di Daria Baglieri
Eleonora Randazzo
Non è l’invenzione della bomba atomica ad aver cambiato la storia dell’umanità, ma la conquista del fuoco, il controllo dell’esplosione che ha lasciato un silenzio immane intorno a sé nell’attimo stesso in cui l’uomo ha sganciato l’ordigno sui propri simili. La pellicola di Oppenheimer è anche in questo senso un vero capolavoro, la cui tecnica di realizzazione è tutta tesa a restituire l’impatto dell’invenzione della bomba atomica sul piano storico, politico, culturale, nonché individuale: la figura del fisico protagonista, sin dall’inizio della narrazione di Christopher Nolan, appare infatti turbata da un futuro che, negli anni ’10 del Novecento, durante la sua formazione alla New York Society for Ethical Culture, in realtà appena si intravedeva nell’alleanza tra il governo Roosevelt e la tecnologia in vista di una «nuova era illuminata e progressista»[1]. Un’era che, però, aveva anche appena conosciuto, a seguito di una crisi economica (1873), un antisemitismo diffuso negli ambienti istituzionali e una risposta a carattere culturale e intellettuale proveniente dalla comunità ebraica che prendeva le distanze dal sionismo, ritenendolo una forma di particolarismo non molto diversa dalla segregazione già in atto. Era esattamente questa la ethical culture cui fu educato Oppenheimer, di stampo liberale e finalità sociali, i cui ideali di riformare per fondare un mondo migliore non potevano non comportare una certa solidarietà verso le istanze della classe operaia. Un’educazione, infine, che causò non pochi problemi a Oppenheimer, per via delle sue frequentazioni di ambienti comunisti, negli anni del maccartismo, quando venne interrogato, sulla carta, per valutare la sua idoneità a proseguire la ricerca in ambienti sensibili per la sicurezza nazionale; nei fatti, per esserne allontanato. Le ragioni di questo procedimento hanno a che fare con il difficile rapporto con il potere politico che segnò l’intera esperienza professionale di Oppenheimer, ed è questo che restituisce l’acuta prospettiva di Nolan.
Dalla fotografia espressiva di Hoyte van Hoytema alle musiche spettrali composte da Ludwig Göransson, dal montaggio intrecciato di Jennifer Lame fin agli effetti speciali esplosivi creati da Scott Fisher e da Andrew Jackson, la complessa regia di Nolan mette in scena su diversi piani logici le oscure dinamiche del potere: quello dei vincitori sui vinti, ma anche quello del padrone sull’umile servitore. Tale, infatti, è il trattamento che riceve Oppenheimer durante il processo, quella stessa mente indipendente che aveva offerto al proprio Paese l’arma per vincere la guerra, nonché, appunto, una forza brutale e irrefrenabile capace di travolgere, polverizzare, infine dissolvere praticamente ogni forma di vita.
Oppenheimer è poi un’impresa cinematografica, volta a scrutare la potenza della materia, della luce, del suono, e per questo anche i riferimenti storici – per i quali Nolan non sceglie mai, neanche qui come in Interstellar o Inception, una sequenza cronolineare – si rivelano piegati e funzionali al momento più affascinante e, insieme, più tragico, del film. Ne è indice una sequenza che non ha ricevuto, proprio in quanto storica e quindi poco “nolaniana”, molti commenti dalla recente critica, cioè quella in cui giunge nelle aule di Berkeley, dove Oppenheimer era impegnato in ricerche di fisica teorica, la notizia della dimostrazione sperimentale, da parte di un’équipe tedesca, della fissione del nucleo di uranio-235, dopo diversi anni di ipotesi ed esperimenti inconcludenti. Mentre i fisici statunitensi, e Oppenheimer stesso, si interrogano sulle conseguenze di questa scoperta, viene annunciata la pubblicazione dei suoi risultati sui fondamenti teorici della contrazione gravitazionale o, in altre parole, dell’implosione delle stelle e della formazione dei buchi neri. È il 1° settembre 1939 e, non senza una certa ironia da parte di Nolan, la notizia viene immediatamente oscurata da quella dell’invasione nazista della Polonia: questa sequenza non comunica il già di per sé indicibile orrore della strage bellica, bensì ne lascia intravvedere l’origine nelle università, nei luoghi della scienza e della tecnica, già in gara per impiegare le rispettive scoperte nella realizzazione di un detonatore abbastanza potente da porre fine a ogni guerra.
È, questo, il sogno del moderno American Prometheus, come lo racconta con dovizia di particolari l’opera di Kai Bird e Martin J. Sherwin cui si ispira Nolan, che a sua volta ne scrive con gli strumenti del regista. La pellicola di Oppenheimer, infatti, è stata girata combinando la pellicola IMAX. Questo tipo di pellicola non nasce da formato 70 mm: prima della scoperta del sonoro, le pellicole erano in formato 65mm; dopo il 1935 verranno aggiunte le barre sonore che occuperanno quei 5 mm di pellicola, e che quindi complessivamente formeranno la pellicola 70mm. Inoltre, il 70mm IMAX ha un orientamento del fotogramma in orizzontale, rispetto alle pellicole da 35mm che scorrono in verticale. Infine, a differenza del 70mm con 5 perforazioni, il formato IMAX ne contiene 15. Questo denota bene quanto sia esteso il fotogramma, e quanto sia pesante la pellicola completa, e infatti, durante la proiezione, essa poggia su di un piatto orizzontale e si riavvolge in un altro piatto posto di solito sopra lo stesso. La grandezza di questo formato permette di elaborare una quantità maggiore di informazioni, e di conseguenza di raggiungere un risultato spettacolare durante le riprese delle esplosioni vere e proprie. In termini visivi, è una combinazione che permette di aumentare l’impatto visivo dei film, e infatti Nolan non si avvale di effetti speciali particolarmente elaborati ma “solo” di un uso mirato e della tecnica cinematografica. Non è un caso, inoltre, che Nolan scelga questo formato per scrutare nell’animo di Oppie-Oppenheimer, un bambino prodigio e uno scienziato visionario nel senso inglese letterale, cioè lungimirante, ma irrimediabilmente scisso tra la passione e il dovere dello scienziato, la teoria che «arriva fino a un certo punto» e la sperimentazione che «ha un impatto sulla vita delle persone», l’uniforme militare e il camice da laboratorio, la solitudine del visionary, per l’appunto, e la gloria, l’invadenza, la condanna, tutte egualmente provenutegli dalla comunità, il fine e i mezzi. Una tracotante fiducia nella tecnica e nel progresso, unite all’inettitudine a mantenerne il controllo sul fuoco del nucleare una volta donatolo all’umanità, che fanno di lui un moderno Prometeo. La sorprendente chiarezza e nitidezza della pellicola IMAX consente a Nolan e a van Hoytema soprattutto di imprimere una “fotografia mentale” del personaggio al centro della scena cruciale del film, legando indissolubilmente l’arma al suo artefice. Qui, all’impatto visivo si uniscono le composizioni musicali di Göransson, le cui onde sonore suscitano direttamente le emozioni del pubblico. Nolan ha rivelato che Göransson ha composto circa dieci minuti di musica a settimana durante lo sviluppo del film, e alcune scene sono state girate con una versione quasi definitiva dell’orchestra che le avrebbe accompagnate al montaggio. Göransson è riuscito ad assecondare la concezione di cinema come impresa irripetibile, e a conferire sfumature espressive senza le quali opere come Tenet od Oppenheimer sarebbero semplicemente, appunto, inconcepibili. Ne è risultato infatti un capolavoro narrativo, sapientemente composto dalla montatrice Jennifer Lame. Ma nel film non c’è solo un’accuratezza delle immagini e dei suoni eccezionale, quanto anche una precisa scelta dei silenzi che è fondamentale.
Per certi tratti angosciante, per altri imponente, questa musica unita a queste immagini rende la visione estremamente immersiva e affascinante com’era la mente irrequieta di Oppenheimer. Batter my heart, three person’d God: “Abbatti il mio cuore, Dio della Trinità”: contro il giudizio della comunità e della storia, quella mente sceglie la Trinità per nominare il test della prima bomba atomica a Los Alamos. Dio, del resto non gioca a dadi, aveva insegnato a lui e al mondo Einstein, e così un profeta non può sbagliare. Neanche una volta. Durante il collaudo del Trinity Test, scattato il conto alla rovescia, il silenzio crea un momento d’attesa e sospensione, sia per i fisici sia per il pubblico in sala. Quando però il conto alla rovescia si conclude e il pulsante di detonazione viene attivato, tutti – noi pubblico e loro scienziati e soldati – siamo stupefatti: sappiamo tutti che non si può più tornare indietro. Il silenzio che lascia spazio solamente ai sospiri, le immagini della colonna di fuoco che si alza verso il cielo, la luminescenza che colpisce il volto degli astanti al test, i quali si coprono con un vetro oscurante per proteggere gli occhi. E succede qualcosa di eccezionale in questo silenzio. Con un occhio attento si nota che l’unico a togliere la maschera protettiva è proprio Oppenheimer, che è anche l’unico il cui viso è colpito da una luce accecante. Qui Nolan ci mette in contatto con l’intimo punto di vista del fisico, con un’inquadratura tecnicamente chiamata proprio inquadratura soggettiva: ciò che vede lui, lo vedremo noi, e proprio qui Nolan cita per bocca del suo Oppie una frase sospesa tra un’aura di sacralità e un impensabile terrore: «Ora sono diventato morte, il distruttore di mondi».
Un micro-mondo, in effetti, e non un macroscopico effetto speciale, è quello che riprende il regista per riportarci al test del 16 luglio 1945: ciò che vediamo sullo schermo è una ripresa reale di una bomba su piccola scala. Nolan ha affermato infatti che il cinema contemporaneo può ancora fare a meno della Computer-generated imagery (CGI) e di strumenti digitali, riportandolo a una pratica puramente artigianale. Nolan ha ricreato interamente Los Alamos a Belen, nel New Mexico: durante i sopralluoghi si rende conto dell’impossibilità di girare lì le scene esterne (cittadina ormai moderna), costruendo da zero il villaggio in un set edificato in tre mesi, e sfruttato per appena sei giorni di ripresa. Non è vero, inoltre, che in Oppenheimer non ci siano effetti visivi: ci sono, ma non si vedono. O almeno, non sono gli effetti visivi a cui siamo abituati. L’esplosione è stata sì materialmente ricreata in miniatura, ma è stato poi un software, in post-produzione, a generare le inquadrature. Praticità da una parte, folgorazione visiva dall’altra, senza il dogma di ricreare l’identica detonazione avvenuta nel bel mezzo del deserto del New Mexico. Detonazione ripresa grazie alle camere IMAX e alle camere ad alta velocità, miscelando benzina, propano, polvere di alluminio e magnesio, usato per l’effetto del fungo atomico, poi composti in un’unica sequenza. Un lavoro di tecnica e di sostanza., ma per certi versi anche di magia. Lo stesso film è stato digitalizzato per poter permettere la visione in più formati, cercando di mantenere il più fedele possibile la visione, che però inevitabilmente differisce dall’originale 70mm IMAX. Per giunta la Kodak, una delle più importanti aziende per la produzione di pellicole, è stata la prima a produrre una pellicola 65mm IMAX bianco e nero appositamente per Oppenheimer.
Un boato tagliente rompe allora il silenzio, scende un buio agghiacciante, il fisico che affianca Oppenheimer pronuncia un semplice “ha funzionato”,ma il distruttore di mondi, attonito, annuisce con un micromovimento, e gli occhi spalancati, incredulo di ciò che ha visto ma consapevole di quello che è riuscito a creare: una terribile rivelazione della potenza divina. Una potenza che sta sullo sfondo – che è tutto, senza il quale non si vedrebbe altro – sin dalle prime battute, quando Nolan delinea il quadro di una personalità gigantesca e inafferrabile: egocentrico, instabile fino all’istrionico, Oppie è assetato di conoscenza, bramoso di letture – Marx, la Bhagavadgita, oltre che la fisica, la chimica e la meno nota delle sue passioni, la mineralogia – sicché sembra attraversare, più che vivere, la propria vicenda. Sebbene Oppie amasse l’avventura – non di rado, raccontavano i suoi amici, si allontanava sulla sua barca a vela durante le tempeste – Nolan ne sottolinea l’indole distaccata che prelude alla figura dello scienziato caparbio e intraprendente: amori clandestini, matrimonio, famiglia, persino la carriera a un certo punto, infine il processo –, sembrano scorrergli davanti allo stesso identico modo che i calcoli, gli esperimenti, le ipotesi. Rude uomo d’affari davanti ai vertici dell’esercito che cercano di scrutarne le capacità e l’utilità in vista del progetto Manhattan, geniale inventore a Los Alamos della pioggia di sangue che sarà poi rivendicata da Truman, e ancora, nudo e indifeso di fronte alla comunità nazionale e scientifica che lo sottopone a un processo dalle intenzioni e dal significato politici, Oppie mira sempre a consegnare alla storia qualcosa che trascende il singolo. La potenza divina, appunto, o una grande scoperta, o il potere di vita e di morte. E l’energia nucleare e la bomba atomica sono un po’ tutto questo.
È la moglie la voce del narratore che inserisce Oppenheimer nel suo ruolo, e nelle sue responsabilità, storici, quando lui confessa un rapporto clandestino per dimostrare la sua distanza dal comunismo: è una faccenda intima, ma nota a tutti, e dunque il problema non è il tradimento, ma che «oggi l’hai detto alla storia». Così che del grande scienziato non resterà neanche la macchia di sangue che, pure, egli si sente addosso, quasi a dire, suggerisce Nolan, che nessuno è qualcuno nel cerchio, nel ciclo della grande storia e della storia dei grandi. Infatti, sebbene il processo sia il riferimento temporale alla base della narrazione di Nolan – che di per sé si muove su più livelli, com’è tipico del regista di Inception, Interstellar, Tenet – lo spartiacque logico, oltre che il fulcro della narrazione, è piuttosto il Trinity Test. E non perché sia, come pure è una rivoluzione nella fisica, ma perché qui si decidono i negoziati di Potsdam, con gli strumenti delle conquiste scientifiche e dell’accordo – diplomatico, ma non troppo – tra esponenti politici che reggono in mano le sorti di una guerra, dei propri cittadini, del pianeta. Ancor più, nasce una vera e propria nuova cultura: «prima è stata la nostra arma, poi la nostra diplomazia, adesso è la nostra economia. Come potremmo supporre che qualcosa di così mostruosamente potente non faccia parte […] della nostra identità? Il grande Golem che abbiamo costruito contro i nostri nemici è la nostra cultura»[2].
Una volta fornito il fuoco agli uomini, Prometeo tenta di gestirne le conseguenze, ma qualcosa di indipendente dalla sua personalità e dal suo volere è ormai irrefrenabilmente in corso. Siamo agli albori della guerra fredda, quando una bomba russa è ormai questione di tempo e nasce dunque l’idea dell’arsenale e del deterrente, nasce l’idea delle nuove guerre e del governo mondiale, mascherato da mondo pacificato sotto il terrore. E se già dall’invasione seguita alla sperimentazione tedesca si prefigurava una scoperta «abbastanza grande… da chiudere tutto», dopo il Trinity Test è chiaro che il potere che Oppie ha rivelato «sopravviverà ai nazisti». Non è una nuova arma, ma un nuovo mondo, e persino il moderno Prometeo si trova incatenato alle sofferenze che derivano dalla sua ambizione, la stessa che a Los Alamos l’aveva visto scontrarsi con i fisici – e amici – obiettori. Il potere attrae e persuade, e anche per questo si nutre di uomini come Oppenheimer, visionaries che vedono oltre il momento in cui vivono e, ben di più, sanno che c’è un prezzo da pagare. E questo è un prezzo sia personale che storico: «si può sollevare la pietra senza essere pronti per il serpente che viene rivelato», l’aveva messo in guardia niente meno che Niels Bohr ben prima dello scoppio della guerra, anch’egli quasi prefigurando come il vero pericolo non sarebbero stati i nemici, ma lo stesso lavoro del fisico cui sarebbe stato affidato il «terribile segreto» dell’incendio dell’atmosfera, della distruzione totale.
Il prezzo personale è, si diceva in apertura, un processo politico che niente ha avuto a che fare con la giustizia. Perché politica, Oppie lo sa, è la sua macchia, e solo retoricamente umanitaria: è il suo passato comunista a gravare sulla sua possibilità di essere o meno autorizzato a partecipare agli studi per lo sviluppo della bomba H ipotizzata, proprio durante gli anni a Los Alamos, da Edward Teller. Lo stesso passato in cui Oppie aveva rifiutato gli applausi dei comunisti, aveva preso le distanze da alcuni amici e anche dal fratello, aveva tagliato i ponti con un’amante che si era infine suicidata. Quel rifiuto con cui aveva meritato la credibilità indispensabile per essere coinvolto in un affare come il progetto Manhattan, e che l’aveva riportato sotto i riflettori per annunciare i gloriosi risultati di un test mentre, agli occhi del visionary, i vivi che applaudono diventavano subito cadaveri che si sgretolano. Del resto, da buon profeta di una nuova era, le scoperte sulla contrazione gravitazionale avevano già un significato tutto personale per Oppie: «più grande è la stella, più violenta è la sua scomparsa».
All’incontro tra Oppenheimer e Truman, tra la scienza e la storia, si stringe finalmente il nodo tra la tecnica e il potere, la prima che ha ormai vinto la propria corsa contro il tempo, il secondo in ultimo costruito sulle macerie di chi, il proprio tempo e il proprio potere, in un attimo li ha perduti. E ciò vale in riferimento sia all’ingiustificato attacco statunitense su Hiroshima e Nagasaki, sia alla vendetta politica su Oppenheimer. Da un lato la sete di sangue dei vincitori che, nella figura di Truman, con orgoglio di sé e compassione dell’altro rivendicano la strage in quanto propria opera, porgendo a un mero artefice – e non decisore – com’è Oppenheimer, un fazzoletto fallimentarmente consolatorio della brutalità che accompagna l’uso delle armi nucleari; armi cui si fece ricorso una prima volta per la sconfitta del nemico, una seconda per dimostrare di saperla, poterla, volerla usare anche dopo la resa. Dall’altro lato, l’inventore della bomba che «cade sui giusti e sugli ingiusti», tre secoli di fisica, si rende conto Oppie, che culminano in un’arma di distruzione di massa. Il potere, insomma, è di chi osa esercitarlo, non del servo che gli procura i mezzi né dello scienziato che ne conosce e segnala pericoli e responsabilità. Del prezzo umano di una simile conquista, Nolan tace, e ce lo somministra ancora una volta, letteralmente, attraverso gli occhi di Oppie. Nolan non mostra Hiroshima e Nagasaki, neanche le foto degli effetti delle radiazioni, che tutto il mondo poté vedere, le diapositive di un nemico «sostanzialmente sconfitto», scrisse Oppenheimer stesso. Immagini lampanti e micidiali con cui si comunicava che la possibilità di un’altra simile strage chiudeva l’idea stessa di un qualunque futuro contrasto con gli USA. Niente percezione né memoria delle vittime, nei distretti militari e nei palazzi del potere; soltanto la fredda constatazione che «pare sia stato un tremendo scoppio». Di cui Oppie ritroverà l’eco nei piedi su cui si regge la folla che freneticamente attende di applaudire al direttore del progetto Manhattan, e poi subito nei volti e sorrisi inceneriti, corpi malati, e tremendi, irreversibili lutti, che circondano di dolore e silenzio il padre della luce che gettò l’umanità nella più buia delle sue epoche. È il momento più crudo e realistico di un film di ispirazione storica in cui però non manca il noto Nolan che lascia sfumare i confini della percezione verso una cognizione indiretta, soffusa, drammatica e imprendibile, di una realtà forse più reale di quella presente ai sensi. Quasi una forma di rispetto mancata invece da parte politica: non importano le vite tranciate, l’impatto ambientale, i danni psicologici, gli effetti devastanti per generazioni e generazioni di giapponesi. Non importa delle generazioni future a una politica che – mentre la comunità scientifica si lava la coscienza con un monito – mostra un sorriso di trasparenza e sventola quel fazzoletto imbevuto di pungente ironia e macabro umorismo: occhi superbi e spietati che si piegano sulle mani del costruttore, del tecnico sotto processo, per non volgersi alla vittima.
Non martire di un potere corrotto, ma stella che implode proporzionalmente alla propria massa, diventa Oppie quando non è più utile né al potere né alla massa. Un’esistenza sepolta da imponenti pile di carte sudate per amore della sicurezza nazionale, in una grigia e «squallida stanzetta» dove anche chi ha servito il potere è destinato a essergli nemico. Una condanna in nome di una giustizia più grande che non trova spazio per la riconoscenza. Il premio, alla fine, è per chi ha degnamente esplorato, gestito, controllato, il temibile vaso di pandora, non per il matto che l’ha scoperchiato.
Quello che potremmo definire “effetto Oppenheimer” con riferimento all’idea della pacificazione grazie al deterrente nucleare, la fine di tutte le guerre sotto la minaccia della distruzione del globo, sembra gradualmente svanire. Si pensi alla situazione ucraina e a quella israelo-palestinese: la possibilità di una pace longeva, che del resto, pace nel mondo non è mai realmente stata, sta perdendo efficacia, probabilmente anche perché si fa più vicina la possibilità che armi nucleari, e più potenti di quelle del 1945, vengano nuovamente utilizzate per por fine a una – o più – guerre. In quest’ultimo senso il film di Nolan non è solo storia, quanto più memento: quello di un disagio e un sobbalzo collettivo che hanno aperto una dimensione per certi versi speciale, per molti decisamente spiacevole, che solo la sala cinematografica poteva ricreare. La morte, il distruttore di mondi: un mantra malamente sottratto al pensiero orientale, ben consapevole del limite e anni luce distante dall’orda in festa che accoglie la prima esplosione dell’atomica. Un mantra che diventa, appunto, memento della condanna dell’umanità al proprio nulla.
Alcune sale che proiettano nel formato IMAX in Europa sono:
BFI IMAX, (British Film Institute) – London, UK
Vue Manchester IMAX & The Printworks – Manchester, UK
The Ronson Theatre at the Science Museum – London, UK
[1] K. Bird, M.J. Shervin, Oppenheimer. Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica (American Prometheus, 2005), trad. di E. e A. Vinassa de Regmy, Garzanti, Milano 2023.
[2] E.L. Doctorow, The State of Mind of the Union, The Nation, 22/3/86.