di Giovanni Altadonna
In un celebre passo del Teeteto, Platone mette in bocca a Socrate che il thauma, lo stupore inquietante provato dal personaggio eponimo del dialogo, è il marchio autentico della pratica filosofica: «Pare davvero, amico mio, che Teodoro non abbia espresso un giudizio sbagliato sulla tua indole: ciò che provi – la meraviglia – è un sentimento assolutamente tipico del filosofo (μάλα γὰρ φιλοσόφου τοῦτο τὸ πάθος, τὸ θαυμάζειν)»[1]. “Meraviglia”, nel senso greco del termine thauma, è bensì stupore di esserci, ma in quanto accompagnato dalla consapevolezza della possibilità del non esserci già o del non esserci più. La stessa metafisica «scaturisce dal fatto che dentro l’esistere, dentro il suo enigma, la meraviglia è una potente luce che illumina il cieco muro del reale, che rende comprensibile la forza abbagliante di ciò che c’è ed esiste»[2]. Ne deriva che l’angosciante sgomento dello stare al mondo può essere considerato il risvolto etico ed esistenziale della questione ontologica originaria, formulata da Leibniz e additata da Heidegger[3] quale “domanda metafisica fondamentale”: «Perché l’essente e non piuttosto il nulla?»[4]. La perenne urgenza della questione della problematicità dell’essente (la quale consiste nel carattere non-necessario e contingente di ciò che è), sebbene dai più ignorata, si impone prepotentemente nei momenti di crisi, di fragilità, di smarrimento: quando cioè la vita costringe coloro che sono gettati nel mondo a fare i conti con essa e con sé stessi.
È a quel punto che la domanda che accompagna costantemente la vita del filosofo diventa improvvisamente di interesse collettivo. Il libriccino (il termine è riferito alle dimensioni a stampa, non al contenuto) di Vito Mancuso A proposito del senso della vita (Garzanti, 2021) appare un’interessante occasione di confronto sulle implicazioni esistenziali e morali della domanda metafisica fondamentale: una volta costatata con “meraviglia” (nel senso sopra specificato) la nostra condizione di esserci-nel-mondo, che direzione, che significato, che gusto dare alla nostra esistenza? Il testo invita a «pensare proprio a lei, alla vita in sé: a quella cosa che accade e che, accadendo, ci fa essere. Ma essere come, essere cosa, essere chi?»[5].
Assunto preliminare del saggio di Mancuso, pienamente condiviso da chi scrive, è che il “senso della vita” non si dia ex abrupto, come un decalogo preconfezionato di credenze e di precetti pronto all’uso, ma sia piuttosto una costruzione perpetua che coinvolge quella sfaccettata e problematica realtà che è l’identità personale. «Il senso della vita è una costruzione. Per la precisione, è una nostra costruzione, non ancora finita e che mai lo sarà, ma che sempre avviene e si va facendo, a volte anche disfacendo»[6]. Ne deriva che non può esistere il senso della vita, unico e valido per tutti gli individui a prescindere dai loro vissuti particolari: «La realtà è che non esiste la possibilità di riconoscere a priori un unico senso della vita valido per ognuno. […] Dietro la particolare costruzione di ognuno vi sono infatti le numerose e complicate storie personali che l’hanno prodotta. Ho detto storie personali, ma è probabile che si debba risalire ancora più indietro nel tempo»[7], dal momento che nei vissuti soggettivi confluiscono le credenze, le scelte, i giudizi e i pregiudizi degli altri soggetti con cui l’individuo è stato, o è, in relazione:
La sostanza che noi siamo e che chiamiamo io è il risultato delle relazioni avute nel passato e di quelle coltivate nel presente. Ognuno di noi, anche adesso, è il risultato delle sue relazioni. Siamo fame e sete di relazioni, ma prima ancora siamo conseguenza delle relazioni. Lo saremo fino alla fine dei nostri giorni, e beato, mi permetto di osservare, chi di noi in quel momento potrà chiudere gli occhi circondato dall’amore dei suoi cari.[8]
Nelle relazioni interpersonali che sostanziano la vita, l’imprevedibilità della contingenza si mescola indissolubilmente e confusamente con l’intenzionalità del sentimento, con la risolutezza della volontà, con l’enigma della scelta. Ciò comporta più di una perplessità di fronte alla possibilità di trarre da questo fluido amorfo un’unità di senso. Si potrebbe pertanto trovare ridicolo che qualcuno pretenda di farlo per noi. Ma non è questo il fine del testo di Mancuso. Al contrario, egli sostiene, proprio sulla base dell’assunto iniziale pocanzi citato: «la mia prima tesi è: non c’è senso senza consenso. Siamo noi i responsabili del senso della nostra singolare esistenza qui e ora. Il senso quindi può esistere oppure no. Dipende. Da noi»[9]. Nulla però impedisce che l’individuo possa esprimere, condividere e offrire in dialogo la propria personale posizione circa il senso della vita: la seconda tesi di Mancuso è «il senso della vita è la sinergia»[10].
Prima di procedere alla giustificazione della seconda tesi, opportunamente l’autore sottopone a rettificazione l’ambigua espressione “senso della vita”, consapevole che «quanto più il linguaggio è retto e lineare, tanto più è preciso e vero, e tanto più genera pensiero coerente e vita autentica. Per questo Socrate amava e praticava la brachilogia, cioè la concisione del discorso»[11]. Qui si manifesta quella che è una delle più apprezzabili qualità dello stile argomentativo (diciamo pure: del rigore metodologico) della speculazione di Vito Mancuso: la disambiguazione dei concetti impiegati nel discorso, sottoposti ad esame etimologico, ermeneutico e filosofico.
La prima questione da dirimere è se si intenda ricercare il senso della vita in quanto tale o piuttosto il senso della vita umana. Mancuso, citando in proposito Il gene egoista di Richard Dawkins, afferma che secondo «alcuni biologi» moderni
il senso della vita è replicare vita, tutto qui […]. Il senso della vita di ogni vivente appare così consistente nel riprodursi rendendo la propria specie sempre più numerosa. Quindi è la specie a determinare il senso, non l’individuo; l’individuo è solo una pedina inconsapevole […]. La specie a sua volta lotta contro le altre specie nello scenario crudele che chiamiamo vita ma che forse sarebbe più opportuno chiamare guerra: “guerra di tutti contro tutti”, bellum omnium contra omnes, come dicevano gli antichi; o anche lotta per la vita, struggle for life, come più tardi disse Darwin. Ecco esibito, senza tanti orpelli, il senso, sanguinario, della vita.[12]
Va precisato che la famosa locuzione struggle for life in realtà fosse usata da Darwin (come egli stesso tenne a precisare ne L’origine delle specie) in «un senso lato e metaforico, che implica la reciproca dipendenza degli esseri viventi»[13], ovvero le relazioni ecologiche nell’ambito delle quali si esprime certamente la competizione (spesso brutale) per le risorse fra individui di una stessa specie e/o di specie diverse, ma anche la cooperazione, strategia evolutiva a volte ugualmente vantaggiosa al fine della capacità di lasciare discendenza (fitness riproduttiva). Già questo argomento di carattere empirico basterebbe a invalidare ogni tentativo di trarre dalla “natura” biologicamente intesa (e in particolare dalla teoria dell’evoluzione darwiniana che ne spiega i mutamenti nello spazio e nel tempo profondo) ogni termine di confronto ai fini di un discorso eminentemente etico e morale. Ad ogni modo, il fine dell’argomentazione di Mancuso è quello di circoscrivere l’estensione della locuzione “senso della vita”: per cui, si potrebbe scegliere di limitare tale concetto al senso della vita umana, piuttosto che al senso della vita in quanto tale. Eppure, Mancuso sceglie di estendere la validità della propria tesi (il senso della vita è la relazione/sinergia) anche al mondo fisico-naturale. In riferimento alla nozione neodarwiniana del senso della vita biologica, egli infatti scrive: «Questa visione deriva a mio avviso da una lettura impoverente della storia, della biologia e prima ancora della fisica, perché ignora che la vera natura della natura è la relazione»[14]. Tuttavia, appellandosi alla “natura” (termine quanto mai problematico e ambiguo nella riflessione filosofica occidentale) per smentire quella che a suo giudizio (e non solo suo, va detto)[15] è una forma di naturalismo riduzionista che implica ipso facto una lezione etica (ovvero la crudeltà quale cifra morale della “natura”), Mancuso commette lo stesso errore che critica nei sociobiologi e nei “darwinisti sociali”: ovvero quello di assurgere la “natura” a riferimento morale. Al fine di giustificare la propria tesi, infatti, egli cita solo esempi di “solidarietà” nella natura biologica (le cure parentali) o fisica (l’aggregazione di particelle subatomiche).
Piuttosto, ammesso che un termine di confronto rispetto al senso della vita (umana) vada cercato nella natura delle cose (fisiche), la “natura della natura” sembra manifestarsi, più che nella relazione, nell’entropia; ovvero il disordine crescente, l’orientamento al caos, l’irreversibilità del mutamento[16]. Infatti, sebbene il contenuto della seconda legge della termodinamica non riguardi «una dimensione esistenziale, qualcosa che accade nello spazio interiore di un’intelligenza che percepisce il divenire, ma [sia] un dato di realtà oggettiva che accade nella materia stessa», d’altra parte in ambito esistenziale “entropia” significa che
ciò che è accaduto non può riavvolgersi per tornare all’inizio del proprio accadere, esattamente perché gli stati di disordine sono molto più probabili degli stati originali di ordine. Ciò vuol dire che per ogni accadimento è più probabile la sua successiva trasformazione in un processo sempre più complesso e disordinato e non invece il fatto che esso permanga, e tantomeno ritorni, nello stato iniziale in cui accade.[17]
D’altra parte va detto che Mancuso, con onestà intellettuale, non manca di ammettere che la sinergia a cui tenderebbe la natura è continuamente sfidata da fatalità e ingiustizie, dal male e dal dolore innocente. Lungi dall’escluderle dal “senso della vita”, Mancuso al contrario considera tali «eccezioni negative»[18] come parte integrante di un processo[19] evolutivo teleologicamente orientato alla produzione di senso, armonia, relazione. «Chi ha saputo integrare al meglio tale dinamica di regola ed eccezioni grazie ad una visione evolutiva del mondo fu Pierre Teilhard de Chardin»[20]: la coerenza filosofica dell’argomentazione di Mancuso si basa appunto sull’evoluzionismo teologico di Teilhard de Chardin, in cui ontologia ed etica, scienza e teologia sono intrecciate col doppio filo di una metafisica teleologica, nella quale il problema del male è considerato «come inevitabile prezzo da pagare per l’evoluzione del mondo; anzi, come amava scrivere Teilhard de Chardin, del Mondo. Questo si evolve dal caos iniziale e produce senso sotto forma di vita e di intelligenza. Il male quindi e il conseguente non-senso sono l’inevitabile prezzo da pagare per la costruzione del senso»[21]. Ciò, si affretta a precisare Mancuso, non equivale in alcun modo a giustificare il dolore innocente: «Non c’è nessuna possibilità di giustificare la vita, la quale, essendo un processo, non è del tutto giusta, ma in parte è ingiusta. La vita non va giustificata; va piuttosto resa giusta, va aggiustata»[22]. Il fatto che chi scrive trovi condivisibile l’esito di questa riflessione (il dovere morale di fare del proprio meglio per aggiustare la vita) senza tuttavia condividerne le premesse (ovvero che le varie espressioni del male siano “eccezioni” a un Cosmo che tende alla sinergia, piuttosto che la norma di un universo in cui domina l’entropia) mi sembra degno di nota; in quanto mostra che gli esseri umani possano convergere su assunti etici fondamentali pur provenendo da strade intellettuali, esistenziali e (perché no?) religiose anche molto diverse.
A questo punto, dopo aver chiarificato l’intensione del termine “senso della vita”, Mancuso procede alla disambiguazione delle singole parole che compongono il concetto. In riferimento alle tre diverse accezioni del termine “senso”, egli scrive, «possiamo rimandare al significato della vita, alla sensazione che ci proviene dal viverla, o alla direzione che le diamo vivendola. Nel primo caso il senso della vita rinvia alla sfera intellettuale: il messaggio della vita. Nel secondo alla sfera esperienziale: il sapore della vita. Nel terzo alla sfera esistenziale: il viaggio della vita»[23]. In relazione alla polisemia del termine “vita”, bisogna precisare se poniamo la questione del senso della vita biologica (bíos), zoologica (zoé) o psicologica (psyché). La conseguenza, sul piano etico, di tale polisemia è, secondo Mancuso, la ragione per cui potenzialmente esistono tanti “sensi” della vita quante sono le vite individuali: «Eccoci al punto decisivo: ognuno di noi è e diventa ciò che guarda, ciò che attualizza, ciò che focalizza, ciò che pensa. In altre parole: il senso della tua vita dipende da te. Sono le tue scelte e le tue abitudini a renderti possibile o meno l’esperienza del senso. […] Ne viene che il senso della vita di un essere umano dipende dalla maniera con cui interpreta se stesso»[24]. La ragione di ciò è legata allo specifico umano che Mancuso rintraccia in uno spazio vuoto, ovvero l’abisso vertiginoso del libero arbitrio:
Questa possibilità di identificarci con le nostre peculiarità e insieme di prenderne le distanze, questa possibilità di identità e differenza, è possibile grazie a uno spazio vuoto dentro di noi. […] Noi siamo quell’essere così ambiguo e imprevedibile, capace del male più efferato e del bene più gratuito, perché dentro di noi c’è uno spazio vuoto che ci consente di essere e al contempo di non essere ciò che siamo fisicamente, intellettualmente, sentimentalmente. Noi siamo il nostro corpo e insieme non lo siamo, con esso sperimentiamo momenti di perfetta identificazione ma anche di completa estraneità, soprattutto nel caso delle malattie. Lo stesso vale per le nostre conoscenze, le nostre idee, i nostri sentimenti, senza i quali non saremmo ciò che siamo, ma da cui possiamo prendere la distanza e cambiarli, e cambiare.[25]
Appare degno di nota, in questo capoverso, l’esplicito ricorso di Mancuso allo strumento ermeneutico per eccellenza, la dialettica di identità e differenza[26]. Inoltre, esso fa implicitamente eco al primo coro dell’Antigone di Sofocle, per cui l’uomo è δεινότατον, ciò che vi è di più inquietante: nella parola poetica greca, analizzata da Heidegger «in modo da trarne qualche risonanza»[27], l’uomo è terribile proprio per la sua ambiguità, tale da renderlo meravigliosamente preoccupante, e inquietantemente abile.
La ricerca del senso della vita, continua Mancuso, è conseguente allo “spazio vuoto” dentro la persona e la modalità con cui si tenta di riempirlo è il consenso o il dissenso con cui l’individuo risponde alle sfide dell’esistenza. Essenziale è, a tal fine, far tesoro di ogni istante, rispettare ogni momento vissuto come occasione insostituibile per l’azione e la contemplazione: «noi siamo tempo, siamo essere e tempo, e se ammazziamo il nostro tempo, ammazziamo il nostro essere avvelenandolo con la volgarità, l’idiozia, la sporcizia»[28]. Qualsiasi cosa l’individuo assuma come senso della (propria) vita, essa deve essere talmente importante per la persona da indurla a vivere nonostante quelle che Mancuso definisce le “eccezioni negative” (cfr. supra): «Il senso della vita ci appare così alla luce di qualcosa più grande di noi, perché esso consiste nello spendersi per qualcosa di più grande di noi. Tale spendersi, che Marco Aurelio chiamava sinergia, noi lo possiamo anche chiamare amore»[29].
A questo punto appare lecito interrogarsi se la domanda intorno al senso della vita sia un bisogno innato dell’essere umano o piuttosto un bisogno indotto. Mancuso propende (a parere di chi scrive, correttamente) per la seconda ipotesi: esso è un atto di libertà sollecitato dall’educazione e anzi «una delle acquisizioni più importanti indotte dal lavoro educativo»[30]. Quanto ciò corrisponda al vero è manifestato dalla scarsa sensibilità, nella cultura di massa, verso quel particolare «volo della ragione chiamato tradizionalmente filosofia»[31] che è il punto di vista privilegiato da cui guardare al senso della vita inteso come significato dell’esistenza. Ed è anche in tale ambito che la genuina ricerca filosofica si esprime «non come sterile erudizione accademica ma come sapere vitale»[32] e che la filosofia mostra la propria specificità rispetto alle scienze particolari: «La distinzione tra conoscenza e significato è una delle più importanti acquisizioni di Kant. Fu lui a dimostrare che la conoscenza è opera dell’intelletto, in particolare di quella sua configurazione detta scienza, e che il significato è invece opera della ragione, in particolare di quella sua configurazione detta filosofia»[33].
Mancuso identifica nella “morte di Dio” quale evento/processo occorso nella cultura occidentale una delle principali ragioni della crisi antropologica che investe la stessa ricerca del senso della vita; e tuttavia rintraccia nell’appello alla “natura”, questa volta assunta nel significato etimologico latino di forza generativa, un appiglio ontologico alla propria proposta etica:
Se Dio è morto (cosa che io non penso, perché ritengo sia morto solo un modo sbagliato di intenderlo e di predicarlo), non per questo è morta la Natura, la cui etimologia latina, che rimanda al verbo nascere, allude al mistero della generazione della vita. Io penso che tale mistero contenga la logica-logos alla quale ci possiamo connettere per ottenere energia, e che tale logica sia l’armonia relazionale detta anche sinergia.[34]
In conclusione del libro, dunque, si ripresenta l’ambiguità di fondo della seconda tesi di Mancuso: che il senso della vita in quanto tale sia la sinergia sarebbe mostrato dalla logica relazionale cui tenderebbe la natura. Abbiamo avuto modo di osservare come questa tesi, che esprime una metafisica teleologica laica, sia filosoficamente avveduta, in quanto radicata nell’evoluzionismo teologico di Teilhard de Chardin e per certi versi anche nella dialettica hegeliana. Ciononostante, io non condivido questa tesi nelle sue implicazioni metafisiche. Ritengo, infatti, che la tendenza prevalente dell’universo sia (piuttosto che l’armonia relazionale) il divenire entropico, ossia l’irreversibile mutamento degli enti in altri enti, l’incremento del disordine della materia vivente e non vivente, l’equilibrio instabile delle relazioni chimico-fisiche, ecologiche e sociali: l’entropia è la nozione fisica che meglio può informare la riflessione metafisica anche per quanto attiene alle questioni etico-esistenziali. Trovo invece pienamente convincente la tesi di Mancuso sotto il profilo etico: che l’universo tenda al disordine non significa che noi non si debba, invece, opporsi al caos e, per quanto possibile, condurre una vita moralmente ordinata e asintoticamente protesa all’armonia, all’amicizia, all’amore: in una parola, alla sinergia. «Questo significa che il problema del senso della vita non è teorico, è pratico: consiste nel lavorare su di sé per diventare semplici e risultare veri, e così darci una mano gli uni con gli altri. Talora persino darci la mano, e camminare insieme»[35].
Dedico queste righe a Concetta Falcone, cui devo la lettura del libro di Mancuso oggetto di questa nota; perché mi ricorda ogni giorno, con il suo magistero esistenziale, che (anche) l’amicizia è il senso della vita.
[Foto di Giovanni Altadonna: Monastero dei Benedettini, Chiostro di Ponente]
[1] Platone, Teeteto o Sulla scienza (Θεαίτητος), 155d, trad. di L. Antonelli, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 68-69.
[2] A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, p. 5.
[3] Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica (Einführung in die Metaphysik, corso del semestre estivo 1935), trad. di G. Masi, Mursia, Milano 2018, pp. 13-61.
[4] Id., L’inizio del pensiero occidentale. Eraclito (Heraklit, corso del semestre estivo 1943), in Id., Eraclito, a cura di M.S. Frings, trad. di F. Camera, Mursia, Milano 2017, p. 150.
[5] V. Mancuso, A proposito del senso della vita, Garzanti, Milano 2021, p. 13.
[6] Ivi, p. 30.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 39.
[9] Ivi, p. 29.
[10] Ivi, p. 27.
[11] Ivi, p. 42.
[12] Ivi, pp. 46-47.
[13] C.R. Darwin, L’origine delle specie (On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, sesta ed., 1872), trad. di L. Fratini, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 139.
[14] V. Mancuso, A proposito del senso della vita, cit., p. 47.
[15] Su questi temi cfr. E. Severini, Etica ed evoluzionismo, Carocci, Roma 2020.
[16] Cfr. A.G. Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori, Catania 2016, pp. 20-25.
[17] Id., Tempo e materia. Una metafisica, cit., p. 67.
[18] V. Mancuso, A proposito del senso della vita, cit., p. 52.
[19] Processo che potremmo anche definire “dialettico” in senso hegeliano; non sfuggano infatti le affinità fra l’argomento di Mancuso e la forma del processo logico in Hegel, per il quale le istanze “negative” (antitesi) si integrano con le “determinazioni immediate” (tesi) in una “unità delle determinazioni” (sintesi). Non a caso Mancuso stesso cita la Fenomenologia dello spirito nel corso di questa dissertazione (p. 53). Si ricordi altresì che il filosofo di Stoccarda costituisce uno dei cardini della formazione filosofica del teologo italiano (cfr., ad esempio, V. Mancuso, Hegel teologo e l’imperdonabile assenza del “Principe di questo mondo”, Piemme, Casale Monferrato 1996).
[20] V. Mancuso, A proposito del senso della vita, cit., p. 53.
[21] Ivi, p. 55.
[22] Ibidem.
[23] Ivi, p. 57.
[24] Ivi, p. 64.
[25] Ivi, p. 66.
[26] Su cui cfr. A.G. Biuso, Temporalità e Differenza, Olschki, Firenze 2013; Id., Aiòn. Teoria generale del tempo, cit.; Id., Tempo e materia. Una metafisica, cit.
[27] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., pp. 154 ss.
[28] V. Mancuso, A proposito del senso della vita, cit., p. 67 (corsivo nel testo).
[29] Ivi, p. 68.
[30] Ivi, p. 74.
[31] Ivi, p. 75.
[32] Ivi, p. 78.
[33] Ivi, p. 84.
[34] Ivi, pp. 90-91.
[35] Ivi, p. 92.