Matrimonio, bigamia e sodomia nella società coloniale spagnola tra XVI e XVII secolo

 

di Roberto Spanò

 

  1. Introduzione

 

La nascita del “genere” come categoria storica ha fatto sì che la storia delle donne divenisse la storia della costruzione del campo sociale del maschile e del femminile intesi come terreni di conflitto, dove le identità personali si definiscono e assumono valore, sul piano individuale e collettivo.[1] Nel 1995 in Masculinities la sociologa australiana Reawyn W. Connell fece notare come l’identità di genere e le esperienze maschili siano variegate: il termine mascolinità è qui inteso nella pluralità delle forme che può assumere in disparati contesti geografici, economici, sociali, dal momento che nella storia si susseguono, e coesistono, mascolinità diverse, talvolta in contraddizione. Ma la mascolinità ha anche una dimensione soggettiva, dal momento che i comportamenti e i modelli maschili non dipendono così tanto da specificità biologiche (e da caratteri innati del genere) ma da come queste vengono percepite, concepite, plasmate e accettate.[2]

Il rapporto dell’impero incaico con la sodomia appare ambiguo e contraddittorio.

Da un lato, erano previste pene molto dure contro questi comportamenti, inducendo gli individui a tenere tutto ciò ben lontano da occhi indiscreti; dall’altro, alcune società precolombiane, che popolavano questo vastissimo territorio, sembrano aver dimostrato una certa tolleranza verso gli atti di sodomia. Nel Royal Commentaries of the Incas and General History of Perú Garcilaso de la Vega riferisce che, quando gli Inca conquistarono le regioni di Mochica e Chimú venne ordinato di identificare tutti i sodomiti, per poi condurli in pubblica piazza e bruciarli vivi, indipendentemente dal fatto che fossero realmente colpevoli o semplici sospettati.[3]

Nei casi in cui gli atti di sodomia venivano tollerati, ciò avveniva solo in virtù del ruolo che ricoprivano in alcuni specifici riti religiosi: non si trattava dunque di libertà dei costumi sessuali, ma di pratiche inscritte in un complesso sistema rituale, lontano e quasi sfuggente ai nostri occhi. Cieza de Leon riporta che nei templi e nei santuari vi erano giovani ragazzi, detti mozos, che venivano isolati fin dall’infanzia per essere, in futuro, sottomessi sessualmente dai capi tribù e da altri uomini di alto lignaggio, durante alcune importanti ricorrenze.[4] Con l’arrivo del Sant’Uffizio, stabilitosi definitivamente in Perù nel 1570, la persecuzione di tali pratiche si intensificò e gli atti di sodomia non furono più giurisdizione dei semplici vescovi. Ma nel 1575 il Re spagnolo fece un passo indietro, emanando un editto che dispensava i nativi dai rigorosi esami dell’Inquisizione, considerandoli «nuovi alla fede» e di «poca sostanza», riaffidando la giurisdizione su di loro ai vescovi.

La Chiesa cattolica perseguiva l’obiettivo di sradicare ogni traccia di credenze e comportamenti tradizionali di quei popoli, attraverso l’istruzione e l’insegnamento del catechismo.[5] Un esempio significativo è il Catechismo di Lima pubblicato nel 1583 in spagnolo, quecha e aymara: questo testo, non solo esplicitava il richiamo al sesto comandamento, ma minacciava la dannazione eterna, tra le fiamme dell’inferno, per chi si fosse macchiato del peccato di sodomia.[6] Col passare del tempo, nella società coloniale peruviana la sodomia venne percepita come la trasgressione più infamante, in quanto considerata sia peccato che delitto: era un’offesa contro l’ordine naturale voluto da Dio e contro un ordine sociale che sempre più doveva conformarsi a quello divino. Le pene stabilite dall’autorità cattolica non prevedevano solo il fuoco purificatore, ma anche confisca dei beni e tortura. Dall’azione dei magistrati dell’epoca emergono chiaramente i forti pregiudizi sociali ed etnici che influenzavano profondamente la pratica giuridica.[7] Bisogna tenere a mente che la società del vicereame ricorreva a concetti come il «sangue» per inscrivere le differenze tra i gruppi sociali – bianchi, neri, indios e “meticci” – in un quadro rigidamente gerarchico. Tali categorizzazioni, che trovavano origine negli strati privilegiati della società castigliana e in particolare nella nobiltà, anticipavano, di fatto, le future distinzioni basate sulle nozioni di «razza» e «classe». I conquistatori, i missionari e chiunque provenisse dall’Europa portava con se l’intero bagaglio culturale dell’epoca, con le sue rigide strutture gerarchiche e i suoi pregiudizi radicati. Il consolidamento del nuovo ordine sociale coloniale si accompagnò a una crescente rigidità delle strutture sociali; la mobilità verticale diminuì drasticamente, e molti coloni di origine europea finirono per trovarsi tra i ranghi dei subalterni lavorando come commercianti, piccoli proprietari terrieri, carpentieri o scribi. Per questi uomini, l’unica possibilità di migliorare la propria condizione era sperare nello scoppio di una guerra, occasione che avrebbe potuto consentire loro di accumulare nuove ricchezze in caso di vittoria.[8]

Tornando ai processi per sodomia, le fonti coloniali rivelano un’applicazione delle leggi fortemente influenzata dalla classe sociale degli imputati. Nel 1578 il dottor Barros de San Millán, membro dell’assemblea pubblica di La Plata, fu accusato di sodomia da un suo rivale, Juan de Matienzo, in un contesto di accuse che comprendevano anche errori professionali segnalati dal sindaco di Potosí, Juan de Bengoechea. L’accusa di sodomia sembrava strumentale e parte di una più ampia disputa politica, poiché Barros era considerato nemico e oppositore del viceré Toledo. Il viceré, al contrario, non solo rigettò l’accusa, ma nel 1585 promosse Barros a presidente dell’assemblea di Quino.[9] Diverso fu invece il caso del processo del 1620 contro Cristóbal Zamorano, accusato di sodomia. Durante il procedimento, emersero tutti gli stereotipi e pregiudizi etnici dell’epoca. Grazie alle testimonianze, i giudici appurarono l’esistenza di atti di sodomia, condannando il suo compagno, Juan Moreno, a 200 frustate pubbliche e quattro anni di carcere. Zamorano, invece, ricevette una multa di 4.000 ducati e sei anni di prigione, evidenziando la disparità di trattamento. Juan Moreno, essendo nero, subì ripetute torture, in linea con il pregiudizio che tali metodi fossero necessari per ottenere confessioni da neri, mulatti e indios, a testimonianza di come la giustizia coloniale fosse permeata da profonde disuguaglianze sociali ed etniche. Sebbene gli spagnoli accusati di sodomia fossero numericamente superiori rispetto agli indios, le pene inflitte ai membri delle classi inferiori risultavano significativamente più severe. Dei 54 spagnoli condotti in tribunale, solo 6 furono condannati alla pena capitale, mentre 3 vennero destinati al servizio sulle galere e la maggioranza ricevette esclusivamente sanzioni pecuniarie. In contrasto, su 10 indios accusati, ben 5 subirono la condanna al rogo, 2 furono incarcerati e soltanto 3 ottennero pene più lievi.

Questi dati mettono in luce l’iniquità del sistema giudiziario coloniale, dove il peso della legge non era uguale per tutti, ma variava drasticamente in funzione dello status sociale ed etnico degli imputati.[10] La possibilità di avvalersi di privilegi specifici consentiva ad alcuni individui di sottrarsi ai processi o di evitare le pene più severe. Gli ecclesiastici, in particolare, riuscivano spesso – se non quasi sempre – a sfuggire al braccio secolare della giustizia, sfruttando a proprio favore la competenza giurisdizionale e le rivalità tra il potere civile e quello ecclesiastico. A differenza della società contemporanea, in cui le disuguaglianze reali si scontrano con il principio formale di «uguaglianza» davanti alla legge, nella società coloniale peruviana la disuguaglianza non era solo accettata, ma apertamente associata ai privilegi delle classi nobili, sia spagnole che indigene. Questo sistema gerarchico era visto come naturale e intoccabile, e nessuno era disposto a rinunciare ai vantaggi che esso garantiva.[11]

 

  1. Il matrimonio

 

Per i primi secoli di vita del cristianesimo la vita matrimoniale non fu oggetto di particolare attenzione o elaborazione teologica; fu solo verso la fine del IV secolo che iniziarono a emergere riflessioni mirate a orientare la condotta dei cristiani sposati. Ma perché proprio nel IV secolo? Storici e storiche hanno offerto diverse interpretazioni. Una delle spiegazioni più accreditate è che il IV secolo coincise con l’ascesa di forme di ascetismo particolarmente rigorose, che rischiavano di spostare il fulcro del cristianesimo al di fuori delle comunità urbane e della vita quotidiana. In questo contesto, la riflessione sul matrimonio si inseriva come un tentativo di riaffermare la centralità del cristianesimo nella vita ordinaria. Un esempio significativo è rappresentato da San Giovanni Crisostomo, vescovo e teologo greco (344/355-407 d.C.), il quale sosteneva che non vi fosse alcuna differenza essenziale tra la vita ascetica e quella coniugale. L’unico privilegio concesso a chi vive nel mondo, rispetto all’asceta, era la coabitazione con la moglie. Per il resto, tutti i cristiani erano chiamati a rispettare gli stessi doveri morali e spirituali.[12]

Ci troviamo in un’epoca in cui la Chiesa si stava trasformando in un’istituzione sempre più orientata al controllo e alla gestione della società, un’evoluzione che portò a una crescente attenzione verso la regolamentazione della vita dei singoli individui, segnando un netto distacco sia dal modello di potere esercitato dalle città ellenistiche sia dalla struttura interna delle prime comunità cristiane. La Chiesa iniziava a delineare un’autorità che mirava progressivamente a influenzare ogni aspetto della vita quotidiana e sociale. Questo processo segnò l’avvio di una forma di potere unica, che avrebbe avuto un impatto duraturo nella storia delle società occidentali.[13] Secondo Crisostomo, Dio ha diviso i compiti tra uomo e donna, affidando al primo il governo dello Stato e alla seconda quello della casa, evitando di attribuire le medesime attitudini a entrambi, così che uno non potesse mai eclissare l’altro. Il rischio era che le donne potessero elevare le loro pretese fino a contendere agli uomini il loro primato.[14] Il principio fondamentale del matrimonio è l’indissolubilità, si può venir meno a questo solo in caso di adulterio. All’uomo cristiano si chiede di scegliere con molta cura la donna da sposare, per poterla amare come primo e unico padrone.[15]

Questi temi, tuttavia, stuzzicavano l’interesse dei pensatori già molto tempo prima del cristianesimo: adesso il tutto viene rielaborato e inserito in una cornice che collega la gerarchia “naturale”, tra uomo e donna, alla creazione divina e alla promessa di ricompense future.[16] Questo modello di matrimonio venne esportato nelle colonie e molteplici furono le sfide che dovettero affrontare gli europei per “disciplinare” le popolazioni locali. L’azione degli europei portò a uno stravolgimento radicale delle società native dell’America Latina, i loro sforzi si concentrarono non solo sull’imposizione di un nuovo ordine politico ed economico, ma anche sul controllo e sulla disciplina della sessualità. Cercarono di imporre i comportamenti sessuali “appropriati” alla riproduzione della specie, dove il matrimonio e la procreazione dovevano seguire modelli ben definiti. Questo intervento non si limitava alla semplice regolamentazione delle relazioni sessuali, ma intendeva stabilire una chiara distinzione e legittimazione della discendenza, nonché dei gradi di parentela, in un sistema che avrebbe facilitato il controllo sociale e l’“integrazione” delle popolazioni indigene. Il matrimonio, la procreazione e la definizione della parentela divennero strumenti cruciali per affermare il dominio coloniale, mentre le strutture sociali preesistenti, che talvolta prevedevano forme di convivenza e organizzazione familiare differenti, vennero marginalizzate o distrutte[17].

Nel 1516, il cardinale Francisco Jiménez de Cisneros introdusse una misura che offriva vantaggi agli spagnoli che avessero sposato le figlie dei caciques privi di discendenti maschi, con l’intento di far diventare spagnola la discendenza dei capi tribù. Questo intervento dimostra chiaramente che la società sulla quale gli spagnoli esercitavano il controllo era profondamente stratificata e che l’istituto del matrimonio rivestiva un’importanza fondamentale; non si trattava semplicemente di un contratto tra individui, ma di uno strumento di consolidamento e ampliamento del potere coloniale. Gli uomini nativi tendevano a sposare donne vergini della stessa classe sociale, mentre i rapporti extraconiugali erano ammessi solo con donne di classe inferiore; la poligamia era un privilegio esclusivo delle classi nobili, in quanto rappresentava uno strumento potentissimo per costruire e mantenere alleanze sociali tra diversi gruppi. Con l’arrivo degli spagnoli, queste dinamiche vennero riadattate e reinterpretate per adattarsi agli obiettivi imperiali, alterando irreversibilmente le strutture matrimoniali e familiari locali.[18] I Monumenta Mexicana ci offrono una dettagliata descrizione del rito matrimoniale presso i Tarascos di Michoacán, una delle popolazioni native del Messico, prima dell’arrivo degli spagnoli. Il rito veniva interamente organizzato dai genitori senza alcun coinvolgimento diretto dei figli; la cerimonia si svolgeva alla presenza di un sacerdote, che era accompagnato da un gruppo di vedove. Durante la cerimonia, la sposa veniva condotta presso la casa del padre dello sposo, dove avveniva il primo atto significativo del matrimonio. Allo sposo venivano consegnati un mantello, un’ascia, uno zaino e una corda: strumenti che rappresentavano i suoi doveri principali, il più importante dei quali era tagliare la legna da portare al tempio, per accendere un fuoco in onore del dio Curicaueri. I novelli sposi dovevano osservare un periodo di astinenza, che poteva durare dai due ai quattro giorni; durante questo lasso di tempo, lo sposo aveva il compito di portare la legna al tempio, mentre la sposa si dedicava a spazzare l’ingresso e il sentiero che conduceva alla loro nuova casa.[19] Secondo un documento della Corona del 16 aprile 1585, i capi tribù di Tlaxcala riferirono che molti spagnoli avevano sposato le vedove dei caciques, lasciando la casa, la proprietà e altri beni ai figli dei primi mariti, creando confusione. I caciques chiesero che, quando le vedove si risposassero con uno spagnolo o con altri uomini, i diritti dei loro orfani fossero ripristinati, altrimenti sarebbero stati espropriati a causa di questi matrimoni.[20] Ci furono matrimoni tra uomini indios e donne spagnole, ma furono rari; le ragioni principali includevano la subordinazione degli indios, la riluttanza delle famiglie spagnole a dare in matrimonio le loro figlie a uomini di classe inferiore e la scarsità di donne spagnole, soprattutto nei primi anni di colonizzazione. Nei pochi casi in cui un indio sposava una donna spagnola, si trattava generalmente di un indio appartenente a una classe sociale elevata, come membri della nobiltà Tenochca o della linea di sangue reale di Michoacán.[21]

Adulterio, poligamia e violenze domestiche erano molto frequenti nelle società andine e i caciques, pur di non perdere i propri privilegi, decisero di risolvere il problema della poligamia riconoscendo a una donna lo status di moglie legittima, pur mantenendo relazioni con donne nello status di amanti e concubine.[22] L’attenzione dell’autorità religiosa coloniale fu rivolta, in particolare, a tutti quegli elementi che rappresentavano un impedimento al matrimonio. In un rapporto redatto a Cuzco il 12 dicembre 1576 dal padre gesuita Juan de la Plaza, si dice che presso quei popoli erano molto diffuse le unioni tra affini di primo e secondo grado, e spesso ciò avveniva tra nativi anche dopo la conversione al cristianesimo. Per i missionari la popolazione locale era poco diligente nel porre rimedio ai vari impedimenti e anzi, iniziavano la vita di coppia nonostante gli venisse detto che l’affinità fosse un grave errore.[23] In un rapporto del 16 ottobre 1585, dello stesso autore, sono menzionate le facoltà dei confessori di rendere validi i matrimoni che i nativi avevano contratto con impedimenti, anche se nelle note redatte sullo stesso documento gli autori specificano che era consentito contrarre matrimonio nel terzo grado di affinità e ulteriori, ma non nel secondo, in base a quanto era stabilito dalla Seconda Costituzione del secondo Concilio di Lima (marzo 1567-gennaio 1568).[24] Le unioni tra uomini spagnoli e donne native portarono alla nascita della prima generazione di “meticci”, che furono assimilati alla linea paterna e godettero degli stessi privilegi. Tuttavia, l’aumento della popolazione meticcia suscitò preoccupazioni tra le autorità coloniali, tanto che i meticci divennero una categoria giuridica, etnica e culturale. La loro condizione rimase segnata dalla visione negativa della società, al punto che, in seguito, fu loro vietato portare armi e partecipare agli ordini religiosi.[25]

 

  1. Bigamia e sodomia femminile

 

Nel vicereame si prestò particolare attenzione al crimine di bigamia femminile, che violava i principi di monogamia e indissolubilità del matrimonio. Le autorità introdussero misure severissime per punire tale comportamento, spesso con pene che riflettevano il forte controllo sulla vita sessuale e familiare delle donne, in linea con le leggi cristiane e le norme sociali imposte dalla colonia[26]. Il delitto/peccato di bigamia rientrava nei crimina mixti fori e alcuni giuristi, come Gonzalo de Valladiego, affermarono che «“para definir la jurisdicción de una u otra istancia de administración de justicia debía observarse si el matrimonio posterior se había celebrado oculta o públicamente”». Nel primo caso la bigamia rientrava nella giustizia ordinaria e l’occultamento della doppia unione era indizio del fatto che il bigamo sapesse effettivamente cosa stesse facendo; dall’altra parte, se il bigamo non avesse cercato di occultare il suo crimine ciò sarebbe stata una prova della sua conoscenza errata della dottrina del matrimonio, la sua azione sarebbe stata materia del tribunale dell’Inquisizione.

Le istruzioni per gli inquisitori del 1514 avevano stabilito che i magistrati del Sant’Uffizio dovessero agire per delitto di doppio matrimonio solo nel caso in cui «“los bígamos sentieran mal del sacramento”»: si tracciava così il confine tra una bigamia “mondana”, causata da una errata conoscenza del sacramento, e un’altra legata a motivi di “naturalezza spirituale”, motivata comunque da “credenze erronee”.[27] Le relazioni annuali del Consejo de la Suprema y general Inquisícion sono una fonte essenziale per la ricostruzione di questa storia. I magistrati erano ossessionarti dal voler scoprire quali motivazioni avessero condotto l’imputata a compiere il delitto; durante gli interrogatori si cercava di capire se ciò fosse stato causato dalla credenza erronea del sacramento o meno. Nelle istruzioni per gli inquisitori, riviste da Alonso Manrique (cardinale e arcivescovo) nel 1537, si esplicita che anche quando i magistrati agivano contro i bigami, con sospetto di eresia, non bisognava giudicare in base allo status sociale dell’eretico; ciò potrebbe essere una prova del fatto che il delitto di bigamia non costituisse un’eresia formale.

Nel 1671 Doña Luisa de Castillo y Lizárraga venne denunciata da un commissario imperiale a Potosì per essersi sposata prima con Martín Marquez de la Rocha a Lima nel 1602, poi si era risposata con Hernando Eugenio a Villa Imperiale nel 1616. Il 6 maggio 1619 la donna testimoniò davanti agli inquisitori di Lima e si difese affermando di aver creduto che il marito fosse morto. I testimoni la accusarono di eresia, pratiche divinatorie e magie d’amore, ma il processo continuò con l’attenzione focalizzata sull’accusa di bigamia e solo dopo venne aperto un secondo processo per eresia.[28]

Nei casi di bigamia femminile, si riteneva che le donne avessero meno malizia degli uomini nel commettere il crimine e spesso, le imputate si difendevano invocando la loro ignoranza, fragilità e incapacità, riuscendo a volte a ottenere l’assoluzione. In altri casi, la loro difesa non riusciva a fermare l’azione degli inquisitori, che spesso proseguivano con maggiore determinazione.[29] La maggior parte dei casi di bigamia veniva comunque imputata agli uomini, e il crimine crebbe con l’aumento delle migrazioni transoceaniche dall’Europa, poiché i protagonisti erano per lo più uomini. In questo contesto la bigamia maschile divenne ancora più legata al concetto di virilità e forza.

Per quanto riguarda le donne, per commettere il crimine spesso viaggiavano spostandosi in una giurisdizione diversa, in alcuni rari casi cambiando identità; a differenza della bigamia maschile, che aveva un carattere “transatlantico”, quella femminile dunque, rimaneva confinata nelle colonie delle Indie.[30] La sodomia femminile era ritenuta quasi impossibile da teologi e medici dell’epoca, solo l’uomo veniva visto come il protagonista attivo nella riproduzione. Le donne venivano considerate prive di capacità generativa e venivano descritte dai dotti come oggetto di «deleitaciones venéreas, molicies o tocamientos impúdicos». La sodomia femminile non veniva mai veramente presa in considerazione come crimine, essendo per lo più derubricata come un atto di semplice licenziosità o perversione sessuale. Secondo il giurista Gregorio López, dal momento che la donna non collaborava direttamente con Dio all’opera di creazione, quando compiva un atto di sodomia doveva essere punita con pene arbitrarie, ma mai con la morte. Nella Suma de casos de conciencia del 1596 il teologo Manuel Rodríguez considerava sodomia anche un atto compiuto tramite un fallo di vetro o legno. In questa maniera, la sodomia femminile venne ridotta a semplice atto di onanismo.[31]

In questo contesto la crescita dei gesuiti in Perù fu impressionante: da 284 nel 1600 a 301 nel 1604. Il Collegio di Cuzco divenne il fulcro dell’apostolato indigeno, dove i gesuiti si dedicavano alla predicazione e alle confessioni, cercando anche di mediare e garantire la pace tra spagnoli e indios. Questo impegno rifletteva il loro ruolo centrale nell’assimilazione culturale e religiosa delle popolazioni locali, pur mantenendo un delicato equilibrio tra le diverse comunità sotto il dominio coloniale.[32] La Compagnia di Gesù dovette allinearsi strettamente al disegno politico-religioso della Corona, interagendo e contrattando continuamente con le autorità reali per portare avanti la sua missione. Questo sistema di patronato permetteva alla Corona di esercitare un controllo diretto sulle questioni religiose, legando indissolubilmente l’azione missionaria e l’espansione coloniale, in un processo che vedeva la religione come strumento di consolidamento del potere e della giurisdizione spagnola nel Nuovo Mondo.[33]

[1] Cfr. Marry E. Weisner-Hanks, Le donne nell’Europa Moderna, Einaudi, Torino, 2017, pp. 6-7.

[2] Cfr. Denise Bezzina, Michaël Gasperoni, Mascolinità mediterranee a confronto, in «Genesis», n. 20/1, 2021, pp. 5-6.

[3] Cfr. Ward Staving, Political “Abomination” and Private Reservation: The Nefarious Sin, Homosexuality, and Cultural Values in Colonial Peru, in Infamous Desire, Male Homosexuality in Colonial Latin America, a cura di Pete Segal, The University of Chicago Press, Chicago, 2018, p. 139.

[4] Ivi, p. 140.

[5] Ivi, p. 143.

[6] Ivi, p. 144.

[7] Cfr. Fernanda Molina, Entre la doble vara y el privilegio. La administracíon de la justizia frente el fenómeno de la sodomia masculina en el Virreinato del Perù, in «Revista de Indias», 2014, vol. LXXIV, n. 261, pp. 361-385: p. 362.

[8] Ivi, pp. 363-364.

[9] Ivi, p. 370.

[10] Ivi, pp. 372-373.

[11] Ivi, p. 382.

[12] Cfr. Michael Foucault, Le Aveux de la Chair, Paris, Édition Gallimard, 2018, trad. it. Le confessioni della carne, trad. di Deborah Borca, Feltrinelli, Milano, 2022, pp. 235-236.

[13] Ivi, p. 237.

[14] Ivi, p. 243-244.

[15] Ivi, p. 245.

[16] Ivi, p. 248.

[17] Cfr. Ana María Presta, Fernanda Molina, Casados o felices. Prácticas relaciones privadas, acomodaminetos y trasgresiones al matrimonio en los andes durante la temprana colonia, in «Dos Puntas», Argentina, anno IV, n. 6/2012, pp. 125-155: p. 126.

[18] Cfr. Pedro Carrasco, Indian-Spanish Marriages in the First Century of the Colony, in Schroeder, Wood,

Haskett, Indian Woman of Early Mexico, University of Oklahoma Press, Norman, 2020, pp. 87-89.

[19] Cfr. Monumenta Mexicana, Vol. I (1570-1580), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. VIII, edidit Felix Zubillaga S.I., Romae, apud M.H.S.I.m 1956, p. 133.

[20] Cfr. Carrasco, Indian-Spanish Marriages, in Id. Indian Woman of, p. 97.

[21] Ivi, p. 90.

[22] Cfr. Presta, Molina, Casados o felices, p. 132.

[23] Cfr. Staving, Political “Abomination”, p. 144.

[24] Cfr. Monumenta Peruana, Vol. II, p. 177.

[25] Cfr. Molina, Entre la doble vara, p. 368.

[26] Cfr. Molina, Casadas dos veces. Mujeres e inquisidores ante el delito de bigamia femenina en el Virreinato del

Perù (siglo XVI-XVII), in «Memoria Americana. Cuadernos de Etnostoria», 2017, n. 25.1, pp. 31-46: p. 32.

[27] Ivi, p. 33.

[28] Ivi, p. 36.

[29] Ivi, p. 37.

[30] Ivi, p. 39.

[31] Cfr. Molina, Femina cum femina. Controversias teológicas, júridica y medica en torno a la sodomía femenina en el mundo hispano (Siglos XVI-XVII), in «Arenal», 2014, n. 21:1, pp. 153-176: pp. 172-173.

[32] Cfr. Monumenta Peruana, Vol. VIII (1603-1604), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. XLV, editor Enrique Fernandez S.I., Romae, apud M.H.S.I., 1986, pp. 1*-2*.

[33] Ivi, p. 18*.

Lascia un commento