L’odio metafisico della storia. Su “La chimera” di Sebastiano Vassalli

di Enrico Palma

 

Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo.

Alessandro Manzoni

 

  1. Una storia per il presente

 

Comprendo bene cosa intenda l’autore quando parla di un «secondo cavalcavia»[1] da cui può vedersi, con lo sforzo di immaginazione storica in cui consiste questo romanzo, Zardino, il villaggio nei pressi di Novara nel quale è ambientata la vicenda. Voglio dire – intercettando con ciò anche i versi e i sentimenti di Dino Campana, uno nei numi tutelari del romanzo – quanto bello possa essere un insignificante spostamento tra il grigiore, la nebbia e il rumore del moderno a confronto dell’antico, anzi, dell’ancestrale, se oggetto della nostra fantasticheria è ad esempio quel Monte Rosa che come un dio fuori dal tempo riscatta la piattezza. Oppure il Lago d’Orta, il «minuscolo paradiso» (p. 296) luogo di provenienza di uno dei protagonisti, del quale si dice che «in questi primi anni del Seicento in cui si svolge la vicenda di Antonia, era un luogo incantevole, da fiaba: le sue acque non erano avvelenate dagli scarichi delle industrie né solcate dai motoscafi, la ragnatela d’asfalto, tutt’attorno, ancora non esisteva, così come non esistevano i campeggi, le ville a schiera, i condomini di otto o dieci piani e l’edilizia del ventesimo secolo» (ibidem).

Il presente non ha valore, non è utile, non è interessante. Vassalli compone allora questo romanzo con un’ovatta onirica, in cui la storia è chiamata a comprendere il presente. È però sul filo del paradosso che si muove l’autore: taccia il presente di inconcludenza e inanità ma al contempo si impegna a studiarlo, adoperando l’approccio archeologico tutto manzoniano – come ci spiega nell’appendice – di studiare la storia per capire l’attuale, cercando di individuarne costanti, leggi, regolarità. Affondare allora nel Seicento sulle orme del grande romanziere lombardo per conoscere di più il presente, la società, l’Italia.

Benché la geografia del libro sia limitata soltanto al basso e alla città di Novara, e l’intento sia di ravvisare l’origine di quel carattere italiano che, come spiega Vassalli interpretando Manzoni, deriva da questo Seicento barocco, spagnolo e cattolicissimo da cui il popolo italiano sarebbe sorto, La chimera possiede un respiro più ampio, metafisico, teso a intercettare i principi primi dell’agire umano, del dolore in cui sono immersi e soprattutto del male della storia, che con Tucidide, Machiavelli e lo stesso Manzoni possiamo far coincidere con la vicenda dell’esserci nel mondo, con la sua costitutiva Geschichtlichkeit, storicità, per ricordare Heidegger. In verità, disprezzare e deprezzare il presente, tentando di sostituirlo, per così dire, con una chimera storica, per poi comprenderlo e spiegarlo a seconda di cosa questo scavo, questa ricostruzione letteraria, ci avranno mostrato – laddove la letteratura come scienza filosofica dello spirito sia data per valida –, rappresenta solo in apparenza una contradictio in adiecto, bensì una riappropriazione sia di tempo sia di senso che una veduta letteraria sul passato consente di ottenere.

«Guardando questo paesaggio, e questo nulla, ho capito che nel presente non c’è niente che meriti d’essere raccontato. Il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarci l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla» (p. 12. Il lungo corsivo è nel testo). Il presente ha un merito, quello di poter essere compreso, non raccontato: solo ciò che è storia – l’idillio di ciò che è stato e che rimane integro dall’assalto della ferocia della tecnica moderna fatta di binari, caldaie, asfalto –, anzi ciò che è oggetto, terreno e appannaggio della storia può essere degno di narrazione, di diventare, in altri termini, letteratura.

L’affaccio dalla finestra della voce narrante, dell’autore che dice io e che racconta la storia, è perciò tutt’altro che accidentale: è un affaccio sul nulla desolante del presente; sul nulla silenzioso della storia, le cui ingiustizie chiedono di essere ascoltate con un forte impeto di liberazione; sul nulla cosmico, ontologico, che può essere benissimo quello della modernità della morte di Dio nietzscheana, ma che Vassalli rilancia facendo affondare direttamente nell’assenza del divino, in nome del quale pur si compiono sacrifici e condanne, e che è, in definitiva, la vera e propria chimera a cui il romanzo serve da terreno preparatorio per la comprensione.

 

  1. Con Manzoni

 

Questa chimera storica è il racconto di un’esposta, Antonia Renata Giuditta Spagnolini, che già nel nome condensa in maniera programmatica l’obiettivo del libro, questa genealogia delle nazioni il cui elemento spagnolo è come detto preponderante. Antonia è una povera bambina lasciata alle cure della Chiesa, poi presa in carico da una famiglia di Zardino, la quale, per via della sua diversità, della sua bellezza, o semplicemente della sfortuna, finirà arsa viva sul rogo, poiché condannata dal Tribunale dell’Inquisizione di Novara con l’accusa di essere una strega. Il narratore in molte occasioni non si risparmia di intervenire direttamente con giudizi valutativi sulla questione, ripercorrendo per certi aspetti la lezione manzoniana. Ripetutamente si afferma il non-senso del processo, la superstizione degli ecclesiastici, la crudeltà e la cattiveria del popolo. Tutte cose che il romanzo storico, con il grande pregio della distanza temporale, fa emergere in modo chiarissimo. Con un calco da Manzoni, introducendo uno dei personaggi-chiave della vicenda, un vescovo fallito e vendicativo, Bascapè, Vassalli scrive: «Gran personaggio, il vescovo Bascapè! Personaggio emblematico di un’epoca, ormai lontana nel tempo e in sé conclusa; ma anche di un modo di intendere la vita e il destino dell’uomo, che non cessa di riproporsi e che certamente durerà, ben oltre il secolo ventesimo…» (p. 28). Se ci ricordiamo che questo libro è stato pubblicato nel 1990, e dunque agli albori dell’ultimo decennio dell’ultimo secolo del millennio appena trascorso, è certamente vero quanto Vassalli afferma a proposito di Bascapè, ma più in generale dell’umanità e dei modi più diversi, assurdi e paradossali che essa ha per esprimersi. È un altro modo per intendere il male che intride la storia, e capirlo nel passato significa capirlo ancor di più nel presente, per la ragione che da quattrocento anni e più, persino nella campagna novarese, queste caratteristiche dell’umano hanno perdurato, fino a lambire gli anni Venti del terzo millennio e andare oltre, finché almeno ci saranno umani e una storia continuerà a farsi.

È la condizione femminile bistrattata e subissata, chiarita in modo esemplare da Rosalina, l’amica di Antonia costretta dalle circostanze a concedersi a uomini, unica via di scampo per chi come loro ha iniziato la vita venendo esposta: «“Tutte le favole che vi raccontano le monache, fuori di qui non hanno il minimo valore. La Madonna, le Sante, la verginità… Tutte scemenze!”. Scosse la testa. Disse ad Antonia: “Del resto, loro stesse sono le prime a non crederci… Ma si farebbero ammazzare piuttosto di dirvi che, come donne e come esposte, la sola cosa che vi aiuterà ad affrontare il mondo è quell’affare che avete tra le gambe. Lì c’è la Provvidenza, quella vera, l’unica che ci viene in aiuto anche quando il mondo intero ci è contro!» (p. 44). Negli anni a venire, questa Provvidenza a cui Rosalina si richiama non servirà ad Antonia. Il suo affare lo concederà con volontà e il piacere del consenso al camminante, un ragazzo tra lo sciagurato e lo zingaresco con cui avrà i suoi appuntamenti notturni, scambiati fatalmente per convegni di stregoneria, per sabba con il Diavolo.

Ma la femminilità di Antonia viene profanata non tanto dalle maldicenze, dall’accusa di commercio col demonio o da chissà quali altre sciocchezze: è nella cella, in attesa della condanna a morte sul rogo, che si consuma il vero e proprio abominio, che i diavoli si palesano per quello che sono veramente: non improbabili caproni assetati del sangue di neonati, ma uomini in carne e ossa; più precisamente i secondini a cui era stata affidata la custodia della ragazza, i quali, essendo Antonia sola, indifesa e lontana dagli occhi del Tribunale e del processo, possono adesso farne ciò che vogliono.

Dopo una serie di nefandezze certamente assimilabili a qualcosa come il Diavolo, «infine giacquero stremati, in un groviglio di corpi su cui le fiamme delle lanterne, muovendosi nel buio, disegnavano mutevoli contrasti di luci e d’ombre, e Antonia era là in mezzo, come morta; così scomposta, come l’aveva lasciata l’ultimo assalto dei due bruti, con un filo di sangue che scendeva dall’angolo della bocca, dove l’attrezzo di tortura le aveva lacerato la pelle. Allora soltanto i suoi aguzzini le parlarono. Le diceva ansimando: “Credevi di cavartela, eh, puttana… Credevi di andartene così, lasciandoci a becco asciutto dopo averci tenuti in tiro per più di un mese, maledetta! Noi nei nostri stanzini sottotetto a pensare alla tua fica e tu qui al fresco, a spassartela con i Diavoli! Stanotte te la spasserai con noi, parola di Taddeo! Fino all’alba, e oltre…!» (pp. 322-323). Agli aguzzini non ripugna o terrorizza una donna che si era fatta possedere dal demonio, che lanciava anatemi o provocava le morti più atroci, una donna che fosse di per sé diabolica. Si direbbe allora che nell’umano agisce una forza, l’eros, più diabolica di qualunque diavolo possibile. E tuttavia affermando ciò si tradirebbe il senso sia del libro sia dell’umano: diabolica è la sua natura, la sua essenza, e se si esplica con un certo tipo di eros ne è solo una conseguenza.

 

  1. Metafisica e ragione

 

Il romanzo si fa anche difensore di quell’eco di voci ora mute che erano già di Benjamin, i crimini rimasti impuniti nella storia e che la letteratura può mondare con la grazia della parola. È senz’altro la vita di Antonia, ma Vassalli rievoca anche il dolore e le fatiche dei risaroli, dei lavoratori delle risaie, la cui condizione miserevole e tremenda non ha niente di diverso da quella degli schiavi, di ieri e di oggi, colpevoli d’essere nati, almeno per la storiografia che dovrebbe riscattarli, in un angolo cieco dell’Europa: «L’Europa, quando poi ha scritto la sua storia e quella di tutte le altre parti del mondo, ha pianto ipocrite lacrime sui neri che lavoravano nei campi di cotone in America e su ogni genere di schiavi, moderni o antichi: ma non ha speso una parola, una sola!, sui risaroli. Nemmeno la Chiesa, così prodiga, dopo la Riforma di missionari e di Santi che accudivano i lebbrosi in terre lontanissime, curavano gli appestati fino in Cina e cercavano di convertire i giapponesi parlandogli in latino, s’è mai accorta della loro esistenza sulla porta di casa. E sì che non erano mica pochi: erano migliaia, di qua e di là dal Ticino, e morivano in gran numero, ogni anno, senza cure mediche e senza conforti religiosi, al modo delle bestie» (p. 71). La letteratura – anche quella che scava nella storia per fare luce, e quindi comprendere, grazie a quell’invenzione che permette la narrazione di un fatto – è in grado di fare questo, di rendere nuovamente presente una ferita che reclama d’essere richiusa, in un pensiero che ricorda e che ricordando guarisce: una letteratura che s’accorge dell’esistenza di chi vive lontano dalla grancassa del mondo ma che c’è, soffre, respira e desidera. Un’esperienza vitale che nel piccolo laboratorio storico-veritativo della provincia novarese assurge a paradigma per ogni ricerca di giustizia possibile. Non è reportage, non è cronaca, non è per l’appunto storiografia: è semmai una contro-narrazione al male che è il mondo e alla brutalità in cui si esplica la vita, che è il mancato affrancamento dei risaroli, la corruzione della Chiesa, la stupida cecità del popolo in preda a passioni irrazionali e fideistiche, l’innocenza di una ragazza nata come esposta a Dio e trucidata nel nome del Diavolo.

In uno degli attimi più metafisici del libro, una pausa nella narrazione in cui l’autore prende d’autorità la parola per esprimere un giudizio sui fatti raccontati, Vassalli afferma: «È l’odio puro: astratto, disincarnato, disinteressato; quello che muove l’universo, e che sopravvive a tutto. L’amore umano, tanto cantato dai poeti, a confronto dell’odio è quasi un fatto inesistente: un granello d’oro nel grande fiume della vita, una perla nel mare del nulla e niente più» (p. 87). Vassalli ha ragione nel sottolineare l’escalation del male: da un furto di polli si può arrivare, per odio, a uccidere. Citando quasi alla lettera l’Empedocle dell’Amore e dell’Odio, dell’Armonia e della Discordia, l’autore implementa il concetto puro dell’odio all’interno dell’esperienza umana. L’odio, in altre parole il male, muove le faccende umane, è uno dei nomi della distruzione necessaria affinché il divenire sia possibile, affinché il cambiamento possa accadere nell’instancabile dinamica di identità e differenza in cui consiste il cosmo. Ed è uno dei modi in cui anche la storia si muove, si agita, si contorce, finendo anche per mostrarsi in un processo di finti puri che condannano a morte un’innocente per un peccato inventato, tra le fiamme di una festa, il rogo di una strega, di una chimera, del nulla. Il vero volto di Dio.

Dio che è persino contrario alla verità, la quale diviene nient’altro che chimera. La testimonianza oculare di un rispettabile gendarme spagnolo viene persino rigettata dal padre inquisitore, Gregorio Manini da Gozzano. La verità come coincidenza dell’intelletto con la cosa, secondo il celebre principio gnoseologico-epistemologico di Tommaso, viene per l’appunto negata, purché una chimera della ragione, un mostro partorito dal suo sonno, abbia il sopravvento sull’evidenza dei fatti. Non siamo ancora arrivati al 1637, anno fatidico in cui viene pubblicata la Discours de la méthode di Cartesio, in cui i principi di chiarezza e distinzione divengono i cardini della ragione e del razionalismo che contraddistingueranno questo secolo. Siamo nel Seicento ma ancora in una propaggine medioevale, se per Medioevo, anche erroneamente, intendiamo quell’epoca di buio e oscurantismo che nella vicenda di Antonia si sta mostrando esattamente in questi termini. «Purtroppo per Antonia, però, nessun inquisitore del Sant’Uffizio, in nessuna città, avrebbe accettato di considerare come risolutiva, in un processo d’eresia, una verità così volgare e grossolana da coincidere con l’evidenza stessa delle cose; e a Novara meno che altrove. Qui, all’epoca in cui si svolse la storia, il Tribunale per difesa della fede era presieduto da quel Gregorio Manini da Gozzano, teologo, di cui più oltre si parlerà in modo diffuso ma di cui bisogna dire fin d’ora che dubitava sistematicamente, e per principio, di tutto ciò che gli si presentasse con le caratteristiche della chiarezza e dell’evidenza; e che sospettava in ogni cosa troppo semplice un tranello del Diavolo» (p. 226). Paradossalmente, il dubbio, che sarà di Cartesio, è utilizzato in quest’occasione per smentire quei principi da cui secondo il filosofo si sarebbe dovuto procedere per incamminarsi verso una conoscenza certa e inconcussa. E questo a ragione del fatto che nel processo non c’era in realtà nessuna ratio, che il Diavolo era nelle menti degli accusatori, che la chimera era il frutto del peccato intellettuale che albergava al loro interno. Ancora una volta, dunque, frutto del nulla, della superstizione, di una mancata aderenza alla realtà, vista come il risultato di una superfetazione del male, di un crudele pregiudizio scaturito dall’ignoranza.

Le procedure e i metodi di tortura sulle streghe, nella ricostruzione di Vassalli, testimoniano in fondo proprio ciò, che la cecità di fronte all’evidenza da parte di alcuni ecclesiastici, solo apparentemente dotti e integerrimi, era il segno più reale di un metus originario, che come hanno insegnato Freud e la psicanalisi accompagna l’umano da sempre: la paura di sé, della procreazione, del piacere che potrebbe farci attaccare colpevolmente a questo mondo e allontanarci dalla sola via di scampo dal dolore, il nulla, di cui l’ebbrezza, l’eros, il dionisismo in tutte le sue forme, costituiscono la più sferzante delle smentite. «Anche i contorcimenti successivi, della strega appesa al curlo per le braccia, o con le gambe spalancate sul tavolo di tortura, facevano parte di un rituale inconsapevole con cui la Chiesa cattolica (e anche quella protestante, a dire il vero) sfogò per secoli, su quelle sciagurate, la sua angoscia e il suo tormento del sesso; la sua paura della donna in quanto Diavolo e il suo bisogno di Diavolo» (p. 274). Il Diavolo dunque non è, in un improbabile manicheismo metafisico, la controparte del Bene, il principio del negativo; non è a parte mundi. Il Diavolo, facendo ricorso provocatoriamente a una delle formule agostiniane della verità, è in interiore homine, nel cuore dell’uomo, dove ci sono guerra, dolore, crudeltà, spietatezza e, per ultimo, odio. Il Diavolo, come già sostenuto, è nell’umano, nei chierici di ogni ordine e grado, negli aguzzini, nel popolo, che miseramente si accaniscono su un evidentissimo capro espiatorio per non fare i conti con il male che recano in sé.

 

  1. L’odio del mondo

 

Questo è il mondo in cui vivono Antonia, il suo moroso Gasparo il camminante, la famiglia, i risaroli, le esposte compagne di sventura e punite dalla Provvidenza. Un mondo in cui ogni tanto può accadere, se non lo si spera troppo, un barlume di gioia, come i convegni amorosi tra Antonia e Gasparo tutt’altro che diabolici, forse l’unica, vera manifestazione del divino. Sicché questo pensiero di Gasparo assume la massima pregnanza: «Di là dalla collina si vedevano altre colline e altri canneti, a perdita d’occhio, e il ragazzo capì che era rimasto definitivamente solo. Mettersi a piangere non sarebbe servito a niente: bisognava camminare. Il mondo è un gomitolo di strade e seguendole trovi tutto: vita e morte, miseria e felicità, lacrime e consolazione, avventure e amore. Tornò giù in strada; si rimise in cammino» (p. 247).

Un mondo in cui si può confidare ma in fondo segnato in modo inemendabile dall’odio, quella haine con cui si conclude una delle opere di filosofia più profonde del Novecento, l’Étranger di Camus, un odio che si rivolge verso i presunti criminali ma che significa in realtà l’odio che l’umano dovrebbe rivolgere verso se stesso, verso la sua esistenza, poiché l’odio è ciò che la vita merita.

 

Quelle bocche aperte con dentro quei pezzi di carne che si muovevano… Che insensatezza! Che schifo! E quell’esplosione di odio, da parte di individui che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmeno che lei esistesse e ora volevano il suo sangue, le sue viscere, reclamavano d’ammazzarla loro stessi, lì sul momento con le loro mani… C’era forse un senso, una ragione in tutto questo? E se non c’era, perché accadeva? Ecco: pensava: io sto qui, e non so perché sto qui; loro gridano, e non sanno perché gridano. Le sembrava di capire, finalmente!, qualcosa della vita: un’energia insensata, una mostruosa malattia che scuote il mondo e la sostanza stessa di cui sono fatte le cose, come il mal caduco scuoteva il povero Biagio quando lo coglieva per strada. Anche la tanto celebrata intelligenza dell’uomo non era altro che un vedere e non vedere, un raccontarsi vane storie più fragili di un sogno: la giustizia, la legge, Dio, l’Inferno…» (p. 339. Il primo corsivo è mio).

 

L’odio che in modo naturale, potremmo dire, si dirige su Antonia come esempio della vita in generale, la vita che accusa se stessa come febbre della materia, una malattia che solo un calore più forte, quello delle fiamme, potrà forse guarire, almeno per lei, in modo definitivo.

Può allora cominciare la festa dell’odio, una festa fatta di gente qualunque. In un’altra nota di sottile manzonismo, Vassalli afferma: «Non erano gente sanguinaria, né malvagia. Al contrario, erano tutti brava gente: la stessa brava gente laboriosa che nel nostro secolo ventesimo affolla gli stadi, guarda la televisione, va a votare quando ci sono le elezioni, e, se c’è da fare giustizia sommaria di qualcuno, la fa senza bruciarlo, ma la fa; perché quel rito è antico come il mondo e durerà finché ci sarà il mondo. (Finché continueranno ad esserci degli uomini ci saranno i Gesucristi e le Gesucriste, come disse Antonia)» (p. 342). La stessa brava gente dei Promessi sposi, gli stessi bravi ateniesi che hanno condannato Socrate, la stessa brava gente che, nel Ventesimo secolo, affollava le piazze di Roma o Norimberga, inneggiava ai dittatori e mandava a morte milioni di persone per un’insensata follia etnica, esattamente come il Diavolo di Antonia. La chimera allora non soltanto attraversa la storia, lo è. Si tratta allora di percorrerla in modo lucido, consapevole, forti del sapere a cui la letteratura, quando è metafisica e va alle radici delle cose, è in grado di offrire.

[1] S. Vassalli, La chimera (1990), Rizzoli, Milano 2023, p. 12. D’ora in avanti, i numeri di pagina saranno indicati tra parentesi tonde nel testo.

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