dignità»[10]; in ultimo sì, il suicidio può anche essere un «salto nel buio» ma che dopo avere percorso il buio della propria esistenza non fa poi così paura.
Rispetto alla più generale resistenza nei confronti della morte volontaria «è chiaro che la proibizione cristiana del suicidio continua a condizionare in modi sottili il nostro pensiero morale, spesso senza che ce ne rendiamo conto»[11]. In questo modo l’autore «sempre più deluso dai modi limitati e prevedibili in cui si parlava del suicidio e dei suicidi»[12] ritorna a pensare il suicidio a partire da quelle stesse ‘limitate’ e ‘prevedibili’ confutazioni che la religione ha mosso, qualcosa che non è più accettabile in un filosofo del XXI secolo. Non è più accettabile non solo perché il secolo XXI è ormai diverso rispetto a quello in cui Hume scrisse le sue riflessioni sul suicidio, ma perché dovrebbe essere ormai evidente che ci si appella a Dio soltanto perché si tratta di una confutazione che resta ‘forte’ contro l’argomento del suicidio e dietro a essa si cela infatti una ragione che niente ha di religioso: quella di volere esistere il più a lungo possibile. Non è possibile concepire che questo non valga per alcuni, non è possibile concepire il suicidio perché questo abolisce il futuro. Ma soprattutto, ammesso che queste confutazioni siano ancora valide, ammesso che la vita sia davvero un dono di Dio, ammesso che sia davvero sacra e che ci sia davvero un diritto alla vita inalienabile, tutte queste cose hanno davvero senso? Ha davvero senso sapere che la vita sia sacra per decidere di non precipitarsi giù o che c’è un diritto alla vita inalienabile e a cui quindi non si può rinunciare per non stringere la corda che cinge il collo? A un certo punto, farebbe davvero la differenza sapere che queste condizioni esistono? Personalmente credo che tutto questo, quand’anche fosse vero, conti davvero poco.
Pur muovendo dalle stesse premesse, il filosofo contemporaneo giunge a una conclusione diversa da quella del filosofo scozzese. Per Hume
sia la prudenza che il coraggio dovrebbero spingerci a liberarci subito dell’esistenza, quando diventa un fardello. È l’unico modo per potere essere utili alla società, dando un esempio che, se imitato, conserverebbe a ciascuno la possibilità di essere felice in vita, e lo libererebbe efficacemente da ogni rischio di infelicità[13].
Per Critchley «togliendoci la vita non salveremo niente, e la convinzione che il suicidio sia l’unica via di uscita deriva da un’arrogante sovrastima della nostra capacità di salvarci attraverso l’autodistruzione»[14]. Anziché scegliere di morire,
perché non calmarci e godere lo spettacolo della malinconia del mondo, che si dispiega così ampio e delizioso di fronte a noi? […] Perché non tentare di rovesciarci come un calzino, prendendo le distanze dalle odiose sofferenze interiori, e rivolgerci agli altri, non in nome di qualche diritto o dovere, ma per amore? Ciascuno di noi ha il potere di uccidersi, ma perché non scegliere invece di darsi a un’altra persona o ad altre persone in un gesto d’amore, cioè di dare qualcosa che non abbiamo e ricevere qualcosa su chi non abbiamo alcun potere? Perché non tentare una minima presa di distanza dall’avversione di sé che ci lacera e ci paralizza, verso un’altra possibile versione di noi stessi? Non è più coraggioso, in fondo?[15]
In questo «darsi a un’altra persona o ad altre persone in un gesto d’amore» risiede la vicenda personale di Critchley che proprio a partire da una pena d’amore aveva scelto di morire – almeno così scrive – e il tentativo di giustificarla. Un’alternativa alla morte anch’essa troppo personale perché non si tratta solo di accettare un’esistenza assurda ma di investirla della presenza di qualcun altro, con la certezza che quel qualcun altro ci sia e che sia disposto poi anche a ricevere (forse per questo in quei quindici minuti non riesce a scrivere il biglietto d’addio che vorrebbe lasciare prima di andarsene).
C’è però un elemento di merito – anche se non è con queste intenzioni che lo restituisce l’autore – nelle pagine di Note sul suicidio: «Il suicidio – scrive – provoca una particolare inversione della biografia, per cui tutte le azioni di una persona vengono lette a ritroso, attraverso le lenti dell’ultimo istante»[16]. C’è del vero. A pensare il suicidio dalla parte di chi se ne sta andando non c’è più modo né motivo di rileggere le proprie azioni a ritroso, le si conoscono persino troppo bene, ed è a causa di quelle che ci si ritrova all’ultima pagina un po’ prima del previsto; a pensarlo invece dalla parte di chi preferisce intrattenersi ancora un po’ le cose appaiono diverse e quel gesto serve a ri-comprendere gli istanti che lo precedono non «derubando [la vita] della sua complessità»[17] – come sostiene Critchley – ma piuttosto restituendola in tale complessità, come quando le ultime pagine di un libro chiariscono finalmente quelle precedenti.
Alla fine, forse, dovremmo riconoscere che parlare del suicidio non è poi così semplice. E non è per tutti.
[1] S. Critchley, Note sul suicidio, (Notes on Suicide, Fitzcarraldo 2015), trad. di A. Cristofori, Carbonio Editore, Milano 2022, p. 115.
[2] Ivi, p. 12.
[3] Ivi, p. 30.
[4] Ivi, p. 86.
[5] Ivi, p. 87.
[6] Ivi, p. 88.
[7] Ivi, p. 83.
[8] Ivi, p. 115.
[9] Ivi, p. 75.
[10] Ivi, p. 118.
[11] Ivi, p. 56.
[12] Ivi, p. 5.
[13] Ivi, pp. 151-152.
[14] Ivi, p. 10.
[15] Ivi, pp. 124-125.
[16] Ivi, p. 112.
[17] Ibidem.