Maturità berlinese nella capitale del XX secolo

 di Enrico Palma

 

A Walter Benjamin

 

Una delle mie convinzioni più grandi, nonché nella mia opinione una delle maggiori verità esistenziali, è che esiste con il luogo nel quale siamo nati e cresciuti, a prescindere dal senso di felicità e sciagura che ci rapporta a esso, un legame indissolubile che portiamo dentro di noi per sempre[1]. Nel bene e nel male ci ha formati e resi ciò che siamo, nell’inflessione della voce, nei modi di fare, nelle credenze che abbiamo sul mondo e che a volte dobbiamo purificare. C’è davvero un senso profondo di appartenenza a una parte precisa di questo mondo, una sensazione che fa dell’essere a casa propria una reale garanzia esistenziale. Un luogo che ci attende, che rivela solo a noi i suoi segreti e che reagisce al nostro passaggio. Tuttavia, nelle circostanze imprevedibili della vita, per diletto, necessità o anche destino avverso, succede a volte questo luogo di lasciarlo, con un fenomeno che di solito si condensa nel viaggio. Credo che viaggiare, ed è una seconda convinzione, non sia altro che un modo per conoscere meglio il proprio luogo d’origine. Esistono il nomadismo, la ribellione, la voglia di fuga e il sentimento tipicamente romantico espresso da Novalis per cui è filosofo colui che ha casa in ogni luogo, poiché più di ogni altra la conoscenza filosofica ci immedesima con l’Intero. Sicché quando si torna, magari diversi, si riesce anche a vedere diversamente il luogo che per niente al mondo avremmo sospettato potesse cambiare. 

Ed è a questo punto che forse si comprende che a mutare con maggiore accelerazione siamo proprio noi che duriamo più velocemente di ciò che ci sta intorno. Dopo aver viaggiato e visto tanto, il mondo sembra anche più piccolo, le regole con cui siamo stati allevati meno ferree, alcune preoccupazioni mere insensatezze. Per chi viaggia tanto l’essere umano appare, nei suoi vari tentativi messi in atto per attribuire un senso alle cose e che chiamiamo cultura, persino più strano, e il mondo come una cosa finanche miserabile. Viviamo per anni con la sensazione che ciò che è al di là della nostra siepe sia l’infinito meraviglioso e infinitamente più bello del luogo in cui siamo. Eppure, la delusione che si prova nel vedere i luoghi di cui abbiamo fantasticato innumerevoli volte direi che è più fortificante della loro effettiva realizzazione. Il lato istruttivo dei sogni è infatti solo il loro crollo, e più è rovinoso, più abbiamo da imparare.

Se c’è un luogo con il sogno del quale per vari motivi sono cresciuto sin da bambino, oppure che possa rappresentare per un semplice computo numerico quello in cui oltre alla Sicilia sono stato per più tempo, e quindi deputato a essermi casa e fissa dimora alternativa, questo è Berlino. Una delle città più grandi d’Europa, tra le più frizzanti ed estroverse, coinvolgenti e trasgressive, varie e cangianti, con un quantitativo di possibilità esistenziali esorbitante. Ma anche la città del massacro, della guerra, dei morti, del dolore, della divisione e della faticosa ricostruzione. Se può darsi una formula esemplificativa sull’importanza che questa città riveste per il mondo, direi che, prendendo in prestito un famoso epiteto che Benjamin aveva assegnato a Parigi[2], potrebbe essere capitale del XX secolo. E lo è stata davvero, forse nessuna città occidentale ha subito sconvolgimenti così radicali come Berlino: capitale imperiale, poi repubblicana, poi totalitaria, poi dimidiata nello spartiacque tra i blocchi globali capitalista e comunista, poi ricostituita, e infine, giungendo all’oggi, centro egemone della politica europea. Berlino è l’immagine più densa e concreta del Novecento, il secolo di cui anch’io sono figlio e in fondo tutti noi.

Ma per una storia della città o una guida sui luoghi di maggior interesse e da visitare rimando ai libri. Perché allora parlare di Berlino? Per me Berlino significa uno stato d’animo. E quale precisamente? Ci ho vissuto per diversi mesi se unisco le varie permanenze che vi ho svolto. Il mio affetto verso di lei rimonta ad alcuni racconti infantili che ne hanno fatto un vero e proprio mito di grandezza. È stata la prima capitale europea che ho visitato, la città in cui ho vissuto autonomamente dovendomela cavare per lo più da solo, quella che, per il tanto tempo che ci ho trascorso, ha sviluppato in me un senso di appartenenza e di familiarità da rendermela quasi casa. L’ho vista in tutte le stagioni, sotto cieli diversi, a diverse temperature e condizioni climatiche, dal piacevolissimo fresco estivo, una panacea rispetto al caldo agosto siciliano, alle severissime gelate di febbraio. 

La Berlino dei giorni di sole, pur splendida, è nondimeno una Berlino bugiarda. Come scriveva Benjamin di Mosca, «ogni luogo va visitato nella stagione in cui le caratteristiche del suo clima sono le più avverse»[3]. La tipica giornata berlinese in cui mi sembra che queste condizioni vengano raggiunte ha infatti queste caratteristiche: fredda, ventosa, umida, nebbiosa e soprattutto grigia. La gamma cromatica che Berlino conosce d’inverno, a parte poche giornate invernali di sole e calore, è appunto l’intera scala dei grigi. 

Cammini per strada e il vento ti sferza, e ogni cosa sembra assumere, anche per via del senso di perpetuità negativa che le accompagna, un aspetto lugubre, funereo. Gli alberi scheletriti dei lunghi viali sfiorano le nuvole bassissime, in un continuum che parte dall’asfalto e giunge al cielo, creando una barriera impossibile da valicare e che separa dalla chiarità il pellegrino. I passanti tengono lo sguardo basso, in preda alla corsa del loro giorno andato in deliquio tra afflizione e pianto, e la cenere che lasciano sotto i loro passi è dello stesso colore del cielo. I palazzi, anch’essi ingrigiti dagli anni, frutto di politiche urbanistiche tendenti più all’efficacia che al gusto estetico, aggettanti sulle vie ristrette al punto da soffocare, sono lapidi erette per significare a chi li guardi il congedo dal mondo. La sporcizia appiccicosa della metro, il tanfo che vi si respira, le correnti gelide che investono scendendo le scale, i viandanti in cerca di qualche soldo o di consolazione, la mesta folla alienata, cieca a chi sta intorno e sorda a qualunque voce. Il grigio è il colore mediano tra il bianco e il nero, tra la luce e l’ombra, il giorno e la notte. La nuvola su Berlino, la nuvola che è Berlino, assurge perciò a metafora di vita, ad allegoria del Creato. 

La tonalità emotiva da assegnare a Berlino, il simbolo che la definisce e la innalza a una dimensione di significato più elevata, un’essenza che intercetta, esprime e che bisogna estorcere al grigio per essere compresa, direi che è TraurigkeittristezzaBenché il dizionario suggerisca questa traduzione e nell’uso comune del tedesco con questa parola ci si riferisca appunto alla tristezza, Traurigkeit in realtà cela qualcosa di ben più recondito. Dal termine potremmo infatti desumere il trauern, che significa alla lettera essere in lutto per qualcosa o per qualcuno, da cui può derivare, con una forzatura del nostro dizionario, Traurigkeit come luttuosità. Quando sono a Berlino, al netto della normale dialettica della vita, l’ampia gamma emotiva che in modo dinamico e diversificato prova un soggetto sano, avverto una tristezza come mai in nessun altro luogo. Forse perché non sono stato in luoghi più estremi, come la famigerata Penisola scandinava in cui le poche ore di sole appaiono come un insulto alla giovialità mediterranea, o la steppa russa e i deserti argentini. Sarebbe dunque un fatto semplicemente accidentale, di latitudine, geografico persino. Avevo anche supposto che fossero ferite aperte, le quali credevo che la lontananza e il distacco mi avrebbero aiutato a lenire, salvo invece farle sanguinare ancora più copiosamente.

Colgo dunque un grande lutto in questa città, la distruzione è transitata con enorme crudeltà e le cicatrici sono ancora ben visibili sul suo volto. Può essere il lutto della storia che il popolo berlinese porta ancora con sé ma al quale il mondo sembra aver concesso la grazia, il lutto del futuro tradito di generazioni che hanno immolato se stesse al massacro, il lutto della perdita incolmabile, quando qualcosa di assai caro viene strappato e l’arto mancante non verrà più sostituito. Ho sentito tutto questo, per lungo tempo. Ma l’indole filosofica va sempre oltre la storia cercando di cogliere le ragioni perenni del divenire, con uno sforzo metafisico che dia una ragione anche ai sentimenti e al modo in cui il mondo reagisce in noi.

Ho pensato alle tante esperienze più o meno recenti che mi avevano ferito lasciandomi esangue e da cui volevo fuggire, ora esacerbate dalla nostalgia e dall’iniziale sconforto nel trovarmi isolato in un luogo estraneo; ai divertimenti che avrei potuto avere; ai viaggi che avrei potuto fare; alle persone che avrei potuto conoscere e da cui ricevere nuovi stimoli e nutrimento. Ho pensato alle ragazze che avrei potuto corteggiare per farmi dire da loro anche solo di sì. Ma come sempre, quando si conclude un’esperienza molto attesa, si pensa questo: avrei potuto fare meglio, trarre di più, essere più espansivo e meno arrendevole, forzare il mio carattere.

Ma una figura è arrivata in mio soccorso, a essa ho imparato a pensare molto intensamente, le sue letture sono state gli occhi che mi hanno guidato in questi ultimi mesi, un uomo che a Berlino c’è nato ma che la storia ha poi reso un reietto e che nulla ha visto degli orrori che profeticamente aveva preannunciato. E questa persona è proprio Walter Benjamin. È lui a parlare del futuro perduto che poteva farci felici[4], delle persone che avrebbero potuto renderci migliori, più consapevoli e meno tristi, delle donne che avrebbero potuto ricambiarci donandoci quella pienezza nella vita che solo loro custodiscono e concedono[5]. È Walter Benjamin a parlare di tristezza, di luttuosità, ed è estremamente significativo perché lui Berlino l’aveva nell’anima[6]. Benjamin mi ha insegnato, più di ogni altra cosa, che la malinconia fa conoscere e maturare, che ci rende più profondi. Che la tristezza è sacra«La malinconia tradisce il mondo per amore della conoscenza. Ma il suo ostinato sprofondarsi solleva le cose morte nella sua contemplazione per salvarle»[7]. La tristezza è il modo fondamentale in cui il mondo è: colui che è triste, il malinconico, chi è nato sotto Saturno, è il conoscitore del mondo, colui che vi si immerge più profondamente, che vi si immedesima e può coglierne le ragioni più intime. Una giornata berlinese, portata all’estremo da questa tristezza, è la possibilità più alta di conoscere il vero volto della realtà di cui il resto è solo velamento. Ciò di cui parlo può sembrare disperante, deprimente, assurdo, ma credo che sia in fondo la cosa più vera. 

Berlino rimane comunque la città della sgargiante e colorata vitalità di Prenzlauerberg, di Kreuzberg, del Viktoria Park e della Bergmannstraße, della serenità del Teufelsberg, della fredda compostezza di Karl Marx Allee, dell’eleganza di Unter den Linden, della modernità architettonica del Kulturforum, del Reichstag e di Potsdamer Platz, dei templi musicali della Philharmonie, dei locali sulla Kantstraße, dei clubs in cui ogni briciola di senno può perdersi con qualche euro. Del bellissimo tratto di S-Bahn tra Friedrichstraße e Hackescher Markt che dà sulla Museumsinsel. Berlino è avanguardia culturale, libertà spirituale ed espressiva, tripudio di corpi forse impossibili da pensare più diversi per modo di essere e di comportarsi. Questo è il lato più appariscente e gradevole ma in verità quello meno essenziale. Se penso alla Berlino di adesso rispetto a quella dell’Infanzia berlinese di Benjamin, forse i luoghi di cui parla hanno mantenuto soltanto il nome. Ad esempio, le logge che tanto lo facevano sentire a casa e protetto come tra le braccia di una madre calorosa non esistono più, quei palazzi sono andati tutti distrutti dalla ferocia della guerra e dal suicidio controllato che rappresenta ogni mania politica di dominio. È la città da cui è stato costretto a fuggire, in cui è cresciuto il morbo che avrebbe infettato di follia ragionata l’intera Europa nel suo definitivo tramonto come civiltà egemone del globo. Dei luoghi del mio Virgilio berlinese non resta più nulla, nella Delbrückstraße dove abitava non è rimasta nemmeno la sua vecchia dimora. Adesso, nella Prinzregentenstraße, c’è un anonimo condominio su cui la città ha affisso una targa commemorativa, a ricordare che sulla casa che prima giaceva in quel luogo aveva vissuto e scritto il giusto Walter Benjamin. 

«In ciò che svanisce» c’è, dice Benjamin, «una nuova bellezza»[8], poiché fa provare sentimenti di un sapore raro in questa vita, un misto di rammarico e soddisfazione, di imperfezione e compiutezza. Ma ciò che è perduto può comunque sperare in una possibilità di riscatto, può gridare alla redenzione. Berlino ha ricostruito se stessa dalle macerie della propria caduta, e per questo è metafora, come dicevo, della Creazione. Per Benjamin il mondo è triste perché è radicata nell’uomo una colpa che lo ha depauperato, in altre parole privato dell’appartenenza di sé a se stesso. Dio era nella natura, la sua parola creatrice innervava tutte le cose, generando quell’equilibrio poi infranto dal peccato originale, dalla caduta dell’uomo che nel suo crimine ha trascinato nel baratro anche il mondo, lui che doveva esserne custode e garante nel nome del suo Creatore. Ma se l’uomo è caduto, il mondo non ha più la possibilità per raggiungere Dio. Ecco perché la tristezza: il mondo è in lutto a causa della colpa dell’uomo[9]. Ma può anche non importarci se questa interpretazione possa descrivere i fatti come realmente accaduti, ciò che ci interessa è l’allegoria che porta con sé, e cioè che la realtà è intrinsecamente segnata dal lutto. Chi possiede una naturale tendenza alla tristezza si avvicina al cuore della vita e ne conosce il segreto. «Vive, in ogni tristezza, la più profonda tendenza al silenzio, e questo è infinitamente di più che incapacità e malavoglia di comunicare. Ciò che è triste si sente interamente conosciuto dall’inconoscibile»[10]. È un concetto che non ha parole per essere detto ma che può essere percepito solo da un sentimento dell’ineffabile, perché la natura decaduta è priva di parola, è muta, ma facendosi interamente percorrere da essa, cioè dalla sensazione della colpa, l’uomo triste può sentirla come verità di sé.

Berlino è la città della colpa, in cui ogni cosa, strada, volto, fruscio, rumore, edificio e nuvola, si rivolge al riscatto, implora aiuto, invoca la parola che salva. Chi non intuisce questo, chi non sente il lutto come parte ineliminabile della propria esistenza, non comprende alcunché. Coglie l’essenza della città e la metafora che rappresenta semplicemente come brutte parentesi climatiche che durante una permanenza non si vorrebbe mai che capitassero. Berlino è un enorme cimitero con milioni di abitanti, sulle cui strade resiste tenace l’eco di coloro che non ci sono più e che parlano di un monito per la salvezza, affinché la colpa non sia ancora più tale. Dopotutto, i cimiteri sono «il terreno sotto i piedi dei vivi»[11]. Ciò che Berlino era non lo è più, ma sui resti inceneriti e carbonizzati è sorto il concetto architettonico post-bellico successivo al genocidio e alla tragedia collettiva: il vetro. Berlino ha tentato di rinascere, di sollevarsi come ogni vita dal fondo luttuoso che le appartiene e che la definisce. La città ha sostituito al cemento della lapide la trasparenza della lastra. I vetri vanno sempre in alto, verso il Creatore, a toccare quel cielo nella speranza che per miracolo, una volta sfiorato, possa tramutarsi da grigio in coltre dorata, e dall’oro dissolversi in un’aria fatta di luce. La cupola di Foster del Reichstag cela questo segreto, uno zampillo di vetro immobile che lancia un anelito alla purificazione di tutta la città, il concetto massimo della chiarità, della Lichtung.

Me ne ricordavo quando camminavo per il Flugfeld di Tempelholf, l’aeroporto ridisegnato da Speer e teatro di uno degli episodi più impietosi del Novecento, la famosa Luftbrücke che avrebbe dovuto rifornire di cibo i cittadini di Berlino Ovest. Ci andavo quasi ogni pomeriggio, poiché da lì, se ero fortunato, vedevo alcuni dei tramonti più belli che avessi mai visto. A volte, infatti, a fine giornata le nuvole sparivano disfacendosi nel colore. Gli ultimi raggi di luce le colpivano accendendole di tonalità indimenticabili, una composizione alla Turner, rendendo il tramonto qualcosa di felice. Desideravo allora ardentemente quel sangue della ferita del giorno per risorgere nel sempre della luce. Ma l’indomani tale luce non c’era, l’ennesimo grigio appiattito sul profilo della città ne prendeva il posto. 

Che cosa significa allora questa tristezza? Va al di là delle mie forze cercare di individuarne con precisione le parole, perché forse questa possibilità, come suggerito, ci è preclusa. Direi comunque che è vero che nel mondo c’è una colpa che dobbiamo in qualche modo ripianare, che portiamo il lutto per una realtà che determina sofferenza e affanno, e che tentiamo con ogni nostra energia di dimenticare e di tenere distante per renderci il vivere più sopportabile. Dovremmo invece, se si è veri saggi e più arrischianti, sprofondare in questo male, aspirare al grigio per conoscere veramente, accettare che non esiste liberazione più radicale dell’assecondare la tristezza e del farne parte. Chi coglie il lutto parla il verbo di Dio, diventa con lui una cosa sola e accetta la morte come il migliore dei destini. Il resto è futile distrazione, perdita di tempo, dannazione.

Di tutti i luoghi che potrei nominare come il più significativo e il più bello della città, sceglierei la sala della Alte Nationalgalerie in cui sono custoditi alcuni dei maggiori dipinti di Caspar David Friedrich, il campione dell’arte romantica tedesca. Sono stato in altre sale interamente dedicate alla sua opera, dalla Kunsthalle di Amburgo all’Albertinum di Dresda, ma nessun altro dipinto, e forse nessun’altra immagine, può reggere l’intensità e la potenza della Abtei im Eichwald, della Abbazia nel quercetoLo sfondo di cenere e di nubi è trafitto dalla luce della luna, dei monaci stanno portando in processione un loro compagno defunto dentro il rudere di un’abbazia, nella quale sono appena visibili un crocifisso e delle candele accese. Il resto è cupezza, terrore, lugubre disperazione e privazione assoluta. È l’immagine del lutto, l’esemplificazione della Traurigkeit. Il mondo è in quel quadro, ne è lo specchio più fedele e veritiero. Tutto intorno c’è il querceto, alberi morti i cui rami anneriti sembrano cingere chi li guardi con un abbraccio fatale, un bacio di morte. Ci si sente purificati al vederlo, ma solo se lo si è davvero compreso, perché l’unica forma possibile di tristezza che comunica è data nell’inguaribile solitudine che ci contraddistingue, nella rappresentazione del mondo nella sua verità.

Chissà come vedrebbe oggi Benjamin la sua città, ne avrebbe realizzato un’immagine memorabile, poiché avrebbe rappresentato, devastata dalla guerra e dal dolore, ridotta in macerie e sventrata brutalmente, percorsa dal lutto come da un anelito continuo alla speranza, la raffigurazione più esatta della storia che distrugge, la sintesi della sua filosofia come del male del divenire. Berlino è quel quadro, ne è l’immagine speculare, un pozzo di conoscenza in cui immergersi per esserne risospinti liberati e, avendo toccato la superficie di dolore e tristezza che è propria delle cose, salvi. Capire questo solleva e dà gioia. Mi fa vedere l’azzurro oltre le nubi, i fiori sui rami di quel querceto.

 

[Ringrazio Francesca Bertino, gli altri ragazzi della Freie Universität e lo Cheffo per avermi distolto, ogni tanto, dal pensiero fisso di concettualizzare questa Berliner Traurigkeit]

 

L’immagine ritrae un blocco di cemento del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa di Berlino. La didascalia che ho pensato per questa foto potrebbe suonare, appunto, Le lacrime della storia.

 



[1] Rimanga come teorema il motto pavesiano: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2014, p. 6.

[2] Mi riferisco al testo Parigi. La capitale del XIX secolo, in W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2014, pp. 145-160.

[3] Id., Immagini di città (Städtebilder), a cura di E. Gianni, Einaudi, Torino 2007, p. 58.

[4] Mi riferisco alla teoresi che sta alla base della Berliner Kindheit. Cfr. dunque Id., Infanzia berlinese intorno al millenovecento, a cura di E. Gianni, Einaudi, Torino 2007.

[5] Cfr. Id., Sul concetto di storia (Über den Begriff der Geschichte), a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1999, p. 23.

[6] Forse la più completa ed esaustiva biografia critica su Benjamin inizia proprio in questo modo: «Walter Benjamin non dimenticò mai Berlino, la città in cui nacque; non la dimenticò neppure durante il lungo esilio che durò dalla presa del potere da parte di Hitler nel marzo 1933 alla morte dello stesso Benjamin nel settembre 1940, mentre al confine spagnolo cercava di sfuggire all’esercito tedesco», in H. Eiland, M.W. Jennings, Walter Benjamin. Una biografia critica (Walter Benjamin. A critical life, 2014), trad. di A. La Rocca, Einaudi, Torino 2016, p. 3.

[7] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (Ursprung des deutschen Trauerspiels), trad. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, pp. 131-132. 

[8] Id., Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov (Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows), in Angelus Novus, cit., p. 251.

[9] Naturalmente cfr. Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo (Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen), in Angelus Novus, cit., pp. 53-70.

[10] Ivi, p. 68.

[11] Id., Le affinità elettive (Goethes Wahlverwandtschaften), in Angelus Novus, cit., p. 170.

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