di Luca Dilillo
Le recensioni non sono mai state il mio forte [1]. Sia chiaro, mi piace leggerle, soprattutto quando sono stimolanti – e molto spesso lo sono, va detto. In un certo senso mi piace anche farle, sebbene mi trovi più a mio agio con la forma orale che, essendo meno rigida, lascia spazio all’improvvisazione dilettantesca. Ma quando si tratta di scrivere una vera e propria recensione, dotata di tutti i crismi del caso, ecco che iniziano i problemi: potrei dire di non sentirmene all’altezza o che non sia davvero il genere funzionale al mio stile di scrittura. Le ragioni sarebbero molteplici: non ultima, c’è la mia innata resistenza verso tutto ciò che si presenta come troppo codificato, restringente. Ma queste possono benissimo essere giustificazioni per la mia pigrizia, perché non ho voglia di sforzarmi troppo… In ogni caso, anche questa volta eviterò di scrivere una recensione. Sono convinto che, se non si ha davvero qualcosa di interessante da dire, un testo del genere rischia di diventare eccessivamente banale. E, anche ammesso che io abbia qualcosa da dire, preferisco comunque farlo in una maniera a me più congeniale. Per cui, questo breve articolo sarà da intendersi come una sorta di introduzione, un invito alla lettura che, se proprio volete, potrebbe trasformarsi infine in qualcosa di molto simile ad una recensione (per quanto apparente).
Il presente Invito alla Lettura, mentre vagava alla ricerca di uno sviluppo da darsi, si è imbattuto in tre strani personaggi, particolarmente eruditi e molto ferrati sul nostro romanzo; questi, dopo una lunga chiacchierata, l’hanno convinto a prendere la seguente risoluzione: l’umile Invito si sarebbe limitato a trascrivere e riferire i loro tre discorsi, essendosi persuaso della loro importanza per il romanzo in sé e per ciò che gli sta davanti e alle spalle – ispirazione, motivazioni, stesura e intenzioni, tutte cose che fanno parte a pieno titolo di ogni storia e senza le quali la piena comprensione, come anche la piena valutazione di un’opera, non sono possibili. I tre discorsi, in misterioso accordo con chi li ha pronunciati, seguono un grado di rarefazione ascendente, dal più materiale al più astratto – seppur, a mio onesto parere che li ho letti, tale rarefazione sia solo apparente. Io mi limiterò a riportarli, così come mi ha chiesto il mio caro Invito alla Lettura di ritorno dalla sua raminga passeggiata. Non sapendo come altro chiamarli, ho usato i nomi dei rispettivi autori: essi sono Nemesis, Oneiros e Poiesis, più comunemente noti come Vendetta, Sogno e Arte.
Iniziamo con il primo. Madamigella Nemesis ha detto grossomodo quanto segue: “A parer mio, in merito al vostro libriccino si dovrebbe subito sgombrare il campo da un probabile fraintendimento: nonostante l’apparenza da giallo vittoriano, esso mi pare prima di tutto ed essenzialmente una storia di vendetta. Ah, la buona, vecchia e sana vendetta, quell’argomento viscerale che attraversa i secoli! Troviamo storie di vendetta in ogni cultura umana: non esiste corpus mitologico e folkloristico che ne sia privo, oltre al fatto che storie di questo genere ci avvengono sotto il naso in continuazione. Adesso potrei accantonare le vendette mitologiche bollandole come ‘argomento letterario’ e parlare solo della vendetta reale, da cronaca, che ci sta davanti succulenta; ma non è quello che farò, perché mito e realtà sono ben più connessi di quanto si possa credere. Il mito ci parla di noi visceralmente; fa emergere le paure e le emozioni più primordiali della nostra ribollente natura. Esso, con le sue storie semplici, carnali, infantili e sanguinolente, ci può dire sulla vendetta ben più di qualunque fatto di cronaca recente; più vero e più fisico di qualunque fatto di cronaca recente, imballato nell’unta pellicola del giornalismo scandalistico e del gossip nero. Ebbene, la prima, semplice cosa che il mito ci dice sulla vendetta è che si tratta, molto banalmente, di uno dei più comuni e ancestrali motori dell’azione umana. La vendetta fornisce l’innesco per moltissime delle vicende in cui gli uomini si trovano impastoiati, che siano vere o solo immaginate. Le più grandi storie della mitologia occidentale si accendono e rosolano al fuoco della vendetta. In Grecia ne troviamo diverse: Medea che si vendica di Giasone traditore, la terribile vicenda di Procne che per vendicare la sorella violentata da Tereo, ne uccide il figlio e glielo dà in pasto; perfino l’autodistruzione di Edipo è causata dalla vendetta: l’Oracolo non può essere eluso, al Fato non si sfugge. Esso insegue come le Erinni sanguinarie gli sventurati che provino a raggirarlo e, una volta raggiunti, si abbatte su di loro con violenta furia vendicatrice; ma sono gli stessi dei a subire il dominio di quel sentimento bestiale: la ύβρις dell’uomo esige vendetta, chi sfida il dio non la passerà liscia. Nemesis, la sottoscritta, sorge da un germoglio impollinato di sacro, di mistico, di a-razionale. Tenetelo a mente! Non solo il semplice mito, ma con maggior forza il mito che si cambia in tragedia trova la sua linfa vitale nella vendetta. Resta poi – impossibile tacerne – la vicenda degli Atridi, uno dei cicli di storie più famosi della mitologia ellenica, incarnazione mitica di una tipica caratteristica della vendetta – e altra riesumazione che il mito ci permette: l’inesauribilità. Una brama alimentata piuttosto che placata dall’appagamento. Come si può vedere, anche solo la mera elencazione di miti conosciutissimi può offrirci materiale interessante se ci togliamo dagli occhi la benda del pregiudizio secondo cui linearità e semplicità sono sinonimi di banalità. Detto tra noi, io adoro le storie semplici e lineari: offesa, torto, danno? Vendetta brutale! Relazione tanto logica quanto soddisfacente…
Se adesso, abbandonando i lidi insanguinati del Mediterraneo sorridente, veleggiamo verso il tetro Nord, anche qui troveremo ad accoglierci storie mitiche, per cui non è fuor di luogo l’aggettivo di classiche, impregnate di fuliggine vindice: ne citerò soltanto due. La prima è una delle leggende più note della cultura occidentale, per merito di William Shakespeare: è la storia del principe Amleth, uccisore dello zio per vendicarne l’usurpazione ai danni del padre. Questo racconto, come si sa, non fu inventato dal bardo dell’Avon, ma trae origine da un’antica leggenda scandinava, riportata dallo storico danese di età medievale Saxo Grammaticus nella sua opera Gesta Danorum. Nonostante le innumerevoli differenze tra le due versioni, il dato di fondo permane immutabile: la vendetta presa sullo zio usurpatore per il padre assassinato”.
Qui mi permetto di aggiungere una precisazione al discorso di Nemesis: a riprova di quanto questa storia, nonostante o forse proprio a motivo della sua semplicità, sia marcata a fuoco nella nostra memoria collettiva, basti ricordare che essa ha rappresentato una delle principali ispirazioni per l’iconico film d’animazione Disney del 1994, Il Re Leone; e che in tempi ancor più recenti – meno di sei mesi fa – nelle sale è stato possibile tornare ad immergersi nella leggenda di Amleto, riportata alla sua matrice norrena da uno dei registi più promettenti degli ultimi anni, Robert Eggers. The Northman – essenziale fin dal titolo – è stato anzi uno dei remoti punti di partenza da cui è nato questo Invito alla lettura. Una visione caldamente consigliata, tra le altre cose proprio per la vivida rappresentazione estetica della potenza materica e sanguigna di un’epica arcinota.
Il discorso di Nemesis si conclude con un ultimo riferimento – che sintetizzo perché sarebbe troppo lungo – al mito della fine di Sigurd/Siegfried, famosissimo eroe germanico protagonista della leggenda dei Nibelunghi/Burgundi. Una fine violenta provocata dalla sete di vendetta per l’amore tradito e l’orgoglio ferito della ex-Valchiria Brunilde. Riporto solamente l’ultimo passaggio che ho apprezzato, benché forse troppo retorico: “Non serve davvero spendere ulteriori parole: un altro dei cicli mitologici più noti e riproposti nel corso della storia – dall’Edda a Wagner fino a Fritz Lang e allo stesso Tolkien – tiene nel suo grembo la sempreverde vendetta, stavolta intrecciata, come spesso accade, con il compagno Eros, in trio venefico e sogghignante con Thanatos, la Morte, madre-figlia di Nemesis. Tutto ci grida addosso di come la vendetta eserciti sull’animo umano un fascino misterico e indecifrabile”.
In merito al secondo discorso, Messer Oneiros ha riferito una serie di riflessioni più o meno di questo tenore: “Una storia di vendetta, camuffata abilmente da racconto giallo, con un titolo in apparenza bizzarro: perché il Sogno? C’è una qualche attinenza tra questa intestazione e l’argomento del libro? Forse si fa riferimento, semplicemente, ad un sogno di vendetta? Ecco, per quanto legittima, una tale interpretazione è fin troppo meccanica e secondo me sterile. In realtà, c’è un nesso più profondo tra Sogno e Sangue, che verrà esplicato al meglio dalla Nostra Signora, Poiesis. Oltre la carnalità della vendetta, zampilla il potere elegiaco degli Oneiroi, figli della Notte e del Sonno, leggeri e fruscianti tra le pieghe vellutate della penombra. Mentre facciamo più fatica ad associare la vendetta ad aspetti poetici e delicati, con i sogni la questione è ben diversa: intorno ad essi aleggia molta più ambiguità. Anche nel mito greco questa ambiguità è riconosciuta. I sogni possono essere premonizioni, rappresentazioni di cose reali, ma anche pure fantasie, spettri di irrealtà; possono presentare forme umane, di animali, d’oggetti o di strani miscugli di tutto ciò; infine, possono essere belli, piacevoli e dolci, come anche terribili, oscuri e mostruosi. L’ibrido e l’anfibio sono i tratti specifici del sogno, insieme ad un altro elemento di grande importanza: la loro origine è oscura e vaga come i loro contenuti. Quel che in un istante appare solido e assai definito, l’istante successivo sfuma nel fantasma, nell’ombra. Così è anche per l’origine dei sogni. Che sia nell’antichità o nei tempi moderni, l’oscurità che mollemente avvolge l’onirico non si è mai dissolta. Qualcosa di chiara origine divina, demonica, comunque non umana; qualcosa di provenienza inconscia, profonda, comunque non razionale. Strani giochi del nostro cervello, un lavorio continuo e talvolta incoerente, sconnesso. Unheimlich. Lontano e vicino, chiaro e oscuro, profondo e superficiale: la doppiezza perturba il cipiglio degli strani figli di Hýpnos e Nýx. Molte storie nascono da sogni, molti sogni sono contenuti in storie: Dante sogna o immagina il suo viaggio nell’aldilà? Quell’incipit così improvviso, così nel mezzo di qualcos’altro, senza sapere come né perché, ha molto in comune con il sogno, il cui inizio mai ricordiamo; Don Chisciotte immagina, delira o sogna ad occhi aperti? C’è davvero differenza tra queste cose? Sognare è spesso sinonimo di immaginare, di sperare e di illudersi. Anche di impazzire. Sempre il sogno ci getta nella confusione e perdiamo tutte le parole, perdiamo anche i ricordi e la certezza di noi stessi, della nostra identità. La vida es sueño è il titolo del famoso dramma di Calderón de la Barca. Tornano anche i compagni che già Madamigella Nemesis ci ha presentato: torna Medea, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, con le sue visioni, allucinanti espressioni di un desiderio profondo e razionalmente combattuto: aiutare Giasone, il suo nemico, a recuperare il vello d’oro, unirsi profondamente e carnalmente al grande eroe greco abbandonando la sua terra e la sua famiglia; torna anche Shakespeare – che ci dice della materia di cui siamo fatti, la stessa dei nostri sogni – e il suo Amleto, la visione onirica e spaventevole dello spirito paterno che grida vendetta. Anche il nostro Sogno nasce da un sogno: ogni opera nasce fuori di sé stessa, così come ogni sogno nasce fuori della nostra identità consapevole, di ciò che può essere definito il nostro sé. La visione di una notte, stranamente rimasta impressa nella mente turbata dal risveglio: un atrio, un gran palazzo senza nome, uno stanzino vuoto, con tre porte; tre come le figure informi, avvolte in mantelli di fumo, armate di pistole, che contro un solo, demoniaco individuo aprono le loro bocche di fuoco”.
Giungiamo infine all’ultimo discorso: e qui ammetto che il racconto del mio caro Invito alla Lettura è stato incredibile. La Gran Madama Poiesis ha esordito con una nota polemica: “Forse a questo punto, all’udire discorsi tanto pomposi, qualcuno potrà pensare che siano fuor di luogo… Sarà proprio il caso di spendere tante parole per un libro del genere? Francamente privo di grosse pretese, orgogliosamente imperfetto, opera prima di un autore alle prime armi; siamo davvero sicuri che ciò meriti una presentazione del genere? Troppo magniloquente, non parliamo mica di un classico! Ma vi siete mai chiesti perché pensiamo che un trattamento solenne debba riguardare soltanto i cosiddetti classici immortali? Al contrario, a pensarci bene, è forse proprio questo tipo di opere che per la sua indiscussa grandezza, non dovrebbe aver bisogno di troppe parole: d’altronde i capolavori si presentano da sé. Perché si prova l’esigenza di dire altro, ancora e ancora altro, di meraviglie su cui ogni cosa è stata detta e scritta? Un’esigenza naturale è spiegabile e in fondo comprensibile: si riflettono e si interpretano i grandi classici perché la loro ricchezza è inesauribile, la loro fonte non si prosciuga mai, siamo d’accordo. Eppure non sempre, non tutti usano di queste opere in modo apprezzabile, ancorché ridondante. Troppo spesso si preferisce parlarne solo perché si crede che lo meritino, in quanto tali: parole di rispetto, di elogio, di venerazione, per pura forma, per antica tradizione intellettuale; rituale accademico! E troppo spesso le formule rituali di queste messe solenni – mascherate da saggi, discorsi e articoli – sono quanto di più stantio e disseccato si possa immaginare. Ma se non si ha qualcosa da dire, è sempre meglio star zitti. Oppure si può parlare d’altro. Magari proprio di ciò che non ha ancora ricevuto parole.
Cosa c’entra tutto questo con la Musa che rappresento? Forse non molto con il modo in cui è correntemente intesa. Ma che cos’è l’arte? Un suo generico ed etereo concetto sembra soffiarci sull’anima come qualcosa di estremamente elevato: un’aerea brezza olimpica, fuori dalla portata di noi comuni mortali; una luce alta e inaccessibile che non possiamo far altro che venerare, venendone accecati, prostrandoci sotto di essa. Non qualcosa di terreno, non per tutti. Non basta elevarsi, occorre un’illuminazione interiore. Sono poche le anime elette e beate, ammesse a poter fare uso di quella luce divina, creando per essa gemme e lanterne che riescano a contenerla. Queste lanterne e queste gemme sono le opere d’arte; i loro artigiani sono appunto gli artisti. Senza nulla togliere a questa bella immagine, vorrei – sì, proprio io che ne sono rappresentante – vorrei umilmente farmi portavoce di una diversa concezione dell’arte, forse più dimessa, ma certo più accessibile a voi poveri di spirito. Per restare sotto il segno di questa umiliazione, ho scelto di prendere a manifesto di tale concezione non un immortale e celeste capolavoro – per ciò stesso indegno di un trattamento simile – ma appunto il piccolo romanzo di un autore esordiente; una piccola creazione a cui è beato chi ha avuto l’onore di assistere! Perché qualunque processo creativo è emozionante, è un atto sacro: è l’accadere di un evento su ordini non soltanto umani. C’è vera arte ovunque avvenga un processo di creazione che coinvolge la profondità e i differenti livelli del reale: quando si manifesta la multidimensionalità dell’esistente e ne vediamo i piani intersecarsi, allora stiamo assistendo ad una creazione artistica. A nessuno è precluso un tale accesso. Mi spiego meglio. Quando si entra in questa dimensione, le connessioni tra i differenti piani della nostra esperienza della realtà ci divengono evidenti: un incontro nel mondo fisico, un’emozione nel mondo emotivo, un’immagine o un sogno nel mondo onirico; tutte queste e molte altre cose possono in un solo momento congiungersi e formare un tessuto comune. È evidente allora il nesso tra i nostri tre discorsi: Vendetta – un sentimento, ma anche un’idea – e Sogno – reale e al tempo stesso fuori dal mondo – vengono intessuti dall’Arte, che non si esaurisce nella sua funzione di condensante; essa è prima di tutto un’attività che è improprio definire di produzione, ma è corretto definire di espressione. Espressione, non di sé, come si potrebbe pensare, ma di un Profondo che non ci appartiene finché non prendiamo consapevolezza che fa parte di noi; rivelazione che torna nel Profondo sotto forma di oggetto artistico, fruendo del quale ci si può addentrare sotto, dietro e al di là del nostro esserci, in quel luogo di noi stessi che sta fuori da noi stessi. L’arte è espressione del Profondo che al Profondo ritorna. Se questo andare a fondo avviene, non c’è realizzazione artistica che non sia degna di questo nome. Solo la superficialità è nemica dell’arte.
Pure, c’è un altro nemico, ed è la mancanza di coraggio. Si può avere paura di affrontare il perturbante, il non umano che si cela dentro noi stessi, quelli che banalmente definiremmo i demoni interiori; e può fare ancor più paura portare in superficie questo flusso demonico e ctonio per sottoporlo alla pubblicità, all’occhio degli altri che sa essere spietato. Ma un’arte che sia sincera, profonda, coraggiosa e collante di complessità – che insomma sia tale – non deve temere alcun giudizio: parafrasando Nietzsche, quest’arte sarebbe non solo al di là del bene e del male, ma del bello e del brutto – che alle volte sanno essere categorie di valutazione piuttosto banali. Creare, essere attivi nella creazione, significa essere costretti a infilare le mani in una materia strana e pericolosa, per plasmarla in qualcosa di condivisibile, per trasferirla nel mondo dell’intersoggettività, senza il quale resterebbe incompleta: l’arte non può restare possesso privato e restare sé stessa. Se vogliamo vincere la paura di sporcarci le mani in tal modo per diventare anche noi artisti, dobbiamo avere il coraggio di guardare in quell’abisso che certo spaventa, il cui nome comune è l’Interiore, ma il cui nome proprio è il Profondo. Dobbiamo avere il coraggio di recuperare quella spensieratezza inconsapevole e suprema dei giochi dell’infanzia, giochi di pura creazione, di pura libertà. E dobbiamo avere il coraggio di non temere il giudizio e di superare il pregiudizio per cui l’arte appartiene a pochi, senza che ciò significhi una svalutazione, ma al contrario un ampliamento: una socializzazione dell’arte vuol dire un accrescimento della nostra comune umanità”.
Un discorso strano, non trovate? Come del resto lo sono tutti e tre. Ma forse ad essere strani sono proprio quei tre personaggi, Vendetta, Sogno e Arte. Non intendo aggiungere altro: sarebbero parole superflue. Dirò solo una cosa: io, seppur dall’esterno, ho potuto fare esperienza del processo creativo di cui parla Madama Poiesis; di questo e di tante altre cose ho potuto rendermi conto grazie al Sogno e al suo autore, Federico. Lui non ha fatto nulla di straordinario. Ha fatto invece qualcosa di molto umano e di molto coraggioso. Qualcosa a cui spero che la lettura del Sogno possa invitare quante più persone possibili, così come ha fatto con me: dandomi quel coraggio che forse mi mancava.
Note:
[1] Il Sogno è il titolo del romanzo di Federico Dilillo, frutto dell’ispirazione di una notte e del tempo libero donatoci dalla pandemia… È stato pubblicato dalla casa editrice Albatros nell’ottobre del 2021, nella collana Nuove Voci – Tracce. È disponibile online sul bookstore del Gruppo Albatros, su Amazon e su tutti i principali store online.