di Marco Rosario Nobile
Quando nel maggio 1484 il maestro Martino d’Aguirre venne compensato per le prestazioni svolte in Sicilia al servizio della corte, le sue peculiari competenze risultano sottolineate dalla definizione di “capi mastru di la arti geometrica”[1]. Il termine anomalo di cui si fregia formalmente un maestro di cantiere (o, più probabilmente, con cui qualcun altro lo etichetta) possiede una solida ragione e rientra nelle esigenze, in verità molto diffuse, di approdare a uno status diverso, di superare in autorevolezza e gerarchia altri colleghi, maestri, capi mastri. Per un erudito del Quattrocento, la Geometria era infatti una delle sette arti liberali, apparteneva cioè a quell’insieme di attività che tra medioevo ed età moderna, delineavano uno scarto rispetto all’artigianato e alla manualità. Per determinare questa posizione differente nel caso di Martino d’Aguirre si sarebbe potuto ricorrere a una parola greca tornata di moda come “architectus”, ma – nonostante l’appeal garantito – non venne fatto. Non è facile individuare i motivi della opzione selezionata ma forse una ragione generale può rintracciarsi all’interno delle conoscenze letterarie del tempo. In un testo abbastanza diffuso nella Palermo del Quattrocento come le Epistolae ad Lucilium di Seneca si possono trovare le ragioni che denunciano una posizione separata dall’artigianato: “Imperoché io non mi riduco a questo che riceva nel numero delle arti liberali e dipintori, statuari, marmorarii vero tutti gli altri ministri della lussuria…” (Epistola 88), ma anche un radicale scetticismo nei confronti della professione dell’architetto: “Credi a me che fo beata quella età prima che si trovassino li architettori” (Epistola 90)[2].
Se anche questi indizi e le ragioni di una selezione linguistica possono sembrare ancora opachi, meno dubbi esistono sull’adozione di termini e di un frasario che è molto più profondo e colto di quanto si possa superficialmente sospettare. Spetta a Sheila Ffolliott, per esempio, avere individuato le matrici auliche di una epigrafe in dialetto che a Messina nel 1548 magnificava il ruolo del maestro Francesco La Cameola nella costruzione dell’acquedotto destinato ad approvvigionare la Fontana di Orione: “M° Chico La Camiola Pchavi Li Montagni e Fichi Viniri L’Aqua a la Chitati, 1548”. Si trattava dell’adattamento di una citazione latina dovuta a Plinio che rammentava un’analoga impresa di un re di Roma: “Quintus Marcius Rex…cuniculis per montis actis”[3]. La probabilità che dietro l’epigrafe messinese ci sia un intellettuale come Francesco Maurolico e la certezza che la comunità aristocratica si sentisse pienamente gratificata da un parallelo con Roma antica costituiscono buone spiegazioni.
In realtà, in più occasioni in Sicilia sembra registrarsi un processo di legittimazione a partire da testi classici, mentre appare altrettanto evidente il ruolo di intermediari che possiedono cultura, strumenti e codici per l’attualizzazione dei termini prescelti. Il processo di per sé potrebbe apparire scontato, ma, almeno per il campo dell’architettura, rivela percorsi che possono dirci molto sul contesto del tempo e sui meccanismi finalizzati al riconoscimento pubblico di una professione.
Non solo i testi dell’antichità ma anche l’autorevolezza di alcuni scritti contemporanei poteva fungere da veicolo. La qualifica di “archimagistro”, assegnata nel 1572 a Giuseppe Spadafora in occasione di un contratto per la chiesa di Santa Maria di Piedigrotta a Palermo[4], potrebbe essere interpretata come una crasi tra architetto e maestro, costruendo artificialmente una sorta di sfumatura intermedia tra professioni e ruoli che si ponevano in distinzione. Del resto sembra questa la motivazione che nel 1526 indusse i canonici del capitolo della cattedrale di Beauvais a indicare come “archilatomorum”, il maestro Martin de Chambiges[5]. Il fatto che nel 1517 persino Michelangelo avesse scelto l’etichetta di “archimagistro” nel “Libello contro Iacopo da Torano e Antonio da Puliga scarpellini”[6] , mitiga però l’impressione di un neologismo adatto a una personalità che progetta e nello stesso tempo dirige un cantiere. In realtà la parola “archimagistro” ha una salda origine toscana e, vista la molteplice presenza di carraresi e fiorentini nei cantieri siciliani del XVI secolo, non dovrebbe sorprendere troppo ritrovarla a palermo. Plausibile, poi, è che il termine sia stato ricavato da un nuovo best seller, come Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani (Firenze 1550), di Giorgio Vasari, che cita espressamente il termine nella vita di Andrea di Cione Orcagna[7].
Intorno alla metà degli anni Settanta, nella cappella Tagliavia, intitolata alla Maddalena nella chiesa Madre di Castelvetrano, Tommaso Ferraro Imbarracochina, figlio del più celebre Antonino o Antonio, siglava una epigrafe pubblica che evidenzia le sue precipue competenze nel campo di pittura, scultura e architettura, mentre al padre, rammentato contestualmente, stranamente veniva riservata solo una padronanza artistica e non architettonica[8]. L’uso del latino e il termine greco “neotericus”, traducibile come innovatore, moderno (ma che negli scritti del tempo non sempre possiede un valore positivo[9]), evidenzia un grado di cultura che probabilmente non era alla portata di un giovane artigiano, formatosi in bottega, e cela ancora l’esistenza o almeno la compartecipazione con altre figure, probabilmente religiosi che stavano aiutando a definire un profilo artistico di alto livello. Agli esordi della sua attività, Antonino Ferraro venne probabilmente condizionato dal già citato collega Giuseppe Spadafora con cui lavora a Palermo nel 1555, quest’ultimo, scultore proveniente dalla scuola gaginiana, già nel 1551 aveva prodotto il progetto di rinnovamento della chiesa di Santa Maria La Nova, mentre negli anni successivi avrebbe intrecciato interessi artistici e architettonici, interessandosi a pittura, scultura e architettura[10]. Alla metà del XVI secolo, anche in Sicilia, il dominio di tutte le arti del disegno costituiva un obiettivo comune a tante personalità, non solo quelle che partivano da competenze artistiche. Nel sud est dell’isola, lontano dalle capitali, si possono registrare casi che compromettono l’idea di un effetto che coinvolge in primo luogo gli artisti esterni alle corporazioni. Così è nel caso di Pietro de Ingarao, modicano che a Noto nel 1548 viene indicato come fabricator[11] e che nel 1562 ha il titolo di «maragmerio et architectore et scultore»[12] . Ingarao sembra figlio di una tradizione gotica, probabilmente disponibile al bilinguismo e a un epidermico processo di “italianizzazione”; l’approdo all’unità delle arti segue quindi percorsi che non si possono schematizzare in un unico sentiero, non è detto che il riferimento letterario sia sempre necessariamente “alto”.
Le piccole edicole appese, con erme, presenti nella cappella D’Aragona a Castelvetrano costituiscono una novità per l’ambiente siciliano e la loro ispirazione da un libro di cenotafi di Vedreman de Vries appare palese. Il titolo e il frontespizio del libro di modelli (FIG.1), edito nel 1563, sembrano perfettamente combaciare con le ambizioni di artisti completi che stiamo esaminando[13].
A maggior ragione questa tendenza a una autorappresentazione letteraria è avvertibile a partire da una attestazione che non è affatto neutrale, allorché nella scritta collocata nel suo autoritratto, all’interno della cappella di Carlo D’Aragona, Antonino si descrive come: “Sicanus”. Basta leggere cosa si scrive dei Sicani nel 1574 in un testo famoso quello di Tommaso Fazello, dedicato a Carlo d’Aragona, per rendersi conto che la strada da seguire è un’altra[14]. La scelta del termine assume comunque un ulteriore interesse perché colloca Antonino in un territorio di confine: sopravanzati i 50 anni, non è più definibile come Hispanus, ma non è ancora Siculus. In questo caso la corretta interpretazione non è indolore perché fa crollare come un castello di carte tutte le retoriche identitarie costruite per decenni dalla storiografia municipalista.
In foto: Frontespizio di H. Vedreman de Vries, Pictores, statuarii, architecti, latomi, et quicunque principum magnificorumq. virorum memoriae eternae inservitis…, Amsterdam 1563.
[1] Il documento (Archivio di Stato di Palermo, Cons. 66, 7 maggio 1484) è stato trascritto in A. Gaeta, “A tutela et defensa di quisto regno”. Il castello a mare di Palermo, Baldiri Meteli e le fortificazioni regie in Sicilia nell’età di Ferdinando il Cattolico (1479-1516): protagonisti, cantieri maestranze, Palermo 2010, p. 390.
[2] Per la precoce diffusione delle Epistole a Palermo: H. Bresc, Livre et société en Sicilie (1299-1499), Palermo 1971, documenti 106 A (inventario di Leonardo di Bartolomeo del 1450 con una edizione manoscritta in volgare probabilmente siciliano); 143 (inventario di Pietro de Afflitto con ulteriore trascrizione in volgare). Per le citazioni, ho usato l’edizione a stampa in volgare, Venezia 1494.
[3] S. Ffolliott, Civic Sculpture in the Renaissance. Montorsoli’s Fountains at Messina, Ann Arbor Michigan 1984, p. 45.
[4] F. Meli, Matteo Carnilivari, Roma 1958, doc. 177.
[5] F. Meunier, De Beauvais à Montdidier, l’itinéraire flamboyant de Scipion Bernard, in E. Hamon e altri (a cura di), La Picardie flamboyante, Art er reconstruction entre 1450 et 1550, pp. 155-171, nota n.16.
[6] Archivio Comunale di Carrara. Carrara, di febbraio 1517. http://www.fh-augsburg.de/~harsch/italica/Cronologia/secolo16/Michelangelo/mic_lcon.html mitiga
[7] Ho consultato la riedizione Einaudi: G. Vasari, Le Vite…, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino 1986.
[8] «Hic quicquid pictura, sculptura et simul architectura extat Thomas Ferrarus, adhuc adolesens, pariter in arte pingendi, sculpendi ac extruendi neotericus, Antonini Ferrari iulianensis, pictoris sculptorisque insignis, fili, a vertice ad calcem studio, ingenio manuque sua graphice pinxit, sculpsit, atque extruxit» .
[9] Come nel caso del De Antiquitate et situ Calabriae di G. Barrio (Roma 1571), allorché riferendosi polemicamente a Maurolico si scrive: “Franciscus Maurolycus, homo Siculus, neotericus scriptor…”. Ho tratto la citazione da B. Clausi, G. Barrio, prima decade 1500 – dopo il 1578, in Galleria dell’Accademia Cosentina, parte II, a cura di S. Plastina, Roma 2016, pp. 15-43.
[10] Sul ruolo di Giuseppe Spatafora (scomparso nel 1572) per la costruzione di una scuola di pittura si veda C. Guastella, Ricerche su Giuseppe Alvino detto il Sozzo e la pittura a Palermo alla fine del Cinquecento, in Contributi alla storia della cultura figurativa nella Sicilia occidentale tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, Palermo 1985, pp. 45-94, alla p. 47.
[11] ASSr (sezione di Noto), notaio Giacomo Rinaldo, vol. 6442, c. 163r. (Noto, 18 dicembre 1548).
[12] Ivi, notaio Pietro Costa, vol. 6533, cc. 111r-112v. (Noto, 12 dicembre 1562)
[13] Pictores, statuarii, architecti, latomi, et quicunque principum magnificorumq. virorum memoriae eternae inservitis…, Amsterdam 1563.
[14] “Dopo i Ciclopi, i quali furono giganti, vennero i Sicani che sono di nazione Spagnuoli o vero habitatori della Spagna” ( T. Fazello, Le due deche dell’Historia di Sicilia, Venezia 1573, p. 39). Rimando a M.R. Nobile, Tra pittura, scultura e architettura: una ipotesi differente su Antonino Ferraro de Imbarracochina (1523?-1609), in Los lugares del arte: Identitad y representación, a cura di S.Diéguez Patao, Barcelona 2014, pp. 199-218.