di Mattia Spanò
Oggi si fa sempre più stringente la necessità di ripensare l’empatia. Non perché viga chissà quale primato dell’epoca postmoderna rispetto ad altre congiunture storiche in quanto a carenza empatica; né perché, ad oggi, la confusione teoretico-prassica sulla parola-concetto in questione sia irrimediabilmente senza precedenti. Il ‘sentire dentro’ l’altro da sé è un tratto originario e costitutivo dell’essenza umana, che si impone come fondo e sfondo di qualsivoglia tracciato esistentivo ed esistenziale; in quanto tale, l’orizzonte empatico si schiude come solco d’indagine ontologico, domanda prima ed ultima che funge da fenditura speculativo-vitale sull’umanità dell’uomo. E non sempre, nell’incedere storico, la questione empatica è stata debitamente assunta ed elaborata nella sua complessità. Da ciò la necessità del tentativo filosofico di abitarne – ininterrottamente ed asintoticamente – struttura, lineamenti e senso. Soprattutto in tempi che vedono un impiego così diffuso, pervasivo, ricorsivo del termine empatia – con l’annesso e conseguente rischio di svuotamento strutturale a cui è esposto ogni consumo ipertrofico – risulta di decisiva importanza ritracciarne la misura. In questo senso si parla di ‘misura dell’empatia’, nella doppia accezione di genitivo soggettivo ed oggettivo dell’espressione: è necessario misurare l’empatia – accoglierne il costitutivo fondo ontologico – affinché la stessa possa fungere da misura del nostro stare al mondo.
1. Ritornare alle origini come esercizio empatico
Uno dei tratti essenziali della cultura greca arcaica e classica risiede nel costante ritorno mitico-filosofico alle proprie origini. Si tratta di un procedere speculativo e prassico che risponde all’esigenza di fare, continuativamente ed asintoticamente, chiarezza sul sé e sul cosmo.
Mitico perché abitare il mito significa scandagliare il fondo da cui ed in cui tutto sorge e si declina nella molteplicità delle sue forme; soggiornare presso il mito significa, dunque, tentare di approssimarsi all’intero.
Asintotico perché l’alveo del racconto e della ricerca sulle origini si dipana nell’orizzonte del mai-del-tutto-solubile mistero, enigma. Sobbarcarsi il fertile peso di un simile arduo, scosceso itinerario si configura, dunque, come un’occasione di espansione teoretica e vitale, piuttosto che di conclusività: all’uomo è dato allargare i costitutivi e fondanti interrogativi che lo riguardano e reclamano in quanto uomo; l’assoluto è un concetto da assaporare cairologicamente negli interstizi di pienezza che l’esistenza concede e che, di volta in volta, scivolano nel flusso indistinto della zoé.
Ritrovarsi in quanto uomini significa anche questo: tentare di tracciare regioni di chiusura nell’apertità del fondo enigmatico del tutto. Accenni di remota chiarezza che, con la grazia e la devastazione del dardo apollineo, arrivano da lontano e lontano conducono. Chiaroscurale conoscenza che co-emerge e si co-appartiene con lo s-vincolante fare del doppio Dioniso: dio che scioglie i nodi, scalfisce, disintegra e ricomprende l’assolutezza del già-conosciuto, muore e rinasce in una forma sempre rinnovata. Apollo e Dioniso: non si dà l’uno senza l’altro e l’impresa conoscitiva dell’uomo si condensa in questo ininterrotto ed asintotico dispositivo di chiusura e scardinamento, fissazione ed apertità. Ed è bene ripetere, ritualmente, la nascita e le vicende di queste originarie figure divine, come del cosmo. Perché in un simile riavvolgimento del e sul reale si intraprende un itinerario di configurazione e riconfigurazione dei frammenti nell’intero. È un esercizio di consapevolezza, una pratica di rinnovamento e ritrovamento dell’umanità dell’uomo alle radici che non può mai avere fine. Il conoscibile soverchia sempre il conosciuto: il cosmo – come tramandano le antiche teogonie – emerge e si articola dal fondo chiaroscurale dell’enigma, che continua a far da sfondo ad ogni itinerario che l’uomo intraprende.
Da qui, l’azione simbolica del rito, della ripetizione: se accolta non in quanto mera iterazione dell’uguale, ma come occasione di ritornare in maniera più originaria sul già-dato, in ragione del metamorfico oltrepassamento che fonda il procedere dell’impresa conoscitiva umana nel teatro delle relazioni, della comunicazione, dell’esserci. La ritualità trasmette e cementifica i valori umani, ripercorre ed elabora i pilastri che fondano l’umanità dell’uomo e, in quanto azione simbolica, mette insieme. Il termine greco symbolon, infatti, delineava originariamente la tessera hospitalis, segno materiale – una tavoletta d’argilla, un anello o qualunque altro emblema fisico – dell’unione ed ospitalità data e ricevuta tra due soggetti contraenti; oggetto, poi, conservato da ognuna delle due parti e simboleggiante, appunto, l’accoglienza, la relazione, l’essere – in una qualche misura – legati. Sul fondo dell’apparentemente semplice accordo tra due o più individui, tracima un fatto essenziale d’ordine ontologico: la costitutiva e fondante relazione con l’altro da sé. Si è gettati nel mondo: da e in questo si emerge, a e in questo si ritorna – nello spettro delle più disparate forme d’espressione, a vari livelli di complessità, profondità, consapevolezza. Ed occorre farsi carico di questa costitutiva alterità nel continuo e vicendevole scambio tra identità e differenza. Il ritorno mitico-filosofico sulla complessità del mondo si fa cassa di risonanza teoretica e vitale: «i riti creano una comunità della risonanza capace di armonia, di ritmo comune»[1]. Ritmo che è movimento misurato, metabolico respiro cosmico, tentativo di danzare il mondo.
In questa cornice emerge l’uomo in quanto rete di incontri, pensieri, emozioni. L’uomo in quanto antenna ricevente – che di mondo si impregna – ed antenna trasmittente – che al mondo ritorna. Uomo che è singolo individuo, membro di comunità, frammento dell’intero. Uomo che, nella sua libertà, non può pensarsi assolutamente scisso dal fondo ontologico in cui è gettato (il complèxus: ciò che è tessuto insieme), e di cui è parte in costante relazione con gli altri enti, circostanze, contesti.
Tentare di ritornare alle origini, di ripensare il già-pensato in maniera più originaria, di accostarsi al metabolico ritmo del mondo – che è, al contempo, Heimat ed alterità – significa ritrovarsi e rinnovarsi in quanto esseri umani, frammenti del tutto:
«Anche l’animalità umana è infatti identità nella differenza, molteplicità nella continuità. La forma più radicale di eguaglianza è quella ontologica. Su questo piano le differenze di luogo, di epoca, di genere, di età, di condizione economica, di etnia, diventano declinazioni diverse, legittime e arricchenti, dell’identità che accomuna gli enti, […] dell’intero dentro il mondo. Credendoci uno siamo in realtà molteplici. Perché la nostra unità non è fondata sulla separatezza dal mondo ma sull’In-der-Welt-sein».[2]
Coltivare questa consapevolezza si configura come una pratica d’empatia: la presenza dell’altro è un dato di fatto, di fronte al quale vi sono diversi gradi di approccio, analisi, elaborazione. È una datità immediata e, al contempo, mediata. Da ciò dipende, in larga misura, il nostro modo di stare al mondo e con il mondo.
Ora, se empatia significa etimologicamente ‘sentire dentro’, in che cosa consiste e verso cosa è orientato questo dispositivo di metabolizzazione a cui l’uomo è chiamato? Evidentemente – visto quanto sopra – l’itinerario empatico non può che strutturarsi come un ininterrotto ed asintotico esercizio d’indagine sul sé e sul mondo; e se la questione si gioca sul labile margine tra l’universo interiore e gli orizzonti dell’altro da sé, l’impresa conoscitivo-empatica si sviluppa sulla decisiva e metamorfica linea di confine tra l’identità e la differenza, l’unità e la molteplicità, il singolo e la comunità. Questioni cardine, originarie e fondamentali. Interrogativi primi ed ultimi che ci riguardano in quanto animali semantici, relazionali, sociali, politici. Solchi speculativo-prassici dai quali dipende il destino dell’umanità e del pianeta, specialmente in una congiuntura storica caratterizzata da un’avanzata tecnico-scientifica senza precedenti. Alvei tematici in cui fermenta – si forma, deforma e riforma – lo stare al mondo di ogni singolo individuo, perché se «senza risonanza si viene ributtati in se stessi, si viene isolati», l’odierno «crescente narcisismo si oppone all’esperienza risonante»[3]; esperienza empatica senza la quale ad essere eroso è l’impianto ontologico che fonda ogni etica: abitare l’empatia significa, invece, ristabilire l’assetto concettuale e concreto dell’esistenza sul piano dell’individualità, della comunità, dell’intero; significa tracciare posture sostenibili nell’orizzonte dell’autenticità, della libertà e della problematizzazione, in un’epoca per la quale anche il comparto emozionale diventa motivo di sfruttamento economico. E ri-tornare all’empatia è necessario soprattutto in un contesto che la evoca e rivendica a gran voce, al fine di comprenderne l’impiego maggiormente diffuso e l’effettiva gittata del sentire-dentro il mondo. Perché:
«Il regime neoliberista isola le persone e allo stesso tempo si evoca l’empatia. […] È proprio in una società atomizzata che la richiesta di empatia diventa assordante. L’attuale focus sull’empatia è prima di tutto motivato economicamente: essa viene impiegata come un efficiente mezzo di produzione, serve a influenzare emotivamente la persona e a guidarla».[4]
Ed è in questo quadro che si assiste allo sfaldarsi dei pensieri pensanti, a vantaggio di un’acritica fruizione del fruibile fino a quando un margine di fruibilità resiste. Approdo naturale è, poi, un’inerziale e diffusa omologazione nell’illusione di un’assoluta libertà.
Per motivi diametralmente opposti, eventi storici raccontano di atti disumani la cui realizzazione è dipesa, in larga misura, dall’assenza di un fondo empatico: in questo caso, nella coltre di una bolla apatica, a regnare monopolisticamente è un’esiziale indifferenza; e continua a persistere, seppur in misura e maniera differente, un simile pericolo. Ciò costituisce un sensato movente per tenere alti i processi attenzionali empatici. Tuttavia, non meno urgente è la necessità di scandagliare trama, lineamenti e senso dell’empatia, al fine di evitare che questa diventi integralistica, allontanandosi – per ciò – dalla profonda gittata ontologico-esistenziale che dalla stessa si diparte.
2. Il fondo ontologico dell’empatia
Prescindere dalla fondante ed ineludibile dimensione ontologica nell’approcciarsi all’empatia, significa correre il rischio di ripiegare in un’estremizzazione della stessa. Se si intendesse, infatti, quest’ultima negli esclusivi termini di un’indiscriminata capacità di captare, ‘sentire dentro’, la tonalità esistenziale dell’individuo in quanto singolo assolutamente scisso dall’alterità dell’intero, verrebbe meno la relazionalità dello stare al mondo a vantaggio di un insidioso individualismo. È quanto accade quando si avanza la pretesa di elevare a livello ideale-prescrittivo lo stato esistenziale-emotivo di un determinato soggetto: anche su un piano strettamente numerico – non tutti possono avere “ragione”, figuriamoci essere detentori della “verità” – decretare l’esclusività di un preciso punto di vista porterebbe allo sfaldarsi di qualunque prospettiva diversificante. Quando questo stato di cose si invera in un atto di empatizzazione assoluta con un corpo estraneo al sé, esiziali ricadute si scompaginano in molteplici direzioni. Risulta di fondamentale importanza, allora, che un dispositivo di autocontrollo accompagni il processo empatico affinché quest’ultimo non si sfaldi, diventando fonte di anestetizzazione – quando non annullamento – della propria sfera sensibile-estetica. Se la questione empatica si gioca sul delicato quanto sfuggente margine tra l’identità e la differenza, l’unità e la molteplicità, risulta di decisiva importanza la custodia della dignità ontologica di ognuna delle parti del dialogo. Il processo di assoluta identificazione del sé in realtà esterne alla propria persona offende qualunque tentativo di elaborazione critica. Le carenze strutturali colmabili solo ed esclusivamente in bolle empatiche eteronome (l’individuo che si ritrova in quanto tale solo nella disgregazione e ricomprensione della propria persona in un contesto esterno) sono, poi, spesso sfruttate strumentalmente. Basti pensare a quanto la demagogia politica o di mercato sia strutturalmente disposta ad accordarsi alle visioni del mondo sgorganti dall’analisi tecnico-sondaggistica di dati rilevati con precisi strumenti d’indagine. Il controllo è più semplice da gestire quando l’impronta individuale, l’ethos, vacilla; quando il comparto simbolico scarseggia, e la frenesia detta la temporalità dello stare al mondo. L’indugio e la risonanza emotiva non si accordano con gli attuali pilastri del rigoroso procedere tecnico. Orizzonti esistenziali ed esistentivi quali il senso, lo scopo, la maturazione nel tempo opportuno, l’impianto trainante dell’emozione vanno, dunque, banditi quando non è possibile utilizzarli; ma, da caratteri inestirpabili della natura umana, risulta più efficace trasfigurarli. Da qui la sempre più diffusa mercificazione delle emozioni, dell’empatia; la strutturazione di perimetri di vuoto da colmare tramite uno smodato consumo che diventa ruotine travestita da pienezza:
«Nel regime neoliberista si sfrutta non solo il tempo del lavoro, bensì la persona nel suo complesso. Il management emozionale si rivela più efficace di quello razionale, poiché penetra più in profondità nella persona. La psico-politica neoliberista lavora allo scopo di tirare fuori emozioni positive per sfruttarle ma, a ben vedere, è la libertà stessa a essere sfruttata».[5]
Il rischio è quello di incorrere in strutture di illusorio senso in cui l’unica parvenza di riempimento vitale risiede nel ritrovare il proprio più autentico compimento nel paradossale sfaldarsi della propria identità in sovrastrutture indotte o comunque, in buona parte, estranee al proprio sé. Il paradosso consiste nel fatto che, effettivamente, non si può pervenire ad un orizzonte di pienezza prescindendo dall’altro da sé; ma, in questi edifici artificiosi, l’identità non comunica, non dialoga, non si confronta con la differenza: si scioglie ed appiattisce su di essa. In simili cornici a venir meno è l’ontologica differenza del reale, a favore di un’assoluta ed indiscriminata identità generalistica. Allora lo scambio tra le parti perderebbe terreno in termini di fecondità, incanalandosi verso una stasi di fondo immune da ogni possibilità di movimento, metamorfosi, resistenza, che è l’inveramento dell’omologazione. Il processo empatico non può ridursi alla totale identificazione del sé con l’altro, ad un ‘sentire dentro’ che diventa espropriazione radicale, proiezione – ad un tempo totalizzante ed anestetizzante – della propria identità; e, quindi, alienazione che si articola su vari livelli: dal piano individuale delle interrelazioni al piano collettivo della manipolazione – dalle più disparate tinte – delle masse. Nel processo empatico, piuttosto, avviene un incontro con l’altro in quanto – a tutta prima – altro da sé: l’identità, dunque, interviene nel dialogo con la differenza; e viceversa.
In tal senso si è sostenuta la decisività del rito, del ritorno mitico-filosofico ed asintotico alle origini. Perché nel tentativo simbolico di approssimarsi alla complessità del reale si esperisce la risonanza, che «non è un’eco del sé» ma «le è insita la dimensione dell’Altro […] significa armonia. La depressione nasce al punto zero della risonanza. L’odierna crisi della comunità è una crisi della risonanza»[6]. Ecco, dunque, che emerge in tutta la sua pienezza la dimensione ontologica del processo empatico che se, da un lato, non è la semplice e riduzionistica proiezione del sé sull’altro da sé – scaturigine del narcisismo – dall’altro non è nemmeno l’illusorio scioglimento del sé nell’altro – origine della nullificazione di ogni spunto elaborativo personale.
Byung-Chul Han – nelle riflessioni appena citate – evidenzia come lo stato depressivo balugini al punto zero della risonanza. Depressione che si struttura e diffonde non solo sul piano patologico, ma anche a livello strutturale, orientante: lo svilimento dell’apparato teoretico-prassico che, tanto nel singolo quanto nella collettività, si declina in un indistinto e neutrale giacere sul mondo per inerzia; o che si configura come il riduzionistico e polarizzato approccio al mondo che si fonda su un’empatia immediata e scevra della debita sosta. In questo terreno fermentano e pullulano simpatie ed antipatie istantanee, adesioni e repulsioni immediate, più meccanicamente associazionistiche che profondamente elaborate. Ecco, dunque, il farsi largo dell’attuale modus operandi che, tanto a livello privato quanto a livello pubblico, caratterizza il dialogo: la polarizzazione, la dicotomia, il manicheismo che pervade e perimetra la maggioranza dei dibattiti sulla base di un processo di empatizzazione scevro della debita problematizzazione. In penuria di simboli – ed in una temperie di profondo spaesamento – è più comodo, sul piano psicologico, aderire istantaneamente alla posizione che, a livello esistenziale ed esistentivo, presuppone un minore dispendio. Si assiste così ad agoni il cui obiettivo è la pura prevaricazione sull’altro, non accorgendosi – in nome, spesso, della stessa empatia – che è proprio la predisposizione a comprendere l’altro ad essere intaccata, se non annullata, radicitus. Non vi è conatus empatico né in scenari che offendono, sul nascere, qualunque margine di oltrepassamento del sé, né in cornici per le quali, invece, è la stessa identità del sé ad essere emarginata perché ricompresa in uno o più regimi di assoluta esteriorità.
Simili visioni del mondo discendono da una parziale, distorcente – quando non addirittura assente – riflessione su significato, senso e lineamenti del processo empatico. Che – lo si ripete – si sviluppa sull’ineludibile fondo ontologico dell’esistenza.
Empatia, dunque, significa sforzo, ricerca nel confronto-scontro con l’altro da sé, con l’irrevocabile:
«Infatti, in uno scenario dove tutto è revocabile, dove anche le identità possono essere indossate e dismesse come un abito, nessuna identità esprime più il senso e la storia di una vita che fa riferimento a un mondo comune, rassicurante e durevole. Al suo posto è subentrata un’individualità dai mille volti, che non esprime una biografia in cui è rintracciabile un senso costante di sé, ma solo una serie di riflessi fugaci nello specchio di un ambiente circostante che ha preso il posto del mondo comune. In questo ambiente si assumono di volta in volta i modelli che dalla pubblicità vengono segnalati, in quel regime di esteriorità che è poi il mondo della vita emotiva irrimediabilmente consegnata alla sua esposizione».[7]
La questione empatica, dunque, richiama tanto l’identità individuale quanto la differenza del mondo; tanto l’unità dell’intero in cui si è gettati quanto la molteplicità delle varie parti dello stesso, di cui si è frammenti e con le quali si vive in una nebulosa relazionale; prendersi carico dell’empatia significa attraversare la complessità del mondo ed abitarlo in modo tale da accogliere l’alterità che ne costituisce la trama con la debita dignità ontologica – senza per questo sfaldarne la pur costitutiva identità. Una simile predisposizione consente di ritrovarsi ritualmente in quanto esseri umani e farsi dono reciproco.
Non vi è sviluppo nella ricerca teoretico-prassica umana se per empatia si intende il neutrale e generico ‘sentire dentro’ l’esteriorità, ignorando il fondo ontologico entro cui accade – tra identità e differenza – la costante ed asintotica opera di configurazione delle parti secondo misura. In questo alveo poggiano le principali questioni etiche e politiche: i diritti inalienabili, civili, politici, l’inclusione e – tirando la questione allo stremo – gli equilibri geo-politici e climatici che, in larga misura, dipendono dal potere che frena costituito dall’alterità e dalla custodia della stessa identità.
3. La valenza teoretico-prassica dell’empatia in quanto potere che frena
In termini uguali e contrari rispetto a quanto finora discusso, non meno pericolosa è la tendenza – inveratasi a più riprese nell’epoca dello strapotere della tecnica – ad assurgere a punto fermo e inscalfibile la propria particolare prospettiva. In questo caso, a governare monopolisticamente e voracemente il corso delle cose è l’incapacità empatica. Si tratta di una carenza esiziale, definita da Anders non «un semplice difetto fra i tanti» ma «addirittura peggiore delle peggiori cose che sono già accadute; […] Perché? Perché è questo fallimento che rende possibile la ripetizione di queste terribilissime cose; […] Infatti a incepparsi non sono solo i sentimenti dell’orrore, della stima o della compassione, bensì anche il sentimento della responsabilità»[8]. Anders distingue con decisione l’assenza di risonanza empatica e i fallimenti di immaginazione e percezione, ritenendo la prima ben più pericolosa. Si tratta di uno stato di cose radicalmente differente da quel ‘sentire dentro’ eticamente riprovevole che non manca, ad esempio, neanche all’individuo crudele: «la crudeltà non consiste di certo nel fatto che il crudele sia semplicemente “insensibile” alla sofferenza altrui. Tale “insensibilità” tra gli uomini è un difetto del tutto diverso dalla mancanza di co-sentire»[9].
Anche l’imporsi di questa netta distinzione tra i due eventi – l’insensibilità all’altro e la mancanza del co-sentire – ha, probabilmente, contribuito a far sì che Max Scheler maturasse l’esigenza di porre in discussione quelle proposte filosofiche (le cosiddette etiche della simpatia) che supponessero un’insita eticità nell’atteggiamento simpatetico. Secondo il fenomenologo, infatti, il mero co-sentire, il semplice ‘sentire dentro’ l’altro, non è marchio di garanzia etico, dal momento che risulta possibile empatizzare con quanto di più eticamente ripugnante si possa ideare e realizzare. Da qui la necessità scheleriana di andare oltre l’etica della simpatia, in quanto «presuppone sempre quel che vuole dedurre. Non operando infatti il collegamento primario del valore etico all’essere e alle condotte delle persone, al loro essere-persona e al loro esser-così […] finisce per derivarlo solamente dal comportamento dell’osservatore»[10]. Ecco il punto: l’empatia – se la si vuole accogliere nella sua portata etica – non può ridursi al solo ‘sentire dentro’ l’alterità; è necessario, al contempo, prendersi carico dell’alterità in riferimento all’essere, all’intero ed a ciò che si articola dalla sua enigmatica complessità. Al contrario si renderebbe l’empatia un processo eticamente neutro. Come ancora più esiziale è l’indifferenza empatica denunciata da Anders, preludio della dissipatio dell’umanità dell’uomo. Perché è nel tetro retroterra della più indiscriminata incapacità di ‘sentire dentro’ che si sono consumate le più truci nefandezze della storia dell’umanità. E questo vuoto d’empatia scorre, nelle più diversificate forme, dalle più raccapriccianti efferatezze di massa compiute nel tempo – alcune delle quali hanno portato Hannah Arendt a parlare di banalità del male – agli inenarrabili atti che tuttora sporcano di sangue e disumanità le pagine di cronaca nera:
«Tali sono ad esempio i bulli […], o gli adolescenti che non sanno cogliere la differenza tra corteggiare una ragazza o stuprarla, tra passare con indifferenza davanti a un mendicante o dargli fuoco mentre dorme […]. Queste non sono esagerazioni, basta ascoltare le risposte che questi ragazzi danno a chi li interroga sui loro comportamenti. Immancabilmente dicono: “ma cosa abbiamo fatto di male?”, “stavamo scherzando”, “era solo un gioco”. A questi ragazzi manca la risonanza emotiva delle loro azioni […], perché la loro psiche non le registra».[11]
Da qui l’assordante esigenza dell’empatia nell’elaborazione e prassi umana, e la conseguente e improrogabile necessità che ad un’educazione intellettuale si affianchi un’educazione emotiva. Perché il processo empatico funge da trait d’union tra dimensione razionale e piano emotivo; l’assolutizzazione di ognuno di questi due tratti essenziali della trama dell’umano conduce a effetti esiziali: da un lato alla fredda, metallica, meccanica distruttività di un procedere che, nel pretendersi razionale, miete scempi senza averne nemmeno la doverosa contezza; dall’altro ad un ‘sentire dentro’ scevro della dovuta risonanza etica e fatica intellettuale. Risulta di decisiva importanza preservare e incorporare l’empatia nella sua complessità, se intendiamo, dicendoci empatici, ritrovarci in quanto essere umani, nell’ineludibile, fondante, arricchente ed espansiva relazionalità con l’altro da sé.
4. La misura dell’empatia
Sulla scorta di quanto percorso si intende ritornare alla doppia accezione dell’espressione misura dell’empatia. Soggiornare presso l’empatia significa, da un lato, accoglierla con il dovuto rigore, nella sua costitutiva complessità; dall’altro lato, sulla base di ciò, abitare gli orizzonti teoretici e vitali che dal plesso empatico si diramano. Da qui la doppiezza del movimento empatico: la necessità di misurare l’empatia – scandagliandone radici ed articolazioni – fonda la possibilità che la stessa possa fungere da misura del nostro stare al mondo. Perché la questione empatica – il dispositivo del ‘sentire dentro’ l’altro da sé, che è parte integrante e decisiva della definizione del sé – colloca l’uomo in solchi originari e prospettici che irrorano, da millenni, la perfettibilità dell’esistenza individuale e comunitaria. E non può ridursi – come, spesso oggi accade nell’impiego smodato di concetti-cardine – allo status degradato di slogan, mantra di asservimento delle coscienze ammantato dall’aura della libertà, strumento economico-demagogico al servizio di un assetto che incentiva il perpetuarsi dell’Eguale e poco altro. Ed è la stessa vividezza della gittata ontologica dell’empatia a salvare, di volta in volta, dal tetro abisso dell’indifferenza – sia che questa sia alessitimia, sia che questa si declini in senso egocentrico-narcisistico. Abitare l’empatia significa volgere lo sguardo all’intero, alle sue parti ed all’indissolubile nesso, legame, relazione che vige tra questi: significa ritrovarsi in quanto esseri umani.
[1] B-C. Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente (Vom Verschwinden der Rituale. Eine Topologie der Gegenwart, 2019), a cura di S. Aglan-Buttazzi, nottetempo, Milano 2021, p. 22.
[2] A.G. Biuso, Disvelamento. Nella luce di un virus, Algra Editore, Viagrande 2022, p. 29.
[3] Ibidem.
[4] Ivi, p. 24.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 22.
[7] U. Galimberti, Il libro delle emozioni, Feltrinelli, Milano 2021, p. 107.
[8] G. Anders, Noi figli di Eichmann (Wir Eichmannsöhne, 1964), a cura di A.G. Saluzzi, Giuntina, Firenze 1995, p. 34.
[9] M. Scheler, Essenza e Forme della Simpatia (Wesen und Formen der Sympathie, 1923), a cura di L. Boella, L. Oliva, S. Soannini, FrancoAngeli, Milano 2010, p. 48.
[10] Ivi, p. 41.
[11] U. Galimberti, Il libro delle emozioni, cit., p. 56.