Sulla complessità: tra attualità e inattualità

di Mattia Spanò

 

Essendo tutte le cose causate e causanti, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, ed essendo tutte collegate le une alle altre con un vincolo naturale e impercettibile che unisce le più lontane e le più diverse, stimo impossibile conoscere le singole parti senza conoscere il tutto, come conoscere il tutto senza conoscere le singole parti[1].

Blaise Pascal

 

L’indagine sulla complessità accomuna lo stare al mondo di chi vive per la ricerca. Plurali gli approcci, molteplici i codici, diversi ed eclettici i livelli e i piani d’astrazione così come i risvolti e le applicazioni del lavoro dei ricercatori; compositi i background, variegati i linguaggi, i sentieri percorsi, i modi e le posture vagliate. Simili sono invece, spesso, l’attitudine e le esigenze di chi consacra la propria vita all’esercizio conoscitivo: tentare di approssimarsi asintoticamente ed ininterrottamente all’enigmatica complessità dell’intero che, da frammenti, si abita. 

Impresa ardua, certo, ma ineludibile. Itinerario essenzialmente difficile, intriso di asperità, strutturalmente costituito da voraci ombre che accompagnano ogni tentativo di fulgore, da riposanti trame di silenzi entro cui tessere scampoli di parole, da un – a volte carsico a volte dirompente – flusso indistinto entro cui si gioca l’impresa conoscitiva umana. In ultima analisi, qualunque sia la prospettiva dalla quale ci si muove, risulta di fondamentale e decisiva importanza predisporsi all’ascolto della complessità, affinché da quest’ultima – sfondo ed orizzonte ontologico-metafisico del nostro esserci – possano originarsi occasioni di espansione teoretica e vitale, itinerari speculativi e prassici che oltrepassino la statica e polarizzata medietà che scandisce l’incedere quotidiano della postmodernità. Farsi carico della complessità significa esporsi all’alterità, al totalmente altro con cui, inevitabilmente, nell’esistere in cui si è gettati si entra in contatto. L’esperienza suppone sempre una relazione con l’ontologica negatività costituita dall’altro da sé, sia in senso eteronomo sia sul piano introspettivo. L’uomo – che del mondo è parte, e dal mondo e nel mondo, dunque, emerge per poi ad esso ritornare – si impregna ininterrottamente e continuativamente di mondo, di altro da sé, in un proteiforme, nebulotico e vicendevole gioco di cenni, spunti, impronte, scambi. 

Lo spirito umano emanato da una cappella palatina d’età normanna – avvolti da cupola e navate ci si ritrova in quanto uomini – rimanda all’elaborazione dello stesso edificio, che ha scaturigine, sviluppi, trame, lineamenti proprio nel tentativo di approssimarsi alla complessa ed enigmatica voce del mondo, a contatto con interrogativi essenziali che, in quanto frammenti di mondo, ci riguardano. Ci si ritrova in una struttura in cui si incrociano sacro e profano, voci d’oriente e parole occidentali, questioni escatologiche e panorami quotidiani. È un edificio parlante, ermeneutico, sorto nella necessità di esplorare il mondo, fissandone punti fermi ma mai esattamente statici. Stare al mondo nel tentativo di comprenderlo nella sua complessità – ferma restando la condivisione o meno rispetto all’impalcatura interpretativa proposta – si declina anche nella costruzione di un edificio, come quello in questione; soggiornarci, come accade abitando opere di simile fattura – ma dai più disparati codici – significa incontrare tanto lo spirito umano quanto la complessità che, in una qualche misura, trae l’uomo a sé.  Il nostro esserci si fonda – tra incanto e disincanto – sull’intima relazione che intercorre tra il tutto e le parti, l’identità e la differenza, la stasi ed il mutamento, la forma ed il metamorfico. In ultima analisi, sulla complessità. Predisporsi all’ascolto di quest’ultima significa rivolgersi all’essere accogliendone l’intricata, enigmatica, chiaroscurale trama. 

Ma la complessità è, oggi, un concetto bicefalo: da un lato la si menziona, evoca, rivendica, se ne evidenzia la necessità; dall’altro è, spesso, ridimensionata, occlusa, respinta, emarginata, offesa. Probabilmente perché l’indugio, il ritmo metabolico dell’opportuno, le ampie frange di assorbimento, sedimentazione, cementificazione – il che non esclude, beninteso, apollinei lampi improvvisi – che la complessità suppone, non si accordano con la frenetica temporalità che fonda l’attuale epoca.

Riflessione, meditazione, approfondimento non possono che essere inibiti in una cornice in cui gli esclusivisti Diktat sono efficacia ed efficienza: differirebbero una produzione che, al contrario, poggia sui pilastri di un consumo istantaneo, seriale, rapido. 

Ma oggi, si assiste anche al riemergere – più o meno marcato – della complessità nelle questioni di dominio pubblico. Al netto dell’ambivalenza della postmodernità – epoca nella quale, non di rado, ciò che in linea di principio si cerca di impartire è, al contempo, respinto nei fatti – esigenze di ordine globale ed eventi di varia natura, impongono con una certa decisione l’importanza di riferirsi alla complessità, della quale risulta più che mai necessario ridiscuterne il significato, la portata, le implicazioni.  

 

1. La complessità come giuntura tra universi: dal Fedro ai sistemi complessi

 

Natura non è solo grazia di un paesaggio che pervade i sensi con piacevole meraviglia. Natura è cosa sacra, tramata di energie sottili. Il visibile affonda nell’invisibile che lo genera e lo sostiene, dettando immagini e discorsi, visioni e pensieri, conducendo la mente oltre sé stessa. Forze latenti che fanno scartare il linguaggio e il pensiero, aprendo la via al battito segreto della realtà[2].

Davide Susanetti

 

Al tramonto vediamo gli stormi formare immagini fantasmagoriche […]. Possiamo passare un tempo indefinito a guardarli, tanto lo spettacolo si rinnova sempre in forme diverse e impreviste. A volte anche di fronte a questa pura bellezza fa capolino la deformazione professionale di uno scienziato e tante domande gli frullano per la testa[3].

Giorgio Parisi

 

Vivere il mondo corrivamente non coincide esattamente con l’abitarlo. Non è solo una questione quantitativa – il tempo che si ha a disposizione o che si impiega – ma anche e soprattutto qualitativa, intensiva, d’attitudine. Occorre dislocarsi, deradicarsi – non per questo rimanendo privi di luogo e radici – per accedere ad orizzonti altri, seguire le scie di dettagli eloquenti, di cenni avvertenti, indicanti. Lo richiede la stessa trama ontologica dell’esistenza in cui siamo gettati, dell’impresa veritativa umana che è meraviglia e terrore, passione e ragione, conquista e scacco, essenzialmente metamorfica. Se così non fosse l’incedere umano nel mondo si ridurrebbe ad una mera iterazione dell’uguale; quando non si tiene conto di ciò si registra un autoreferenziale procedere additivo: 

 

Sono, le soglie, passaggi temporalmente intensi, che oggi vengono abbattuti a favore di una comunicazione e di una produzione accelerate, prive di fratture. In tal modo c’impoveriamo di spazio e di tempo: nel tentativo di produrre più spazio e più tempo, finiamo per perderli. Essi perdono il linguaggio e ammutoliscono. Le soglie parlano. Le soglie trasformano. Oltre la soglia c’è l’Altro, l’Estraneo. Senza la fantasia della soglia, senza la magia della soglia, esiste solo l’inferno dell’Eguale.[4]

 

Accogliere l’esistere come un ininterrotto attraversamento di soglie – come suggeriscono queste parole di Byung-Chul Han – significa abitare l’occasione di attraversare l’evento-vita nell’ottica dell’espansione teoretica e vitale, della perfettibilità. Quest’ultima è una parola-concetto cardine attorno alla cui orbita si concentra – mai statico – il fare umano. Non si tratta della nozione – umanamente mai del tutto frequentabile – di perfezione, ma della disponibilità al perfezionamento. 

In altri termini, un tale stato di cose rimanda alla domanda: se e in che misura si è disposti a ragionare in termini propositivi, migliorativi, tanto in ambito individuale quanto in ambito comunitario?

Interrogativo che investe buona parte delle questioni di pertinenza della regione del politico, se con quest’ultimo termine si intende qualunque tentativo di imprimere la propria impronta negli orizzonti della cosa pubblica, di una dimensione che eccede e ricomprende gli steccati dei singoli. Quesito, inoltre, che ha scaturigine in un fondo essenzialmente complesso, e che di questa complessità deve tenere conto se vuole configurarsi come l’improrogabile occasione di «trovare nuove sintesi che ci rendano capaci di vedere, desiderare e immaginare un orizzonte diverso da quello che le ceneri della postmodernità ci pongono dinanzi agli occhi»[5].  

In questa cornice occorre aprirsi alla problematizzazione di ciò che si manifesta: essere disposti a pensare e ripensarsi, configurare e riconfigurarsi, abitare la complessità delle soglie di cui la trama dell’evento-vita è composta. In itinerari di tale fattura forma ed eventi, meraviglia e disincanto, resistenza e resa, speranza e disillusione si co-appartengono. Ma solo da una simile attitudine possono originarsi oltrepassamenti teoretici e vitali, schegge di straordinario nell’ordinario, il fermentare di interrogativi primi ed ultimi, essenziali.  

E allora anche trovarsi di fronte ad uno stormo di storni, intenti a tracciare spettacolari traiettorie nel cielo di una Roma primaverile, può essere occasione di indugio. Nelle improvvise, rituali e sempre rinnovate, posture che assumono collettivamente in volo questi straordinari animali si possono scorgere tracce degli strani moventi misterici della complessità che abitiamo. Qualcosa traluce, è una questione di predisposizione e ricettività. Per quanto sconcertante possa sembrare, anche un evento simile può costituirsi come l’incipit di una serie di interrogativi dalla profonda gittata, dall’inestimabile risonanza. A testimoniarlo è Giorgio Parisi, vincitore dell’ultimo premio Nobel per la Fisica per i suoi studi sui sistemi complessi: «Esiste un direttore d’orchestra o il comportamento collettivo è auto-organizzato? Come fa l’informazione a propagarsi velocemente attraverso tutto lo stormo? Com’è possibile che le configurazioni cambino così rapidamente? Come sono distribuite le velocità e le accelerazioni degli uccelli? Come possono virare senza urtarsi?»[6]. Ed ecco che, negli interrogativi in questione, baluginano quei quesiti fondamentali che accomunano lo stare al mondo di chi vive per la ricerca: orizzonti aperti in cui si fronteggiano, intersecano, avvicendando necessità e contingenza, senso direzionato e libera organizzazione, unità e molteplicità, intero e parti, singole voci e spettacolo corale. Tematiche, queste, che ispirano le più recenti ricerche della fisica moderna sui sistemi complessi, pur non discostandosi essenzialmente dal più intimo nucleo speculativo che – in quanto uomini – ci richiama, impegna, affatica, ci congiunge e scinde, accorda e divide, da millenni. Interrogativi che, suonando le corde dell’umano, non perdono mai terreno in termini di risonanza, pregnanza, attualità perché nel rinnovarsi, rinnovano; e – al variare di punti d’approccio e terre d’approdo – si incrociano, a più riprese, nella strada maestra della complessità. 

Complessità richiesta dal mondo stesso ed affrontata, in un analogo itinerario di dialogo con l’inaudita e forse non così muta natura, dal Socrate platonico del Fedro. L’attitudine è simile: predisporsi all’ascolto dell’inaudito, aprirsi al non-ancora-frequentato del frequentabile. Essere filologi, amanti del logos dell’essere nella doppia accezione di genitivo soggettivo ed oggettivo. In questa cornice Socrate e Fedro indugiano su molteplici questioni sulla scorta di un testo del poeta Lisia. Al di là dei fondamentali e decisivi squarci contenutistici che tracimano dal Fedro, risulta – per il tema qui discusso – particolarmente importante soffermarsi sul metodo di ricerca che Socrate, nel dialogare con l’amico sulle tematiche proposte, traccia ed invera, abbozza ed incorpora. A ben vedere il discorso di Lisia, che inizialmente entusiasmava senza riserve Fedro, si avvicina più ad un mero esercizio retorico che ad una profonda indagine veritativa; è necessaria una ritrattazione, un ripensamento più originario dello stesso: ed è attraversandone i gangli che lo si riscopre éidolon, vuoto feticcio, mercimonio di parole assimilabile a quei discorsi da contrattazione che transitano «dove tutto è mercato e denaro, avidità e truffa […], discorsi di chi vuol stringere un utile affare senza d’altro curarsi»[7]. Una dissertazione tesa al consenso, all’approvazione, all’apprezzamento del destinatario e, proprio per questo, tessuta sulla scorta delle attese, dei desideri, delle pretese dell’utenza media. Un procedere per tratti comuni – ed a questi, inevitabilmente arroccato – che non può tenere conto di orizzonti che eccedano il punto di vista dominante: pena il rischio di perdere la così ampia ingerenza populistica a cui strutturalmente il dire mira. Ma i discorsi come quello di Lisia, per quanto si diano «l’aria di essere chissà che cosa, nel caso che, con l’aver ingannato alcuni omiciattoli, riescano a diventare famosi presso di loro», difficilmente contengono qualcosa di «sano» e di «vero»[8]. Di fronte a questi occorre, dunque, «purificarsi», ricomporre la complessità decostruita, abbandonare quell’atteggiamento ottenebrante, riduzionistico – e, spesso, compiacente e strumentale – che rifugge dall’arduo, dal difficile, dall’enigmatico. Ciò, chiaramente, non squalifica irreversibilmente Lisia che è, al contrario, chiamato dai fatti stessi a ridiscutere quanto sostenuto – con il diritto, beninteso, di continuare ad affermare quanto proposto. È lo stesso Socrate ad evidenziarlo, sottolineando in tal modo la dimensione continuamente rigenerante e rigenerativa del logos: la ricerca, dal punto di vista umano, è essenzialmente asintotica ed ininterrotta; alla complessità dell’intero che, da frammenti, si abita, l’uomo può solo approssimarsi. E può farlo attestandosi e spingendosi su vari gradi di profondità: accontentandosi dell’éidolon o tendendo chiaroscuralmente all’éidos, la dimensione ideale, eterna, immutabile, mai del tutto attingibile.  

Ed ecco, allora, che il farsi carico della complessità si traduce nella possibilità di andare oltre l’ordinario nel segno della perfettibilità. In un itinerario di conoscenza che – pur nelle rispettive specificità e divergenze – accomuna l’impresa filosofica e l’indagine scientifica. Tendere alla complessità dell’intero, approssimarsi asintoticamente all’éidos, perché «nella ricerca le nuove domande che nascono via via sono più numerose delle risposte che riusciamo ad ottenere»[9]. Non si tratta dell’impossibilità di pervenire a punti fermi, d’approdo, ma di scorgere consapevolmente gli orizzonti dell’inaudito fondo in cui all’umano è dato muoversi. La scienza sembra, dunque, non strutturarsi come l’esatto inveramento di ciò che i greci arcaici e classici definivano epistème, ciò che sta, immobile, indipendentemente dal resto, senza bisogno di alcun ricorso e verifica sul piano sensibile. La scienza – almeno secondo gli attuali dettami che la fondano – necessita di un perimetro entro cui stabilire la veridicità o meno degli assunti sostenuti, nella forma della falsificabilità o meno delle tesi costruite. Ciò che sta, fermo, granitico, non passibile di discussione alcuna è allora il fondo mai del tutto giustificabile che tutto giustifica; l’enigmatico, il misterioso, l’inaudito, il complesso dal quale non si può prescindere in qualunque impresa scientifico-filosofica si intenda addentrarsi. Dal prendersi carico della complessità, dunque, alla complessità si ritorna: tentando di scandirne i metabolici ritmi, abitando gli orizzonti di interrogativi fondamentali, aprendosi all’apertità del mondo. Rifuggire dalla complessità, al contrario, «conduce all’indebolimento della responsabilità (in quanto ciascuno tende a essere responsabile solo del suo compito specializzato), nonché all’indebolimento della solidarietà (in quanto ciascuno non sente più il legame con i concittadini)»[10]. E se, ad oggi, sui principali circuiti comunicativo-informativi vige la preoccupante tendenza a frammentare, decostruire, ridurre, esemplificare il complesso, resta da interrogarsi – con improrogabile necessità – sul perché ciò avvenga. 

 

2. Invito alla complessità: sulla comunicazione

 

Domande e risposte fanno parte di un gioco – di un gioco piacevole e nello stesso tempo difficile – in cui ognuna delle due parti cerca di usare soltanto i diritti che gli vengono dati dall’altro e dalla forma condivisa del dialogo[11].

Michel Foucault

 

Il titolo di quest’ultimo paragrafo si è imposto da sé, da prorompente e ineludibile chiamata di fronte alla quale sarebbe eticamente inammissibile rimanere imperturbabili, impassibili, indifferenti. Ammesso che si riconosca che la realtà abbia i suoi diritti e che non necessariamente debbano regnare indisturbate una fitta coltre di banalizzazione del reale ed una tetra e pericolosa indifferenziazione etica. Dipende da come si decida di stare al mondo, da quale grado di profondità è irrorata la propria esistenza, su quali livelli di comprensione ed approfondimento volersi attestare e, di conseguenza, muovere. Se si pretende – come spesso accade – di parametrare il proprio vivere da uomini su nobili valori che rendano la vita vissuta degna di essere chiamata tale; se ci si appella a diritti inalienabili ed essenziali fondati su idee quali libertà, dignità, civiltà; se si ostenta un atteggiamento di scrupolosa attenzione su tutto ciò che accade, volto a scardinare qualunque accenno di ingiustizia, prevaricazione, discriminazione; se si tiene conto di tutto ciò – se fatti non fummo «a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza»[12] – non può transitare inosservato l’atteggiamento di chi, dalle più alte vette dell’apparato comunicativo-informazionale, scredita, svilisce, ripudia, sbeffeggia, emargina chi, sine ira et studio e con una profonda disponibilità al confronto, invita alla complessità. E lo fa sul piano della prospettiva, della predisposizione, dell’attitudine, a prescindere dall’effettiva condivisione delle elaborazioni proposte – questo è, poi, un fatto personale, che può accadere o meno. L’invito in questione poggia sulla disponibilità, di ognuno, ad accogliere la complessità del reale; orbita attorno alla parola-concetto complesso e si sviluppa ed articola, in forma interrogativa, attorno alla decisiva domanda: se e in che misura siamo disposti a farci carico dell’intricata, inaudita, enigmatica, difficile trama dell’essere? 

Opporsi alla complessità frammenta, divide, oppone irrimediabilmente quando al tempo stesso, chi alimenta simili dispositivi di disgregazione, ostenta la necessità di unione e libertà; rendere la comunicazione un attacco frontale – bidirezionale quando non unidirezionale – ne intacca non indifferentemente il senso etimologico di ‘dono reciproco’, che ne dovrebbe fondare struttura ed andamento. La comunicazione è una nebulosa, il dialogo un confronto di identità e differenza che – al di là di inenarrabili casi limite – non dovrebbe costituirsi come una sterile polemica di trincea il cui obiettivo fondante risiede nella demonizzazione e detronizzazione assoluta di un presunto nemico. E se l’invito alla complessità si traduce concretamente in un atteggiamento di apertura nei confronti di un intero che, inevitabilmente, ci soverchia, la comunicazione-polemica – ad oggi dilagante – riduce gli orizzonti a vicoli senza sbocco: l’interlocutore da fronteggiare è, spesso, a priori, privato di ogni diritto da un «polemista» che «procede bardato di privilegi che detiene in anticipo e che non accetta mai di rimettere in discussione». Nessuna soglia, nessuna apertura, nessuna possibile regione di ripensamento più originario, trasformazione, metamorfosi: 

 

di fronte a sé non ha un compagno nella ricerca della verità, ma un avversario, un nemico che ha torto, che è dannoso e la cui esistenza costituisce una minaccia. Per lui, dunque, il gioco non consiste nel riconoscere l’altro come soggetto che ha diritto alla parola, ma nell’annullarlo come interlocutore di ogni possibile dialogo, e il suo obiettivo finale non sarà quello di avvicinarsi il più possibile a una verità difficile, ma di far trionfare la giusta causa di cui si proclama, sin dall’inizio, il portavoce. Il polemista si appoggia a una legittimità da cui il suo avversario è, per definizione, escluso.[13]

 

L’edificio comunicativo-informazionale – nei più disparati mezzi e supporti di riferimento – sembra propendere e giustificare un tale stato di cose, ed il contesto, in una qualche misura, fa la comunicazione. Chiaro è che ciò non potrebbe perpetuarsi se non ci fosse un terreno fertile. In altri termini, è probabile che esemplificazione, riduzione, decostruzione, banalizzazione, polarizzazione, manicheismo convengano un po’ a tutti. Svariati motivi inducono il comunicatore odierno – tanto in un approccio sistemico, nella comunicazione dall’uno ai molti, quanto su un piano più propriamente orizzontale, nel continuo feedback dell’uno all’uno, dell’uno ai molti, o dei molti all’uno – a prediligere il semplice al complesso. Ecco, allora, che si assiste ad una sempre più diffusa e pervasiva comunicazione-polemica, piuttosto che ad un gioco di ‘dono reciproco’ entro cui affrontare la difficile impresa conoscitivo-prassica umana.

Sul piano del singolo, probabilmente, perché, in un’epoca di profondi vuoti di senso e aridità simbolica, non si può – a tutta prima – che avvinghiarsi a quanto di più rassicurante e consolatorio ci si staglia di fronte. Ed affrontare la complessità non è un’operazione di tale fattura: suppone lacerazioni e mitigazioni, strappi e ricongiungimenti, scacchi e conquiste. È – senza molti dubbi – più rasserenante affidarsi a narrazioni semplici e levigate, maggiormente gestibili, governabili, comprensibili, aggrappandosi alle quali risulta agevole il rispondersi – quando le risposte non si trovano già belle e pronte e rimane solo da recitarle. Perché è inestirpabile, nell’uomo, il bisogno di tracciare regioni di permanente nell’orizzonte aperto del transeunte, di isole di stabilità nel mare del mutamento, di tratti di quiete nel flusso magmatico dell’irrequietezza. E in un’epoca di vuoto simbolico e di compressione – in un certo senso – di tutto ciò che non risponde ai criteri di una ferma razionalità d’efficacia e d’efficienza, il processo di accasamento dell’uomo avviene perlopiù sul terreno del racconto biografico; che è, per definizione, insindacabile, in quanto imperniato su un “io sento” che, se non parametrato a vincoli di scrupolo veritativo e – in una qualche misura – di ordine sociale-comunitario, rischia di ridursi ad anticamera di un atteggiamento solipsistico, individualista, narcisistico. In questa cornice si articola una dilagante frammentazione sociale, in un’epoca caratterizzata, paradossalmente, dalla puntuale e pervasiva invocazione all’unità, all’inclusione del diverso. Si scompagina allora, galoppante, un vuoto comunicativo sulla scorta – quando si eleva l’“io sento” ad assolutizzato mètron di ogni valutazione – di un’indifferenziata elisione della complessità. La quale consiste, in primo luogo, nel prendere atto dell’alterità che soverchia il singolo nelle sue svariate forme. A risentirne sono proprio l’elaborazione personale e la libertà, così come l’essenza profondamente metamorfica – ma non per questo scevra di rigore, metodo e profondi spunti di arricchimento – dell’incedere dell’uomo nel mondo: «Mentre non si è mai parlato così sonoramente di “libera personalità”, non si vedono affatto personalità, e tanto meno libere, ma solo uomini uniformi timorosamente celati»[14]. Il procedere metamorfico dell’uomo fa presto a farsi metamorfosi kafkiana, improvvisa ed inspiegabile mutazione dello stato esistenziale così intensa da farsi corpo: quando è accaduta? Perché? E che disponibilità alberga nell’uomo postmoderno, se non di accoglierla, perlomeno di problematizzarla? Ad oggi non si avrebbero problemi – al pari dei genitori di Gregor Samsa – ad offendere, comprimere, uccidere il margine vitale dell’altro, con una certa nonchalance se non addirittura rivendicandone l’ineluttabilità. Il protagonista dell’opera kafkiana si adagia, senza appello, al corso dei tragici eventi, spegnendosi lentamente. Ma «in un mondo sempre più disumano il suo sacrificio conserva nel tempo qualcosa di rivoluzionario: è lo scandalo che dovrebbe riaccendere i cuori e ridare spazio alla speranza»[15].

 

 

Foto di Mattia Spanò: alba calabrese.

 


[1] B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1962, frammento 223 (frammento 72 nell’edizione Brunschvicg), p. 109.

[2] D. Susanetti, Il talismano di Fedro. Desiderare, vedere, essere, Carocci, Roma 2021, pp. 22-23.

[3] G. Parisi, In un volo di storni. Le meraviglie dei sistemi complessi, Rizzoli, Milano 2021, p. 7. 

[4] B.-C. Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, nottetempo, Milano 2021, p. 51.

[5] D. Susanetti, Il talismano di Fedro. Desiderare, vedere, essere, cit., p. 11.

[6] G. Parisi, In un volo di storni. Le meraviglie dei sistemi complessi, cit., p. 7. 

[7] D. Susanetti, Il talismano di Fedro. Desiderare, vedere, essere, cit., p. 37.

[8] Platone, Fedro, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2013, 243 a, p. 95.

[9] G. Parisi, In un volo di storni. Le meraviglie dei sistemi complessi, cit., p. 90.

[10] E. Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, a cura di S. Lazzari, Raffaello Cortina, Milano 2001, pp. 40-41.

[11] M. Foucault, Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di S. Loriga, Feltrinelli, Milano 2020, p. 240.

[12] D. Alighieri, Inferno, Rizzoli, Milano 2014, canto ventiseiesimo, vv. 119-120, p. 248.

[13] M. Foucault, Estetica dell’esistenza, etica, politica, cit., pp. 240-241.

[14] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, a cura di S. Giametta, Adelphi, Milano 1974, p. 41.

[15] L. Forte, Introduzione a F. Kafka, La metamorfosi, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2014, p. XXVI.

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