Le piume della storia. Una nota estetico-conoscitiva su Hegel e Benjamin

di Enrico Palma

 

Bene che io sia volato sopra te.

Bene che anch’io sia risuonato a me quando il cielo ti sgorgò dagli occhi.

Bene aver visto di chi brillò lì l’astro –

Bene non aver tuttavia gridato.[1]

 

La storia – questo dinamismo delle vittime.[2]

La grandezza di un filosofo si misura anche dalla sua capacità di suggerire immagini sapienti. Immagini, cioè, che riescano ad addensare in sé le dottrine e a farle parlare più efficacemente. A volte, tali immagini che sanno si richiamano a vicenda, come se ci fossero legami che occultamente le uniscono e che al contempo istituiscono felici termini di paragone. Benché le dottrine possano essere tra di loro distanti e inconciliabili, le similarità estetico-metaforiche, o più in particolare le spinte allegoriche che da esse prendono slancio, inducono a raccordare non solo se stesse ma anche le concezioni di cui sono esemplificazioni, sintesi e infine spicchi di senso. Queste immagini, inoltre, fanno alla lettera storia, per via della dottrina che riassumono e della loro potenza semantica.

Nella storia della filosofia due immagini possono essere accostate in modo fecondo per comprendere la storia, di cui peraltro sono oggetto, e la filosofia, di cui vorrebbero essere rappresentazione sintetica ed estetica. Ed è a due autori in reciproca allergia teoretica che si potrebbe fare ricorso: Hegel e Benjamin[3]. Entrambi, per così dire, hanno fornito per l’onore e la (vana)gloria della storia due metafore (o nel gergo del secondo allegorie), appartenenti al campo semantico del divino, e alate. Mi riferisco alla nottola di Minerva delle Grundlinien der Philosophie des Rechts e all’Angelus Novus di Paul Klee discusso nella IX tesi Über den Begriff der Geschichte. Queste filosofie giungono forse troppo tardi o nell’unico momento in cui è possibile arrivare, a cose fatte, quando il mondo è già in una forma cristallizzata e non più modificabile; oppure per favorire un ribaltamento, una ricognizione a seguito della quale, dopo aver saputo, ci si spinge verso l’azione, il riscatto e la redenzione. Il primo atteggiamento, all’ingrosso, può essere vero per Hegel; il secondo, invece, per Benjamin. Il primo concepisce la filosofia e la comprensione filosofica della storia come il raggiungimento da parte dello Spirito della consapevolezza di sé nel sistema ordinato dalla dialettica triadica che lo governa; il secondo intende la comprensione come il momento del riscatto in cui il peso storico degli eventi, generato dalla sofferenza degli umili e degli sconfitti, può cambiare aspetto, mutare forma, volgersi dalla rassegnazione contemplativa del passato allo sguardo ottimistico verso il futuro, laddove presente e passato si incontrano erompendo in un avvenire finalmente migliore, salvato.

Si percepisce molto forte in entrambe le posizioni una vibrazione, un palpito segreto, una contemplazione che vede la realtà e tenta di farne altro. Ed è per questa ragione che per orientarsi e per stabilire un possibile obiettivo è d’obbligo utilizzare una delle migliori, nonché delle più emblematiche, formulazioni della filosofia che siano mai state fatte nella storia del pensiero, ovvero il famoso epilogo di Adorno dei Minima moralia, in cui afferma: «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione [Verzweiflung], è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica»[4]. È molto complesso riuscire a cogliere tutte le sfumature dell’altrettanto complessa riflessione adorniana; restano però innegabili non soltanto una qualche assonanza hegeliana ma anche un’ascendenza benjaminiana, contrassegnata in modo vorrei dire inequivocabile dai riferimenti tanto alla redenzione che alla luce messianica. Compito della filosofia è dunque per Adorno snidare le contraddizioni della realtà per prepararle un giorno – che è quello della conoscenza e della trasformazione del sapere in atto concreto, sia nella dimensione interiore al soggetto che in quella esteriore, oggettiva – alla loro riconciliazione, al messia che verrà per risanare la disperazione.

Bisogna sottolineare in questo passaggio il vigore con cui Adorno pretende dalla filosofia quell’impossibile che la rende l’unico strumento in grado di occuparsi della sua stessa impossibilità: convertire il negativo in positivo, la contraddizione in risoluzione, la disperazione in gioia, la tenebra in luce. L’unica prospettiva possibile in cui il mondo può salvarsi, risollevandosi dalla sua stessa deformazione, è la conoscenza. Solo un mondo saputo è un mondo redento.

Ben lontani, quindi, dal voler istituire un confronto esaustivo tra i due pensatori chiamati in causa, né tantomeno un confronto critico che necessiterebbe di un lavoro molto più vasto e articolato, l’obiettivo sarà quello di porre in dialogo le due concezioni esemplate dalle immagini considerate così come sono state provocate da Adorno. Insieme a questo, grazie al loro accostamento, si cercherà di intenderle sotto il punto di vista adorniano della redenzione, di discutere quale genere di sapere e di conoscenza esse preparano: una comprensione filosofica della storia in cui consiste la conoscenza e, attraverso di essa, il preludio a un riscatto.

1. La nottola

Perché scegliere due filosofi che hanno sviluppato, in modi certamente diversi ma estremamente affascinanti, una filosofia della storia? Perché partire dalla storia così come gli uomini l’hanno forgiata e non approntare invece una riflessione di tipo ontologico? L’ipotesi da cui partiamo è molto precisa: la storia è quel grande pascolo metafisico in cui avviene il male, è l’accadere del dolore, della sofferenza e del disagio di stare al mondo. Se così non fosse, infatti, se il mondo non fosse ciò che è, non si parlerebbe di redenzione, di tensione al riscatto, della luce messianica nella quale la salvezza può essere ambita. Non nascerebbe l’esigenza alla comprensione sul perché le cose stanno nel modo in cui stanno. Al termine della storia, ovvero al punto in cui la storia stessa si è fermata in corrispondenza della vita del pensatore che vi riflette, si dà il dovere di comprendere razionalmente l’evoluzione storica del mondo, il farsi della realtà da parte dell’uomo che in virtù della sua creazione fa appunto storia. Comprendere ciò che siamo significa tentare di cogliere quello che siamo stati, ciò che ci ha portati qui, le forme che il dolore ha assunto nell’avvicendarsi sofferente delle epoche storiche.

Tale movimento, nell’abecedario teoretico di Hegel, è lo Spirito, che raggiunge se stesso sapendosi Assoluto al termine della storia nella Filosofia, la quale rende l’Idea consapevole di sé nel Concetto. L’intera speculazione hegeliana potrebbe apparire sotto questo profilo una super-filosofia dell’ottimismo[5], una fervente sostenitrice dello status quo, una contemplazione pragmaticamente ininfluente sul corso storico dello Spirito nell’avventura della propria consapevolezza, e che il pensiero deve rintracciare e concettualizzare. Ciò significa che quanto si verifica ha una sua ragione per accadere, rispetto alla quale la filosofia deve porsi esclusivamente come commentatrice.

Ai fini della redenzione, è sufficiente comprendere il male nel suo eventuarsi piuttosto che intervenire su di esso affinché non avvenga. Non a caso, dico super-filosofia perché una teoresi che fondi se stessa sulla visione razionale, invece che essere eticamente orientata, dissolve il bene e il male appiattendo i punti di vista valoriali nella contemplazione del mondo, nel suo totale dispiegarsi prescindendo da qualunque angolatura parziale: «Di cos’altro ha bisogno questa verità? Nella misura in cui lo spirito pensante non si appaga nel possederla in un modo così naturale, di cos’altro c’è bisogno se non anche di comprenderla concettualmente e di procurare al contenuto, già in se stesso razionale, anche la forma razionale, affinché il contenuto stesso si mostri giustificato per il pensiero libero?»[6]. Il Freies Denken, il pensiero libero, è per Hegel lo Spirito stesso che si dispiega liberamente facendo storia e che poi ripiega su di sé nelle forme del suo vario sviluppo, fino a culminare nello Stato, la forma più alta della sua libertà in cui coincide anche quella umana nel suo punto più elevato. Diventa chiaro allora come la filosofia in quanto scienza della verità sia l’esposizione sistematica, la Darstellung per dirla con Benjamin, del contenuto razionale dello Spirito che sa se stesso nell’opera.

In tal senso, è l’opera scritta di Hegel a essere il precipitato della Verità individuata, esposta e finalmente compresa. In essa risplende la luce della Verità in cui il mondo figura nella redenzione del Concetto, ovvero nell’Idea che sa se stessa e raggiunge il suo apice nella scrittura filosofica. Tale è l’immane potenza del pensare hegeliano, la redenzione che potremmo supporre riguardo alla sua speculazione e alla sua concezione della storia: il reale che, sistematizzato enciclopedicamente e scomposto nei raggi nei quali lo Spirito si espleta, ritorna nell’opera filosofica compiuta.

Così Hegel nella Phenomenologie, in aperta polemica con le scienze che gettano la filosofia nel discredito: «La filosofia, d’altra parte, viene spesso considerata come un sapere formale e vuoto di contenuto. Di conseguenza, non ci si rende conto che merita il nome di verità solo ciò che viene prodotto dalla filosofia, anche se poi il contenuto di questo prodotto si trova già in qualche altra nozione o in qualche altra scienza; né si comprende che, senza la filosofia, le altre scienze – cerchino pure quanto vogliono, con tutto il loro raziocinare, di fare a meno di essa – non sono in grado di mantenere vita, spirito e verità»[7]. Insieme alle contraddizioni, che sono vitali nella dialettica, Hegel racconta filosoficamente la storia del mondo come la fatica compiuta dallo Spirito alla ricerca della comprensione di sé. Secondo lo Hegel interpretato dallo storicismo, ogni filosofia è l’immagine del mondo a esso coeva appresa nel pensiero e divenuta scrittura filosofica, una redenzione associata al cammino della storia ma che proprio per questo non potrà mai avere una formulazione definitiva. Però è Hegel stesso, sempre nei Lineamenti, a fornire una risposta, anche seducente, a questa possibile obiezione: «La Filosofia, in quanto è l’attività di sondare il Razionale [das Ergründen des Vernüftigen], è proprio per questo l’attività di cogliere il Presente e il Reale [das Erfassen des Gegenwärtigen und Wircklichen[8].

La filosofia ha il compito di comprendere la Realtà nel suo operare razionale, coglierne l’andamento stabile, che per il filosofo prende appunto il nome di dialettica. La filosofia, prosegue Hegel, è ben lontana dal presupporre un Aldilà del quale occuparsi teoreticamente, un Dio che ha a cuore il mondo ma in cui non abita. Semmai, a essere in questione, è l’opera di Dio come Ragione nel mondo, ma di questo mondo, che quindi va assolutamente compreso. Il Presente, frutto della Ragione, è l’oggetto del pensare, e ciascuno, che è il figlio del proprio tempo, lo comprende speculativamente in quanto la filosofia è la conoscenza epocale nel pensiero[9].

Intuire ed esporre la Ragione del Reale e le sue diramazioni sono l’oggetto della filosofia, riconoscere ciò che supera la dimensione temporale dello Spirito e cogliere la Storia nel suo procedere. La Filosofia avrà dunque raggiunto il suo scopo quando il contenuto razionale del suo farsi storico avrà ottenuto l’identità con la sua forma come concetto. Quando, cioè, la storia sarà divenuta un presente reso tale dal Concetto: divenuta, insomma, scrittura filosofica. Questa potrebbe essere l’idea hegeliana di redenzione: la nottola di Minerva che, per così dire, scrive durante il suo volo il tragitto compiuto in cui lo spirito ha compreso e raggiunto se stesso, alla fine del quale il risultato sarà appunto l’opera filosofica.

Se tuttavia la filosofia arriva troppo tardi – quando l’idealità ha già espletato se stessa nella realtà e dunque tocca a lei congiungersi nuovamente con la storia nel pensiero rigoroso che la rende Concetto – è veramente di redenzione che si può parlare? Non subentra nell’interpretazione hegeliana dell’accadere storico proprio il male come scollamento tra Idea e Storia, che poi nella filosofia viene invece finalmente e con molta fatica ricongiunto?

L’incontro tra idealità e storia nella filosofia, e nella fattispecie nell’opera hegeliana, non è il frutto dell’approssimazione, cioè di un tiepido ricongiungimento: è infatti di una certa temperatura che bisogna tenere conto. Chiosa Hegel: «Come la ragione non si accontenta dell’approssimazione, la quale non è né fredda né calda e viene perciò vomitata [il riferimento è a Ap 3, 16], altrettanto poco si accontenta della fredda disperazione [kalten Verzweiflung]: quest’ultima ammette, sì, che nella vita temporale le cose vadano male o, al massimo, mediocremente, ma è convinta che in questa vita non si possa comunque avere nulla di meglio e che, pertanto, non si debba far altro che stare in pace con la Realtà. Quella che viene procurata dalla conoscenza, invece, è una rappacificazione più calda con la Realtà»[10].

La filosofia, nel modo in cui si è tentato di interpretarla a partire da Hegel, è una pace che si ottiene con la realtà, quella stessa Verzweiflung, disperazione,che in una stupefacente convergenza Adorno aveva ricordato essere stata lo sprone a pensare: un incontro wärmerer, più caldo, nel quale si può leggere l’attenzione finale di Hegel all’umano, alla redenzione dal male come conoscenza che riesce a dare pace, rappacificazione con il dolore e la miseria che caratterizzano e devastano la vita con la stessa esattezza con cui il Reale è an sich dialettico e razionale. La Ragione ammette che le cose vanno bene per lo Spirito ma male per gli umani che Essa governa. Eppure, la conoscenza filosofica che dagli umani viene pur compiuta riesce a riscaldare laddove la fredda Ragione predispone al dolore, a procurare quella serenità che in fondo è il dono ultimo e definitivo del pensiero, di colui che ha la notte della nottola dentro di sé. In estrema sintesi, con un esercizio di simmetria concettuale, conoscere è giustificare e giustificare è conoscere. Intendendo per giustificazione quell’atto redentivo-conoscitivo con cui si ripianano le contraddizioni, si ricompongono le fratture nell’oggettivazione filosofica delle ragioni generali dell’accadere dello Spirito.

2. L’angelo

Con Hegel si è cercato di elaborare criticamente quanto si legge nel Vorwort alle Grundlinien, ma tentare di farlo anche soltanto per accenni nelle Thesen benjaminiane risulterebbe come non mai superfluo[11]. Prima, però, ritengo utile discutere brevemente le Vorlesungen, soprattutto l’ampia introduzione in cui Hegel espone con grande chiarezza cosa una filosofia della storia debba fare e sviluppare, quali motivazioni vi soggiacciono e le finalità che la spingono a costituirsi come ambito, forse sommo, della Filosofia. «La filosofia della storia», afferma Hegel, «non significa altro che la considerazione pensante della storia»[12], laddove per pensiero si intende appunto la sostanza pensante dello Spirito che raggiunge se stesso nella sua contemplazione, nella comprensione dell’opera di Dio nel mondo di cui la filosofia è lo strumento privilegiato, quando l’essere è presso di sé e prende consapevolezza assoluta di se stesso.

Se per Hegel, come abbiamo già visto in parte, la storia era progresso irresistibile a cui il pensiero fornisce la sua concettualizzazione razionale, per Benjamin è invece catastrofe. Dove Hegel vede un intero dispiegato, Benjamin scorge solo punti di accumulazione in cui il continuum può arrestarsi e avvenire l’attimo del cambiamento realmente storico. Se il primo vede un fiume il cui corso a volte accidentato corrisponde alle flessioni necessarie dello Spirito atto a comprendersi, il secondo vede un gorgo, un’origine vorticosa. Ma in entrambe le prospettive possono individuarsi dei notevoli punti di contatto, sempre in considerazione della bussola adorniana del sapere verso la redenzione.

La nottola di Minerva spicca il volo sul far del crepuscolo, contempla la notte di quanto è già compiuto alla fine del giorno, ma è il suo percorso a importarci. La visione in volo della nottola coglie ciò che è senza l’impulso a modificarlo e non riconosce un’opera in cui l’azione debba intervenire. L’angelo, al contrario, vorrebbe trattenersi e dare un rimedio alle macerie che vede accumularsi sotto di sé, ma il progresso, la bufera che spira dal Paradiso e che si impiglia tra le sue ali sospingendolo verso il futuro, gli impedisce di farlo. Sicché, il Trümmerhaufen, il cumulo di macerie ai suoi piedi, sarà sempre più grande, il suo dolore sempre più cocente, il male da redimere sempre più gravoso.

Una riflessione confacente all’immagine benjaminiana si trova anche in Hegel, il quale pone interrogativi molto simili a quelli sottintesi dal filosofo berlinese. Hegel utilizza infatti Trümmermasse per denominare l’ammasso di macerie che la storia dell’uomo, per semplice destino o volontà propria, ha lasciato dietro di sé. Ma la rassegnazione, così come lo è per Benjamin, non è il sentimento che si addice a un grande pensatore, che alla staticità del così vanno le cose oppone lo sforzo e la fatica del concetto: il pensiero che tenta di andare al di là della confusione e della sterile contemplazione della rovina senza chiedersi i motivi per cui ciò avvenga.

Allora, spinti dalla noia che quella riflessione colma di tristezza potrebbe finire col darci, ricadiamo nel sentimento di essere vivi, nel presente dei nostri scopi e dei nostri interessi, in breve in quell’egoismo che rimane tranquillamente sulla sponda e da lì gode osservando da lontano, al sicuro, il confuso ammasso di quelle macerie [verworrenen Trümmermasse]. Ma mentre consideriamo la storia alla stregua di un tale banco da macellaio – immolate su di esso la felicità dei popoli, la saggezza degli Stati e la virtù degli individui –, ecco di necessità il pensiero anche domandarsi a chi, o in vista di qual fine, siano state offerte vittime in quantità così enorme.[13]

È probabilmente al naufragio con spettatore di Lucrezio che Hegel pensa e che riformula, intendendo l’indifferente egoismo della soggettività di ciascun individuo preso per sé come singolo a dispetto dell’oggettività filosofica che solamente può salvare da tutto questo. La storia è un quadro spaventoso, è il raccapriccio per il quale l’angelo benjaminiano tiene gli occhi spalancati per l’orrore. Ma quest’opera di violenza e sangue va guardata con coraggio, nel tentativo di attribuire un senso redentivo alle vittime che sono morte senza conoscere il fine per cui il loro sacrificio è stato necessario, perché insomma esiste questo Schlachtbank, il banco da macellaio. È possibile considerare la filosofia hegeliana come questo sforzo, in cui non c’è spazio, forse, per alcun messia che non sia l’attribuzione del messianico allo Spirito stesso, alla fiducia nell’evoluzione razionale del mondo storico. Nella notte della storia la nottola prende il volo, ma bisogna sperare che sia meno cruenta, che lo Spirito che «guarda in faccia il negativo» per convertilo nell’essere in virtù del suo «potere magico [Zauberkraft[14] possa vedersi più tenue negli occhi placati dell’angelo.

Tuttavia, nemmeno in Benjamin sembra che tale corso storico possa essere modificato, che le macerie possano smettere di accumularsi e la rovina arrestarsi. La Kette von Begebenheiten, la catena degli avvenimenti, la storia concepita come serie univoca di fatti appunto concatenati tra di loro, è agli occhi dell’angelo, ovvero del filosofo avvertito di tutto ciò, una sola catastrofe rappresentativa dell’intero corso storico: la vicenda di dolore che gli umani hanno edificato in memoria della loro perenne vergogna, il ricordo vivente e inestirpabile del peccato che intride la loro esistenza. Più che di una fine della storia si tratta secondo Benjamin di un anelito alla purificazione, che si riassume nel trasfigurare profondamente il dato storico in qualcos’altro, nel riscattare il male, nel vendicare gli oppressi, il grido strozzato, la gioia calpestata, l’amore infranto e la felicità perduta. Se non si fa questo, coloro che sono stati prima di noi e che ci hanno generati e portati a noi stessi saranno vissuti invano.

È a tale responsabilità che sottilmente ci rimette Benjamin: consentire al pensiero di arrestare per un momento la bufera e all’angelo di planare sul mondo, nella luce messianica a cui il pensiero avrà predisposto lo spazio per l’azione. Benjamin pensava a un’eventuale rivoluzione marxista che avrebbe dovuto riscrivere la storia facendo impugnare la penna alle vittime, ma anche se così non fosse la sua prospettiva resta valida ancora oggi. Perché ciò avrà significato intendere la filosofia, come voleva Adorno, quale riflessione sulla storia in vista della redenzione, affinché il dolore non sia più tale e la disperazione venga riformulata in gioia.

Quella che va cambiata, per Benjamin, è l’idea di storia, e si può anche affermare che l’oggetto della sua vis polemica sia proprio l’idea di storia così come emerge dalle opere hegeliane. Non giustificazione, ma riconoscimento del compiuto che la filosofia per Hegel sigla in modo irrevocabile nel Concetto dello Spirito saputo di sé[15]. La storia per Benjamin è la storia dei vincitori, i quali non permetteranno mai a chi soccombe di sovvertirla e di reclamare quel rispetto che invece sarebbe loro dovuto. Non si tratta di giustificare gli oppressori ma di pensare la storia come quell’accumularsi di macerie su cui l’angelo staglia impotente lo sguardo. Una Babele inabissata che strilla e che geme all’unisono della sofferenza. Anche Adorno, riguardo a Benjamin, si è soffermato su questo punto individuando il suo anti-hegelismo e facendolo emergere molto chiaramente: «Se Benjamin ebbe a dire che la storia è stata scritta finora dal punto di vista del vincitore e deve essere scritta da quello dei vinti, occorre aggiungere che la conoscenza deve bensì rappresentare la logica infausta della successione di vittoria e disfatta, ma deve rivolgersi – nello stesso tempo – a ciò che non è entrato in questa dinamica, a ciò che è rimasto per via: ai prodotti di scarto e ai punti ciechi che sono sfuggiti alla dialettica»[16].

Scrive infatti Benjamin: «Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre. L’immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico, si è detto abbastanza»[17]. Ecco perché la storia, per il berlinese, non si giustifica razionalmente secondo il principio hegeliano a essa immanente e che la governa in maniera immodificabile, bensì deve leggersi all’inverso spazzolandola contropelo, cercando di cogliervi il contrario di quanto si è raccontato e di udire tra le righe di quelle pagine il lamento della creatura resa ancora più muta dall’oppressione vicendevole che gli umani si causano a vicenda[18]. Ecco perché, aggiunge Benjamin, il Messia non viene solo a mutare le sorti di coloro che versano nel male senza nessuna colpa, o per una minorità imputabile alle avversità di un destino materialmente ingiusto (e di cui lo stesso materialista storico avrebbe smesso di occuparsi), ma è anche chi «sconfigge l’Anticristo»[19], chi ingaggia una strenua lotta contro il principio malvagio e ne esce vincitore. I morti saranno in pace soltanto nel momento in cui la storia avrà cambiato il suo corso e l’onda di dolore avrà placato il suo moto. «Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere»[20].

Quella che osserva l’angelo impotente non è la storia che vede la nottola: la storia degli eroi hegeliana è l’esatto opposto di quella storia degli oppressi di cui si è tentato di tracciare le coordinate, quegli eroi che per Hegel sono «i grandi uomini della storia: i loro scopi privati particolari racchiudono il contenuto sostanziale che è volontà dello spirito del mondo»[21], oppure, per dirla con Burckhardt, quegli «uomini poderosi e significativi» medianti i quali lo Spirito ci parla[22]. E questo contrariamente a Benjamin che non vede nessun interesse particolare elevato al livello generale; semmai, il filosofo berlinese scorge l’interesse particolare di un intero popolo che, in ottica ebraica, aspira collettivamente alla redenzione[23].

Hegel definisce la storia come il luogoin cui le epoche, le une contro le altre, si macellano in direzione della perfettibilità continua e della gloria conoscitiva dello Spirito. L’astuzia della ragione, in questo senso, sarebbe esecrabile al massimo grado se riferita alla classe operaia, che avrebbe dovuto ignorare gli eroi e impossessarsi violentemente della ragione storica per ribaltare la falsa provvidenza dei padroni.

In ogni caso, resta un punto da affrontare. La storia filosofica così come raccontata da Hegel nelle sue Lezioni sarebbe quella narrazione storica che per Benjamin è da riscrivere, monca del passato di coloro a cui non è stato consentito di raccontare la loro. C’è una parte dell’umanità, la più numerosa, che non è stata minimamente chiamata in causa e che bisogna interpellare ai fini della redenzione, quella sconfitta, che la storia non ricorda ma che è ancora con noi nel sapere da parte nostra, uomini del presente, di respirare l’aria che loro hanno respirato, di udire i suoni che loro hanno udito, di avere amato come loro hanno amato[24]. E ciò diviene chiaro nella tesi per questo scritto più importante, la III:

Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere tra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di ciò che è avvenuto dev’essere mai dato per perso. Certo, solo a una umanità redenta tocca in eredità il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una “citation à l’ordre du jour” – giorno che è appunto il giorno del giudizio.[25]

L’umanità che abbia redento il suo passato, che l’abbia conosciuto filosoficamente, può esserne degnamente erede e continuatrice, poiché chi comprende il dolore della storia – e che la storia ha accumulato oltre ogni limite di disperazione e di sopportazione – può risanare la ferita sanguinolenta dell’oggi, far fronte alla rovina dei giorni, alla crudeltà dell’intelligenza, alla cieca barbarie della guerra, alla mascherata di falsa gentilezza e candore in cui agisce imperterrita la prevaricazione sull’altro. È per questo motivo che l’angelo di Benjamin, diversamente dalla nottola di Hegel, può anche non essere una piena immagine filosofica, di comprensione. Ma nel suo essere allegoria, come ci insegna il filosofo berlinese[26], da rappresentazione immaginifica che coglie il presente può portare la creatura a comprendersi in modo differente, a spostare la sua condizione colposa e decaduta alla salvezza metafisica che ogni storia, o meglio filosofia della storia, deve sempre porsi come obiettivo.

Benjamin aveva affermato chiaramente che «nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione»[27], un concetto di felicità per il quale è solo al passato che possiamo concepire la salvezza, quando la nostra vita sarà stata riscaldata dalle persone con cui abbiamo voluto condividere il nostro tempo, soddisfatta dalla nostalgia verso esperienze che ci fanno credere l’esistenza sia stata degnamente vissuta, riempita dall’amore ricambiato verso coloro che abbiamo veramente amato. Avere una concezione simile del passato esistenziale, ed estenderla analogicamente alla vicenda umana che si chiama appunto storia, significa redenzione. La felicità, che per Benjamin è una questione storica sia sul piano individuale che su quello collettivo, è invece secondo Hegel la stasi dello Spirito, l’assenza di quelle frizioni che, ostacolando internamente il suo sviluppo, gli consentono di progredire e di proseguire nel cammino di consapevolezza di sé. «Felice è chi ha commisurato la propria esistenza al carattere, al volere e all’arbitrio suoi particolari, e così nella vita gode se stesso. La storia non è il terreno della felicità. I periodi di felicità sono pagine vuote della storia, poiché sono i periodi di concordia, nei quali manca l’antitesi»[28]. Se nella prima frase si legge un qualche richiamo all’antichità del motto delfico gnóthi seautón, la misura della propria finitezza e l’appagarsi del limite che si è come la prova più saggia del vivere, nella seconda si coglie esattamente la bianchezza della pagina storica sulla quale Benjamin avrebbe voluto che la rivoluzione riscrivesse i nomi delle vittime.

In un’altra annotazione dal tono vagamente gnostico, Adorno sostiene Benjamin, un riferimento a quella fedeltà alla pagina bianca e al concetto di felicità-al-passato che dovrebbe rendere una vita degna di essere vissuta: «Fedele alla felicità è solo chi dice di essere stato felice. Il solo rapporto della coscienza alla felicità è la gratitudine: ed è ciò che costituisce la sua dignità incomparabile»[29]. È questa gratitudine che dovrebbe rappresentare e costituire il pensiero: la benedizione, da nati disperati e gettati altrettanto disperatamente nella storia, dell’esserci stati.

Se è vero, quindi, che la redenzione era stata posta nei termini della scrittura filosofica, per Hegel la rappacificazione avviene scrivendo la storia dello Spirito nel modo in cui Esso si è saputo; per Benjamin va invece riscritta, e solo a quel punto, finalmente, la redenzione potrà dirsi affermata. Forse è per questo motivo che i capelli dell’angelo di Klee, se si vuole insistere nella metafora, somigliano a delle pergamene, a dei fogli di carta arricciati, facendolo assomigliare più che all’angelo della storia a quello della scrittura.

In conclusione, possiamo dire allora che la differenza tra queste due immagini, e tra le due filosofie messe in campo, è, in una parola, una questione di resistenza. Assente nella nottola, per la quale il sapere basta a se stesso e non necessita di nessun intervento nella realtà storica per giungere al riscatto delle macerie; determinante invece per l’angelo, il quale sussiste in tale impedimento invisibile. Diversamente dalla nottola, l’angelo vorrebbe planare sul mondo ma è impossibilitato a farlo. Non tocca a lui curarsi delle macerie, ma agli umani che vi sono gettati e vivono tra di esse. Non si tratta di giustificare la necessità comprendendola in quanto tale ma di capirla in funzione della possibilità che si può far avvenire in essa auspicando quindi un cambiamento, una trasformazione.

[Foto di Enrico Palma: A. Dürer, Ala di ghiandaia, acquerello su pergamena, 19,6×20 cm, Albertina, Vienna]  


[1] P. Celan, Gesammelte Werke in sieben Bände, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2000, tr. it. di D. Borso, Bene (Gut), in L’antologia italiana, Nottetempo, Milano 2020, p. 71, vv. 1-4.

[2] E.M. Cioran, Syllogismes de l’amertume, Gallimard, Paris 1952, tr. it. di C. Rognoni, Sillogismi dell’amarezza, Adelphi, Milano 1993, p. 106.

[3] Per un abbozzo di confronto tra Hegel e Benjamin, in particolare sul dispositivo tipicamente benjaminiano della Dialektik im Stillstand utile a comprendere gli effettivi rapporti tra i due filosofi, cfr. F. Desideri, Dialektik im Stillstand. Prolegomeni a un confronto tra Benjamin e Hegel, in P. Amato, A.G. Biuso, V. Bochicchio, M.T. Catena, F. Masi, V. Pinto, N. Russo, S. Venezia (a cura di) Metafisica dell’immanenza. Scritti in onore di Eugenio Mazzarella, vol. 1, Ontologia e storia, Mimesis, Milano-Udine 2021, pp. 47-59. Il saggio, a sua volta, rinvia opportunamente ai seguenti testi: F.D. Wagner, Aspekte. Benjamin und Hegel, in Global Benjamin / Internationaler Walter Benjamin-Kongreß 1992, a cura di K. Garber e L. Rehm, Fink, München 1999, vol. 2, pp. 1071-1087; J. Urbich, Benjamin and Hegel. A Constellation in Metaphysics, Publicacion de la Càtedra Walter Benjamin, Girona 2014; G. Sagriotis, Georg Wilhelm Friedrich Hegel Eulenflüge, in J. Nitsche, N. Werner (a cura di), Entwendungen. Walter Benjamin und seine Quellen, Fink, München 2019, pp. 125-147.

[4] T.W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben [1951], Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2007, tr. it. di R. Solmi, Minima moralia. Riflessioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 2015, p. 304.

[5] Su questa linea così si esprime anche Cioran: «Hegel è il grande responsabile dell’ottimismo moderno», in E.M. Cioran, Précis de décomposition, Gallimard, Paris 1949, tr. it., di M.A. Rigoni e T. Turolla, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano 1996, p. 182.

[6] G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts [1820], Meiner, Hamburg 1995, tr. it. di V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006, p. 43.

[7] Id., Phenomenologie des Geistes [1807], Meiner, Hamburg 1988, tr. it. di V. Cicero, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano 2013, p. 135.

[8] Ivi, p. 57, traduzione leggermente modificata. Si ricorda che il verbo wirken, da cui Wirklichkeit, realtà, comprende il significato di farsi, prodursi, crearsi, motivo per cui il Wirkliches hegeliano può significare tanto vero e reale, che producente e operante: il prodursi e l’operare dello Spirito e della Verità, insomma, in ciò che comunemente chiamiamo Realtà.

[9] Cfr. ivi, p. 141.

[10] Id., Lineamenti di filosofia del diritto, cit., pp. 63-65.

[11] Posso rimandare a P. Pullega, Commento alle «Tesi di filosofia della storia» di Walter Benjamin, Cappelli, Bologna 1980; D. Gentili, Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di Storia di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2019; M. Löwy, Walter Benjamin: avertissement d’incendie. Une lecture des Thèses “Sur le concept d’histoire”, 2001, tr. it. di M. Pezzella, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, ombre corte, Verona 2022.

[12] G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte [1837], Meiner, Hamburg 1986, tr. it. di G. Bonacina e L. Sichirollo, Lezioni sulla filosofia della storia,Laterza, Roma-Bari 2003, p. 9.

[13] Ivi, p. 20.

[14] Id., Fenomenologia dello spirito, cit., p. 87.

[15] A questo riguardo, rinvio a J. Ortega y Gasset, il quale discute appunto la presunta pienezza del tempo presente qualunque esso sia, ampliando il ragionamento anche alle Lezioni hegeliane, in particolare alle «meravigliose pagine sulle epoche soddisfatte». Si veda Id., La rebelión de las masas (1929), Espasa-Calpe, Madrid 2009, tr. it. di S. Battaglia e C. Greppi, La ribellione delle masse, SE, Milano 2011, p. 66.

[16] T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 178.

[17] W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte [1942], in Abhandlungen, in Gesammelte Schriften. Band 1.2, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2018, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 2011, p. 31.

[18] Il riferimento è ovviamente al saggio del giovane Benjamin Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen [1916], in Medienästhetische Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2018, pp. 67-82, tr. it. di R. Solmi, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 2014, pp. 53-70.

[19] Id., Sul concetto di storia, cit., p. 27.

[20] Ibidem.

[21] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 28.

[22] J. Burckhardt, Histhorische Fragmente, Eichborn, Frankfurt a. M. 1988, tr. it. di M. Carpitella, Lezioni sulla storia dell’Europa, SE, Milano 2009, p. 88.

[23] Lo stesso Benjamin, comunque, nel saggio sul Trauerspiel, pur parlando del sovrano così come rappresentato sulla scena, ne fa non il campione della storia ma la rappresentazione più alta della creatura muta e decaduta. «Il sovrano rappresenta la storia. Tiene in mano l’accadere storico come uno scettro», in W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels [1928], in Abhandlungen, in Gesammelte Schriften. Band 1.1, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2018,tr. it. di A. Barale, Origine del dramma barocco tedesco, Carocci, Roma 2018, p. 114.

[24] Parafraso così l’altissimo lirismo della tesi II.

[25] G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, cit., p. 28.

[26] Il riferimento è ovviamente all’ultima parte Allegorie und Trauerspiel dell’Ursprung.

[27] Id., Sul concetto di storia, cit., p. 23.

[28] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 25.

[29] T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 127.