Della ricostruzione del senso, ovvero della contingenza nella vita insensata

di Giovanni Altadonna

 

Così come il senso della vita varia, di fatto, per ogni individuo, può verificarsi che, nell’ambito di una stessa esistenza, il senso che ognuno attribuisce alla propria vita muti in risposta a contingenze, eventi, processi cruciali occorsi nella propria esperienza biografica; tali da provocare, se non una conversione da un paradigma bioetico all’altro (ciò comportando un’autentica rivoluzione valoriale), una ricostruzione del senso nell’ambito del medesimo paradigma e quindi un mutamento nella considerazione di ciò che qualifica la vita e la rende degna di essere vissuta. Riflettere su questo aspetto ci consentirà, da un lato, di enfatizzare la potenza della contingenza storica nella vita biografica e, in ultima analisi, nella formazione dell’identità personale (di cui il senso che si attribuisce alla propria vita è parte essenziale); dall’altro, di ribadire lo stretto legame fra senso della vita e paradigma bioetico di riferimento (sacralità e indisponibilità della vita oppure qualità e disponibilità della vita).

 

  1. Stare morti fra i vivi

 

Un esempio di mutamento del senso della vita entro il medesimo paradigma della qualità della vita è quello cui vanno incontro i due amanti della tragica vicenda umana narrata da Gesualdo Bufalino in Diceria dell’untore. Essi, insieme agli altri ospiti del sanatorio della “Rocca”, sito fra Palermo e Monreale, sono malati di tubercolosi. La maggior parte di essi ha contratto il contagio al fronte durante la Seconda guerra mondiale: «cascami della storia, uno sfrido umano. Tutti già soldati, per mestiere o per forza; ora ugualmente colpiti e con pronostico uguale; custoditi, intorno, da un reticolato, noi e nessun altro in Europa, ormai»[1]. Tutti sono consapevoli che la cura nel migliore dei casi potrà solo allungare una vita segnata irrimediabilmente dalla malattia. Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno trascorso è un minuto, un’ora, un giorno strappati alla morte. La loro vita è quella dei sopravvissuti; il loro tempo è quello dell’eterno presente. Dal momento che, come afferma sagacemente Leopardi, «sempre il presente, per fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere»[2], appare chiaro che il senso della vita si costruisce sulla base delle aspettative, dei progetti, delle ambizioni: ciò che, in definitiva, qualifica la vita è la proiezione nel futuro della felicità. Di conseguenza, spiega il narratore, «chi incappava nella topica di discorrere del nostro futuro come se fossimo vivi» non poteva che suscitare «derisione»[3].

Ne consegue che chi vive in un eterno presente, come chi sperimenta l’esperienza della malattia incurabile, vede preclusa la possibilità stessa di attribuire un qualsivoglia senso alla propria vita: una vita che non ha gusto (perché è segnata dal dolore), che non ha significato (perché la malattia impedisce ogni progettualità), che non ha direzione (perché la certezza della prossima fine inibisce la costruzione del fine). L’unico palliativo all’insopportabile aridità del tempo circolare del malato consiste nella rammemorazione del passato; ossia nella presentificazione del vissuto: ovvero, in quel presente del passato di cui parlava Agostino[4] o di quel processo di rimemorazione (e risemantizzazione) delle ritenzioni spiegato da Husserl[5]:

 

Dagli attimi che dissotterro – quanti ne ho vissuti apposta per potermeli ricordare! – non so cavare pensieri, io non ho una testa forte, e il pensiero o mi spaventa o mi stanca. Ma bagliori, invece… bagliori di luce e ombra, e quell’odore di accaduto, rimasto nascosto con milioni d’altri per anni e anni in un castone invisibile, quassopra, dietro la fronte… Sento a volte che basterebbe un niente, un filo di forza in più e sforzerei il muro, otterrei, io che il Non Essere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere…[6]

 

Perduta dunque ogni ragionevole speranza circa la conservazione a breve termine della vita biologica (con tutto quello che ciò comporta in termini di smarrimento di gusto, significato e direzione dell’esistenza), i malati sperimentano perciò un vuoto di senso della vita biografica tale da percepirsi quali “stranieri morali” rispetto alla collettività dei “sani”: «Com’è difficile stare morti fra i vivi: un astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da grande»[7].

Lo straniamento rispetto alla condizione dei “sani” comporta la percezione di una distanza rispetto alla morale condivisa dalla comunità, riconsiderata alla luce della vanità della vita umana in quanto tale, sulla quale il punto di vista del malato, del “diverso”, è punto d’osservazione privilegiato. Accade pertanto che il narratore, discutendo con un altro ospite del sanatorio, Sebastiano, cerchi di consolarlo circa la sua condizione di verginità[8] additando la vanità del sesso, riflettendo infine sulla vanità stessa del loro interloquire sul senso della vita all’ombra della morte:

 

“Ho detto un bacio” riprese, alterandosi, “solo per bluff e millanteria. A dirti proprio come stanno le cose, sono vergine.”

“Per quello che hai perso” tentai di consolarlo, impulsivamente, e intanto mi sorpresi a pensare se quella confessione che a lui, c’era da giurarci, sembrava tragica, non lo fosse poi veramente; e se dolesse di più, dovendo morire, la punta di nostalgia, in me, dei pochi goduti piaceri, oppure la pena sua di averli solo sognati. Sicché, quando aggiunse, combattuto fra imbarazzo e insolenza: “Intendiamoci, non voglio che tu mi sia amico; se ti parlo, non è per sentirti parlare, ma per impedirtelo”, non gli risposi, come avrei voluto, che aveva fin troppo aspettato ad avere pietà di sé, ma tacqui e mi turbai, pensando attraverso quali svolgimenti di degradazione ci trovassimo lì nella luce noi due, così giovani, ad esser divenuti spettatori di inetti di noi stessi, senza aver la forza di opporre all’altro che bende di vanità all’aggressione dell’idea della fine. E me ne venne, verso entrambi, una sorta di rabbiosa tenerezza, come un cociore che mi saliva dal fondo della gola ed era, incomprensibilmente, simile a una felicità.[9]

 

L’empatia verso la propria condizione di “stranieri morali”[10] non erode la distanza rispetto alla comunità dei “sani”, la quale è anzi acuita dalla condizione dell’intellettuale: «Ma io avevo più letto libri che vissuto giorni, nel mio così fuggitivo, così inefficace passaggio lungo le strade degli uomini»[11]. L’analogia malato/filosofo risiede nell’attenzione alla morte, o meglio alla vita come preparazione alla morte, che accomuna le due figure: come per i filosofi, anche per i malati della Rocca «la morte è […] assai meno paurosa che per chiunque altro degli uomini»[12]. Entrambi gli archetipi appaiono pertanto sideralmente e scandalosamente distanti dal comune sentire, il quale si fonda sull’illusoria certezza che la permanenza, la stabilità, l’equilibrio e la perfezione costituiscano la norma del reale; laddove questi rappresentano, invece, stati eccezionali, piuttosto che ordinari, in una realtà che è segnata dall’im-permanenza, dalla precarietà, dallo squilibrio e dall’imperfezione: ovvero, dal disordine entropico.

Assumere su di sé la gravosa consapevolezza della finitudine, ossia, in termini heideggeriani, il precorrimento della morte come possibilità dell’esserci, è il vero marchio della vita autentica[13]. Non però, si badi, della vita sensata, giacché l’essere-per-la-morte ci istruisce circa la condizione ontologica dell’umano, non già sulla condizione morale dell’individuo alla ricerca del senso. La quale, qualora approdasse all’equivalenza fra la fine (vita biologica) e il fine (vita biografica) dell’esistenza, produrrebbe non un senso bensì un non-senso della vita. La tragicità della malattia risiede appunto nella coincidenza de facto di questi due momenti, data dalla inanità della persecuzione di un fine di fronte all’incalzante approssimazione della fine.

 

  1. Amore e malattia

 

Poiché il senso della vita in definitiva consiste «nello spendersi per qualcosa di più grande di noi»[14], la metamorfosi della vita insensata in vita sensata può verificarsi in seguito al verificarsi di un’eventualità tale da rendere la vita (la vita di quello stesso individuo che disperava di poter trovarvi un senso) non già sopportabile, ma financo piacevole e felice. In Diceria dell’untore, tale evento coincide con l’incontro fra il protagonista (la voce narrante, possibile alter ego dello stesso Bufalino) e Marta, donna misteriosa e affascinante, malata terminale di tubercolosi e perciò nuova ospite della Rocca. Esso innesca una ricostruzione del senso della vita, un fenomeno per cui «rifassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo»[15]. Tale rivoluzione esistenziale muove dall’insensatezza di una vita il cui unico scopo è la posposizione, di giorno in giorno, di una morte imminente, ad una vita nuova, resa sensata dalla coltivazione di un amore breve ma intensissimo. Ciò è particolarmente vero per il protagonista, che ha perfettamente chiara la precarietà della loro relazione, appesa al filo di un’infezione polmonare irreversibile, ma che proprio per questo manifesta il desiderio di vivere l’amore per Marta con un’intensità inversamente proporzionale al breve tempo concesso loro dal decorso della malattia.

 

L’interruppi: “Sai come si dice, nel mio dialetto, dare il contagio? Ammiscari, si dice. Cioè mescolare, mescolarsi con uno. Significa ch’è un travaso di sé nell’altro, altrettanto mistico, forse, di quello di due altre assai diverse solennità: voglio dire la comunione col sacro nell’ostia; e la confusione, su un letto, di due corpi amici.”[16]

 

Restare arroccati nel sublime della malattia, condizione vissuta dai personaggi come irrimediabilmente “altra” rispetto al mondo dei sani, precludendo così ogni eventuale Kehre esistenziale, equivale a voltare le spalle alla verità dell’evento (amoroso). Il quale è, da un lato, una contingenza che irrompe, imprevista e imprevedibile, nella storicità della vita; e, dall’altro, un’occasione di mutamento, che spetta all’individuo accogliere o ignorare nel nome di un presunto “destino già segnato”. Affinché il mutamento di senso si verifichi, dunque, è necessario che la casualità dell’evento (l’incontro) venga volontariamente accolta (con la relazione), e non cancellata dalla “gomma da quattro soldi” del fatalismo. Questo è ciò che il protagonista rimprovera a Marta, che inizialmente sembra comportarsi come se nulla fosse accaduto:

 

“Anche tu, anche tu, con la tua sciarpa da Isidora Duncan e gli appiccicosi sciroppi nella borsetta. Mentre loro sono veri, sudano storia, puzzano di storia. La stessa storia che senza tregua noi due ci affanniamo a cancellare con una gomma da quattro soldi…”[17]

 

Nella vicenda di Diceria dell’untore, l’evento che provoca il mutamento di senso ha conseguenze di lunga gittata: non solo il protagonista individua il senso della propria vita nell’amore per Marta, ma questo sentimento che dà gusto, significato e direzione alla vita continua a qualificare l’esistenza anche dopo la morte della donna amata. Il protagonista, inaspettatamente guarito dalla malattia, vive questo amore/senso non più tramite la passione erotica, ma tramite la testimonianza del legame confuso e inestricabile che lega dolore e morte, amore e malattia:

 

Anche se non potevo esimermi dal titubare di fronte all’impegno nuovo che mi attendeva e m’imponeva di recidere il mio comodo cordone ombelicale col sublime: non sarebbe stato facile, d’ora innanzi, trasgredire i precetti di questo recente apprendistato di morte e al posto di una parte di prim’attore, già scritta, improvvisare le battute di una comparsa. […] Così sulle soglie dell’improrogabile epilogo, il mio spirito dubitava, in altalena fra delusione e speranza, senza che mai cessasse di considerare, nel medesimo tempo, la guarigione una caduta e la morte uno scandalo.[18]

 

  1. Conclusioni

 

Credo che dall’analisi di cui sopra risulti confermato il legame, altrove avanzato[19], fra senso della vita e paradigma bioetico di riferimento (in questo caso, etica della qualità e disponibilità della vita). La figura idealtipica del “malato”[20] vive una vita insensata, di inerzia, e non rinuncia alla vita solo perché si nutre dei ricordi di un passato meno infelice, che gli rende l’apatico, eterno presente meno insopportabile. Tuttavia, il verificarsi di un evento inatteso innesca una ricostruzione del senso, per cui quella stessa vita prima insensata di colpo diventa degna di essere vissuta in quanto qualificata da un’esperienza (psicologica, fisica ed emotiva) gratificante qual è una intensa, ancorché breve, relazione amorosa. Resta un nodo problematico da considerare: essendo il senso della vita parte integrante dell’identità personale, al mutamento di senso non si accompagna perciò un mutamento dell’identità personale? La risposta non può che divergere nel caso in cui si assuma una posizione metafisica essenzialista o nominalista. Se si assume l’Io come un’essenza, fissa e immutabile, la questione appare insolubile, a meno che non venga postulata una pluralità di identità successive, ognuna subentrante nei momenti di svolta esistenziale (come la ricostruzione del senso o la conversione religiosa). Se invece si assume l’identità personale come una costruzione individuale, frutto dell’ambiente e della storia, del caso e delle scelte individuali o altrui, della volontà e delle congiunture, allora sarà più facile capire la possibilità di attribuire, a quel divenire metamorfico che chiamiamo “vita”, un senso anche laddove un senso prima non c’era, e trovare una nuova identità anche laddove prima non vi era una persona, ma un fantasma.

 

[Foto di Giovanni Altadonna: Tramonto a Villa Bellini]

[1] G. Bufalino, Diceria dell’untore, a cura di F. Caputo, con un’intervista di L. Sciascia, Bompiani, Milano 2008, p. 21.

[2] G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, in Id., Operette morali, a cura di L. Melosi, BUR, Milano 2017, pp. 564-565.

[3] G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 72.

[4] Cfr. Agostino d’Ippona, Le Confessioni (Confessiones, 398), XI, 20, trad. di A. Landi, Edizioni Paoline, Milano 2014, p. 265.

[5] Cfr. E. Husserl, Esperienza e giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica redatte e edite da Ludwig Langrebe (Erfahrung und Urteil, 1939), § 38, trad. di F. Costa e L. Samonà, Bompiani, Milano 2007, pp. 387-399.

[6] G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 75.

[7] Ivi, p. 54.

[8] L’attrito fra la condizione di verginità dell’individuo maschile e la morale condivisa di una ostentata sessualità quale cifra distintiva di un vero uomo è, peraltro, un topos ricorrente nella letteratura siciliana del Novecento: si pensi ai romanzi di Vitaliano Brancati (Il bell’Antonio, Don Giovanni in Sicilia).

[9] Ivi, p. 71.

[10] «Una setta di sbandati eravamo, e incapaci di amarci fra noi, o così ci pareva, benché chi si è salvato abbia capito anni dopo ch’era vero il contrario, e che era già amore la passione con cui s’imparava la morte egli altri come se fosse la propria» (ivi, p. 18).

[11] Ivi, p. 64.

[12] Platone, Fedone (Φαίδων), 67e, trad. di M. Valgimigli, in Platone, Fedone – Simposio – Fedro – La Repubblica, RBA, Milano 2017, p. 14.

[13] M. Heidegger, Essere e tempo (Sein un Zeit, 1927), § 53, trad. di A. Marini, Mondadori, Milano 2017, pp. 367-376.

[14] V. Mancuso, A proposito del senso della vita, Garzanti, Milano 2021, p. 68.

[15] G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, in Id., Operette morali, cit., p. 567.

[16] G. Bufalino, Diceria dell’untore, cit., p. 81.

[17] Ivi, p. 107.

[18] Ivi, p. 131.

[19] Cfr. G. Altadonna, Sacralità, qualità e senso della vita, in «Il Pequod», IV, 8, 2023, pp. 16-23.

[20] Termine assunto, in questo contesto, in senso massimamente generale, con esso intendendo non solo i malati fisici, ma anche tutti coloro i quali vivono una vita di sofferenze non degna di essere vissuta.

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