di Enrico Palma
Se c’è qualcosa che può concepirsi come opposto alla paura di morire, alla maniera di due forze contrastive e respingenti che si equilibrano nella salute, pena la morte, questo è il desiderio di permanenza. Di tutte le forme in cui tale desiderio si esprime, in cui questo concetto insiste e viene istanziato negli atteggiamenti umani, e quindi nell’ontologia dell’esistenza, ritengo che una brillante rappresentazione l’abbiamo in una precisa opera di letteratura. La roba[1]è certamente una delle novelle più note della produzione verghiana, e giustamente. Memorabile per molti aspetti, essa si presta naturaliter a una grande varietà di interpretazioni. Nella ricca stratificazione del testo, è possibile individuare alcuni concetti cardine. Riducendo all’osso la questione, può dirsi abbastanza serenamente che con la Roba abbiamo a che fare con un ritratto assai esaustivo della tragedia della vita umana, anzi, che è la vita umana nella sua essenza.
Come i grandi affreschi o dipinti del Rinascimento, con un impianto registico sopraffino Verga fa immergere il lettore nell’ambientazione di un tempo quasi onirico, nella durezza delle condizioni di lavoro della povera gente, per la quale parteggia chiaramente. Seguiamo quindi le orme di un viandante qualunque che si inerpica dal Biviere di Lentini fino alle colline e all’altopiano, nei pressi di Vizzini, di Passaneto e di Passanitello. Verga ci fa interrogare sulla proprietà di qualunque cosa si stagli alla vista del viandante lungo il suo cammino: terra, piante, bestiame e anche uomini.
La narrazione che fa lo scrittore di questi luoghi è ormai una pagina tra le più famose della letteratura italiana, la cui generosità descrittiva è ben lontana dall’essere un’iperbole. Come lettori contemporanei, sembriamo sbalestrati in un’epoca lontana e fantasiosa per connotati tanta è l’opulenza di cui si apprende. Nel lungo elenco fornito, ci sono «magazzini che sembrano chiese», «galline a stormi», «una vigna che non finiva più», «un uliveto folto come bosco»; si scorgono da lontano le «immense macchie biancastre delle mandrie». Si è a tutti gli effetti in un regno e nei possedimenti di un sovrano: Mazzarò. Un uomo talmente ricco e potente di cui il narratore afferma addirittura che «pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia». Quel mondo era interamente di Mazzarò, di un solo uomo e, come vedremo, di un uomo solo. Di un uomo che divenuto il re indiscusso di quella terra ne assurge a rappresentazione esemplare.
Un re che però, nella scalata sociale che è tipica del cosmo verghiano, è partito dalle fatiche dell’operaio fino ad acquistare le terre di quei baroni che gli davano «calci nel di dietro» e che adesso invece lo chiamano eccellenza. Un uomo che, come sarà per Mastro-don Gesualdo, non avrà nella sua vita che il lavoro, da comprare terre e da far soldi, in un’attività esistenziale ricorsiva che ha un gorgo di inizio e di fine in se stessa, e che risucchia al suo interno sia lui sia coloro che gli sono sottoposti e che ora faticano al posto suo nei campi: la roba. La roba che intitola la novella, la roba che è uno dei temi ricorrenti della mentalità siciliana e dell’opera verghiana che ne è al contempo acutissima analizzatrice, la roba che è una delle metafore più forti dell’esistere al mondo secondo la precisa rappresentazione che ne fa l’autore. Mastro-don Gesualdo, come Mazzarò, è riuscito a emergere dalla canaglia, dalla puzza di stantio e di umori animali, dai pantani dei campi, dagli strali del sole d’agosto, dall’ignominia della povertà e del timore di Dio. L’unico destino da percorrere, l’unico vangelo da recitare e pregare è l’invincibile principio dell’accumulo. Solamente la roba, infatti,è il destino di salvezza apparente che può rendere sensata e sopportabile l’esistenza. La roba di uomini, come il caso del patriziato locale di cui i Trao sono i rappresentanti, o di terra, che rendono considerevole e robusta la consistenza di un uomo. La roba è l’occhio che tutto osserva, reclama, vuole, e a cui ogni cosa deve essere resa per la sua realizzazione, a costo del tempo della vita, degli amori sinceri, della famiglia, della salus. Così si legge infatti nel Mastro:
Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba all’osteria!
[…]
Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. Nel paese non uno solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. Dover celare sempre la febbra dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di un giorno; le ambagi per dire soltanto «vi saluto»; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce – la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o timore…[2]
Questo è il prezzo del riscatto dalla torba del malovivere, della vita vissuta e magnificata per qualcosa creduto più grande e duraturo, di ciò che non scade e non passa, dei danari, delle rendite, delle terre maledette, ma soprattutto di guardare dall’alto chi non si osava nemmeno sfiorare con gli occhi da lontano. La soddisfazione più grande è quella di riuscire, di aver sconfitto nell’agone i contendenti per quel bene che uno solo può possedere.
Dalla lettura della novella emergono infatti, secondo la stratigrafia che abbiamo citato all’inizio, molti punti. A seconda della chiave di lettura prescelta, possiamo penetrare gradatim nel cuore del testo. Mazzarò è l’esempio massimo del capitalista di epoca pre-industriale, il grande latifondista senza scrupoli e cruccio alcuno che ha agito nella propria vita soltanto in vista dell’arricchimento, dell’accumulo seriale e compulsivo di possedimenti che aumentassero sempre più l’entità del capitale, al punto che ogni cosa che si stendesse sotto lo sguardo di un visitatore straniero era di sua proprietà, che perfino quella terra, con una metafora da prendere molto alla lettera, fosse il suo stesso corpo sopra il quale si camminava, con una totale identificazione tra il capitalista e il capitale, tra il possessore e chi/cosa viene posseduto, una perfetta congruenza tra il padrone e le cause dello sfruttamento.
Quest’ultimo è uno dei temi principali del testo, il più epidermico, che una critica di denuncia sociale (ad esempio di ispirazione socialista o comunista) avrebbe gioco facile a isolare e a sviluppare. Si fa qui evidente la divisione sociale, o per dirla con Durkheim la divisione sociale del lavoro, per cui il capitalista in quanto tale non fa nulla per migliorare le condizioni di partenza: anzi, dimentica tutto della sua condizione d’origine, quando, operaio tra i tanti, sale sui corpi di tutti gli altri pur di raggiungere il punto più alto della piramide, sì da capovolgere il suo status da oppresso a padrone ma senza rovesciare la gerarchia in sé, la quale viene rimarcata anche più di prima.
Ma Mazzarò aveva una «testa come un brillante», e questa sua abilità a scapito dell’ingenuità o della debolezza intellettuale degli altri gli aveva permesso di diventare il signore indiscusso di quella terra, la stessa terra sulla cui superficie finiva di faccia per via delle pedate e che invece adesso calpesta con fierezza. Ancora una volta, quindi, l’egoismo di chi ce la fa perché più furbo, più aggressivo, più spietato degli altri, più di chi, certamente insieme al lavoro a cui aveva sacrificato ogni cosa, lascia intatte le macerie da cui è provenuto accentrando su di sé l’opulenza del mondo e che il destino punitivo gli aveva negato a causa di una nascita nell’indigenza. In ogni caso, se si può dubitare della denuncia sociale come carattere prioritario del testo, non può sfuggire la realtà della sofferenza e della fatica degli uomini e delle donne sottomesse alla roba come capitale, assimilabile, se vogliamo, alla celebre immagine marxiana del capitale-vampiro che succhia il sangue dagli oppressi per ottenere il proprio sostentamento. E difatti il sangue per la sua roba Mazzarò lo preleva dalla terra, ogni giorno, da mattina a sera, per tutte le stagioni.
La roba è una grande metafora di resistenza alla morte, qualcosa che si opponga con la terra e su questa terra alla tendenza inscritta in ogni cosa verso la dissoluzione. La roba è l’illusione di una zolla di permanenza nell’impermanenza ontologica del divenire, un muro di vento eretto per arginare la valanga dei giorni, una costruzione di argilla che si dissolverà alla prima tempesta. A lei Mazzarò aveva dedicato tutta la sua vita, come il più devoto dei mariti nei confronti della sua sposa. Mangiava solo pane e formaggio, «non beveva vino, non fumava, non usava tabacco», «non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne». L’unica donna era sua madre, per la quale il narratore ricorda che Mazzarò aveva dovuto pagare 12 tarì per il funerale. Il ritratto, insomma, di un essere miserabile.
Come ben mostra Grandet nel romanzo di Balzac, e tanti altri casi della letteratura e della vita, l’avaro, in fondo, è colui che più di tutti ha paura della morte. La teme, e il suo pensiero cerca di tenerlo il più possibile lontano da sé, al punto da occupare la sua mente, come fa Mazzarò, soltanto con il chiodo fisso della roba e di averne sempre di più. L’avaro, chi «è fatto per la roba», chiama irresistibilmente la roba a sé ed essi si incontrano. Egli è radicato nella terra più di ogni altro tipo umano, poiché se così non fosse, se avvenisse la saggezza derivante dal sapere questa terra un giorno di doverla lasciare, cesserebbe la smania dell’accumulo, nella comprensione circa la vita e il mondo della loro assoluta vanità.
Ma la roba vuole il sangue di chi la vuole fare, sottraendogli per intero il tempo della vita per metterlo al servizio della sua opera insensata. Come tutti i grandi imperi della storia, e quello di Alessandro ne è esempio massimo, morto il loro creatore la frantumazione sarà inevitabile. Nella roba non esiste nessun secondo fine se non se stessa, nessun’altra legge che quella della sua nutrizione e della sua crescita ipertrofica fino a quando l’accumulatore non sarà morto. In tal senso, l’urlo di Mazzarò che chiude la novella è l’estremo gesto di stupidità di un uomo finito e devastato. Guardando un povero ragazzo, egli pensa tra sé e sé come possa avere i giorni lunghi uno che non aveva niente. Niente eccetto ciò che agli occhi di un vecchio avaro riempie il suo cuore di amarezza: la giovinezza. Mazzarò guarda con terrore la giovinezza di quel ragazzo, in cui poteva specchiarsi e vedere il suo disfacimento fisico, la sua vecchiaia: «Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!».
Mazzarò è nel giusto nel suo rimbrotto. Trattasi proprio di un’ingiustizia di Dio. Mazzarò, infatti, e giungiamo in questo modo al cuore della novella, è un dannato. Su di lui risuona forte la maledizione di Dio di Genesi. È ormai un’acquisizione critica assodata quella per cui Verga fosse un esperto conoscitore delle Scritture e che se ne facesse influenzare lungamente nella sua opera, soprattutto quella matura[3]. Nella Roba, in particolare, ricorrono parecchie volte espressioni chiaramente riconducibili al lessico di Genesi, per non parlare delle assonanze tematiche, che sono fortissime. Il tracciato testuale della novella si sovrappone a quello di Genesi in molti punti, ma è la valenza filosofica a interessarci. Si diceva correttamente, anche nell’ottica di un’ermeneutica sul riflesso di Gerusalemme, riguardo a Mazzarò e ai suoi possedimenti che fossero equiparabili rispettivamente a un regno e a un re. Misurando l’ambizione di Mazzarò, Verga ne sancisce l’infinità, tanto da affermare: «Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua». Anche in questo caso, bisogna maneggiare il senso di questa frase come se non si trattasse di un discorso figurato. Mazzarò vuole essere meglio del re poiché lui stesso si sente un re. L’attribuzione della regalità al protagonista permette di aprire uno squarcio ermeneutico tra i più utili per la comprensione della portata filosofico-esistenziale di questo testo. Voglio dire che la dignità regale che Mazzarò si attribuisce è leggibile con le lenti prestateci dal racconto di Genesi, nel quale Dio aveva posto l’uomo a signore del Creato.
Nella descrizione che Verga fa del regno di Mazzarò, è lussureggiante come una terra promessa, in cui bisogna sfamare gli uomini che lavorano per lui, e anche «gli uccelli del cielo e gli animali della terra» (evidentissimo calco da Gn 1, 30). Per destino personale o per esserselo fabbricato (ricordiamoci del motto latino homo faber fortunae suae), Mazzarò è quindi il sovrano di quel regno. E tuttavia su di lui non brilla la luce della salvezza: egli è immerso totalmente nella palude della colpa adamitica, sicché si ripercuote gravosa sul suo destino la colpa derivante dalla caduta, e in quanto re assume la sembianza dell’effigie della creatura decaduta dopo la cacciata dall’Eden.
Mazzarò non è l’Adamo che attribuisce il nome alle cose secondo il modo in cui esse si sarebbero mostrate a lui rendendo evidente il loro segno, bensì è il re su cui ricade forte e inesorabile la maledizione di Dio: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai» (Gn 3, 17-19). Il dettato genesiaco sembra la più perfetta delle premesse per quest’altra descrizione della Sorge esistenziale di Mazzarò: «Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo». La maledizione post-edenica trova in Mazzarò il suo spicco più cristallino. Ed è questa maledizione a condurlo alla morte, solo, dopo una vita grama vissuta a succhiare il sangue da una terra che avrebbe finito per prosciugare anche il suo, a invidiare un giovane per il solo fatto di avere quella vita che lui aveva sprecato senza riuscirsi nemmeno a spiegare la natura della sua smania.
Ma nella visione del mondo verghiana non c’è spazio per i vincitori: nell’immane, e vera, tragedia che è la vita umana siamo tutti vinti, e a questa legge non sfugge nemmeno il re Mazzarò. È da ricordare a questo proposito il notevole principio ermeneutico formulato da Benjamin nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, per cui: «Il sovrano rappresenta la storia. Tiene in mano l’accadere storico come uno scettro»[4], che altro non vuol dire che il re, che nella novella Mazzarò esempla pienamente, è il rappresentante di tutte le creature, essendo nella posizione più alta e quindi di rimando il più colpito dalla maledizione genesiaca. In Mazzarò, secondo la lettura che Benjamin dà del dramma luttuoso del destino di età barocca, si avvera il destino storico della colpa proprio in qualità di sovrano. Mazzarò è il personaggio della novella che più di tutti gli altri è un vinto, persino più della povera gente che lavora per lui alle sue dipendenze e sulle spese della quale ha eretto il suo regno. Ha peccato di hybris per dirla coi Greci, per essersi levato oltre la punta della spiga di grano. Ma la sua è una dannazione ancora più profonda. Perché in questa novella radicalmente filosofica Verga mostra la condizione creaturale universale, dell’umanità tutta, che è sia di chi lavora e che subisce la regalità del suo padrone sia naturalmente di Mazzarò, direi anzi soprattutto sua. In Mazzarò scorgiamo in realtà noi stessi, destinati come siamo a scomparire senza lasciare niente dietro di noi, ad abbandonare qualunque cosa, compresa l’illusione di una qualche permanenza di cui la roba è indice supremo di maledizione.
Facendo memoria di Pascal, siamo allora dei re spodestati, la cui dannazione colpisce con più vigore chiunque cerchi di opporvisi, come un uomo dalla vita miserabile che alla notizia di dover morire preferisce, come Mazzarò che prende a colpi di bastone il suo pollame, dare la morte al mondo affinché nessuno possa così sopravvivergli, credendo stoltamente di averla avuta vinta.
[Foto di Vincenzo Pruiti Ciarello: la Piana di Catania vista da Passanitello al tramonto con l’Etna in eruzione]
[1] Il testo della novella è tratto da G. Verga, Tutte le novelle, a cura di G. Zaccaria, Einaudi, Torino 2015, pp. 256-262.
[2] Id., Mastro-don Gesualdo, Mondadori, Milano 2008, p. 71.
[3] Cfr. su questo punto G. Savoca, Verga cristiano dal privato al vero, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2021.
[4] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (Ursprung des deutschen Trauerspiels, 1929),trad. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, p. 39.