Thomas Reid, storico della filosofia sui generis

di Dario Rivo

 

Thomas Reid può essere considerato il promotore di una tradizione filosofica a cui, ancora oggi, nonostante le plausibili critiche a cui è stata storicamente sottoposta[1], può e deve essere riconosciuta una certa valenza speculativa: mi riferisco alla scuola scozzese del Common Sense.

L’abbinamento dei due termini, “speculazione” e “common sense”, potrebbe già suscitare un certo grado di disapprovazione, a causa dell’incolmabile distanza che parrebbe separare le più astratte riflessioni filosofiche dai più immediati e concreti dettami del senso comune. Il punto è che l’astenersi dal tentativo di limitare – se non di annullare del tutto – lo spazio che tende ad allontanare la filosofia e il senso comune collocandoli lungo due poli diametralmente opposti, significherebbe dover dire addio ad uno dei due termini. Ma la questione diviene ancor più interessante quando, con l’intento di smentire – o quanto meno di provare a districare – tale problematico seppur apparentemente inevitabile rapporto oppositivo, ci si imbatte in una delle più affascinanti esortazioni relative alla disciplina filosofica, scritta per mano dello stesso Reid nel capitolo introduttivo alla sua Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune; esortazione che, paradossalmente, costituisce al tempo stesso una sorta di condanna, seguita perfino da una coraggiosa e degna di nota rinuncia:

Ammirevole filosofia, figlia della luce, madre della sapienza e della conoscenza! Se sei tale, certamente non ti sei ancora mostrata pienamente alla mente umana e i raggi con cui ci hai illuminato bastano soltanto a far vedere l’oscurità che copre le facoltà umane e a disturbare la tranquillità e la sicurezza di cui godono i felici mortali che non si sono mai avvicinati ai tuoi altari né hanno subito la tua influenza! Ma se non puoi dissipare le nubi e i fantasmi che tu stessa hai scoperto o creato, allontana questi raggi scarsi e malevoli! Non apprezzo la filosofia e rinuncio alla sua guida: voglio che la mia anima resti unita al senso comune[2].

Appare anzitutto abbastanza evidente, dalla lettura del frammento appena citato, il riferimento ad un certo qual modo di condurre la ricerca filosofica che, secondo il “filosofo” scozzese, risulterebbe essere indubbiamente inadeguato e attribuibile, come vedremo, sia ai “colleghi”[3] che lo hanno preceduto sia, ancor di più, a quelli a lui contemporanei. Ma c’è un altro elemento che sembra emergere con altrettanta spinta propulsiva, l’unione tra l’anima e il caro senso comune; è a tal riguardo che inizia ad intensificarsi l’esigenza di delineare, con maggior precisione, le sottili sfumature di significato che può generalmente assumere quest’ultima espressione. In altri termini: cosa si è soliti intendere per “senso comune”?

Evandro Agazzi, nell’introduzione al volume miscellaneo riportante il titolo Valore e limiti del senso comune, si preoccupa di mettere subito in evidenza le due diverse accezioni semantiche che l’espressione in questione può assumere, mostrando come nella lingua italiana queste caratterizzazioni si manifestino, letteralmente, a livello terminologico. Egli distingue il «buon senso», con il quale solitamente si intende «un atteggiamento che si riferisce specialmente alla prassi e che consiste nella capacità di adottare decisioni ragionevoli indipendentemente dal grado di istruzione o dal tipo di convinzioni ideologiche, religiose, politiche di un determinato soggetto»; dal «senso comune» propriamente detto, con il quale si tende piuttosto ad indicare «un complesso di atteggiamenti conoscitivi» socialmente condiviso, in maniera irriflessa e senza l’apporto di nessuna competenza specialistica, che, proprio per tali ragioni, costituirebbe «una sorta di patrimonio conoscitivo comune a tutta la specie umana»[4]. Ecco, questo duplice utilizzo terminologico, come sottolinea poco più avanti lo stesso Agazzi, è notevolmente rilevante soprattutto perché ci induce a tener conto dell’importanza da attribuire a quell’adeguato approfondimento intellettuale utile al fine di comprendere al meglio la natura e la portata del senso comune soprattutto sul piano conoscitivo, dato che

il suo stesso valore sul piano pratico deve risultare come qualcosa di più solido che un semplice accontentarci di qualcosa che funziona nelle banali vicende della quotidianità, bensì come una guida che può eventualmente essere assunta come affidabile anche in situazioni complesse e che, pertanto, deve offrire anche alcune garanzie razionalmente esplicitate e, in tal senso, di tipo cognitivo[5].

Eccoci ritornati al punto di partenza: a conferire meritevolmente il titolo di vero e proprio filosofo a Thomas Reid, è il medesimo scopo che si cela dietro quello che a primo acchito potrebbe risultare uno sterile e insignificante – soprattutto dal punto di vista della ricerca puramente intellettuale – appello al common sense. È senz’altro vero che quest’ultimo potrebbe dirsi consistere, genericamente, in un insieme di credenze che dobbiamo dare per scontate nella vita quotidiana; ma se analizziamo in maniera leggermente più approfondita questa semplice definizione (facendo, in tal modo, “filosofia”) ci accorgiamo subito che le «credenze» del senso comune potrebbero sì elevarsi allo status di «certezze» ma che nonostante ciò, queste ultime, pur rappresentando delle «convinzioni» condivise, non  arriverebbero comunque a costituirsi come delle «Verità»[6]. Non a caso, la ricerca reidiana si basa sui «principi»[7] – e non sulle “banali” credenze condivise – del senso comune: principi che, d’altronde, si caratterizzano per la loro auto-evidenza e per il loro essere vincolanti a livello psicologico e indispensabili a livello pratico[8].

Con ciò, si vuole semplicemente sottolineare il fatto che siamo già in presenza di una reale elaborazione intellettuale degna di essere definita filosofica, e per quanto possa sembrare – per riprendere le parole di Gordon Graham – che «sulla base di una lettura relativamente immediata, la risposta del senso comune alla filosofia equivalga al suo rifiuto […], secondo una qualsiasi plausibile interpretazione di Reid, l’appello al senso comune è [effettivamente] parte della sua filosofia»[9]. Da questo punto di vista, un’ulteriore osservazione attinente viene offertaci da Paolo Spinicci che, spostandosi dal campo della disciplina filosofica in sé a quello relativo al ruolo del filosofo, ci ricorda come  quest’ultimo per Reid abbia un compito di natura puramente «descrittiva: […] deve chiarire in termini concettuali l’immagine del mondo che tutti, e da sempre, condividiamo»; aggiungendo, inoltre, che «il richiamo alla dimensione del senso comune deve valere innanzitutto come un invito a tornare alle cose stesse, dimenticando le teorie presupposte e il vocabolario concettuale entro il quale esse tentano di tradurre il senso complessivo della nostra esperienza»[10]. Ecco, qui torna invece la questione degli ormai verificati colleghi del filosofo Thomas Reid: a quali “teorie presupposte” e a quale “vocabolario concettuale” ci si sta riferendo?

Reid non rinuncia alla filosofia; semmai, tra l’altro con la peculiare dose di umiltà testimoniata dalla lettera di risposta inviata il 20 agosto 1790 a James Gregory, tenta di darle nuova linfa vitale:

Il merito di ciò che avete il pregio di chiamare “la mia filosofia” risiede, credo, principalmente nell’aver revocato in dubbio la teoria comune delle idee o immagini delle cose nella mente come unici oggetti del pensiero; una teoria fondata su un pregiudizio naturale e accolta in modo così universale da interessare la struttura [stessa] del linguaggio. Tuttavia, se dovessi dirvi in dettaglio cosa mi ha indotto a revocare in dubbio questa teoria, dopo averla per lungo tempo ritenuta indiscutibile e auto-evidente, pensereste, come me, che molto sia stato dovuto al caso. La scoperta è stata parto del tempo, non del genio; e Berkeley e Hume hanno fatto molto di più per portarla alla luce di chi vi si è semplicemente imbattuto per caso. […] Di loro, posso dire veramente, e sempre lo dichiarerò apertamente, ciò che vi pregiate di dire di me, e cioè che, se non fosse stato dall’aiuto ricevuto dalle loro opere, non avrei mai potuto scrivere o pensare ciò che ho fatto[11].

Se da un lato, come già accennato, si può parlare di un rifiuto della filosofia che rifiuto non è, dall’altro è possibile intravedere una critica che per certi versi assume la forma, se non di un vero e proprio elogio, quanto meno di un riconoscimento intellettualmente onesto nei confronti di autori del calibro di Berkeley e Hume, meritevoli perfino di aver fatto partorire a Reid parte della sua stessa scoperta.

Reid rende onore ai suoi predecessori: li contesta ma, allo stesso tempo, li ringrazia per avergli permesso di sviluppare le sue riflessioni e giungere a delle conclusioni risolutive. La sua è, dunque, prima di tutto, una filosofia “reazionaria”, la cui ragion d’essere risiede nell’assiduo confronto con la speculazione humiana. È lo stesso Reid che, vestendo i panni dello storico della filosofia sui generis, ci fornisce dei chiarimenti in merito a questo suo riconoscimento critico. E dico sui generis perché, come spiega Luigi Neri, «lo studio storico della filosofia doveva essere […] subordinato alle esigenze di una filosofia della mente, in buona parte ancora da costruire»; quindi, pur essendo vero che essa «poteva essere utile a dirigere nel modo più opportuno la ricerca sulla mente nella sua navigazione tra gli errori, mostrando, se non altro, le insidie da evitare», non va d’altronde trascurato il fatto che «Reid non aveva inteso essere l’autore di una storia della filosofia di carattere generale» e che dunque «il confronto critico con il passato, e talora il parziale recupero, sono parte integrante della sua filosofia»[12]. Il passato filosofico rientra infatti tra le quattro fonti che l’autore scozzese ritiene utili e necessarie per il progresso della filosofia della mente; queste ultime sarebbero costituite – oltre che dalla «considerazione delle opinioni degli uomini, non esclusi errori e pregiudizi»[13] – dalla riflessione relativa alle operazioni delle nostre menti, nonché dall’attenzione per il linguaggio e per il comportamento degli uomini[14].

Ma torniamo alla nostra fonte storico-filosofica utile e necessaria al progresso della filosofia della mente. In sostanza, egli sosteneva che «la moderna teoria filosofica delle idee» fosse «una sopravvivenza della dottrina aristotelica delle specie»[15]. Naturalmente, l’artefice del mantenimento dell’errore aristotelico veniva da lui rintracciato in Cartesio, meritevole di aver respinto «l’ipotesi delle specie emesse dai corpi», ma ritenuto colpevole per il fatto di aver mantenuto «il prodotto finale di quel processo» e, dunque, la stessa «esistenza delle idee interne alla mente che rappresentano le cose esterne»[16]. Secondo Reid, infatti, Hume non sarebbe altro che l’erede naturale di quel sistema ideale promosso da Cartesio e portato avanti da Malebranche, Locke e Berkeley; il suo connazionale, dunque, non avrebbe potuto far altro che approdare – seguendo correttamente le premesse filosofiche degli autori succitati – allo scetticismo, considerato, per l’appunto, «la conseguenza genuina e inevitabile della dottrina delle idee»[17].

Chiarito questo passaggio, sorge però spontanea una domanda: potrebbe applicarsi lo stesso ragionamento mettendo in relazione la riflessione di Reid a quella di Hume? Ciò che salta subito all’occhio, in realtà, è che il senso comune non parrebbe per nulla costituire “la conseguenza genuina e inevitabile” dello scetticismo, quanto piuttosto una sua “continuazione con cambiamento di direzione”[18].

È dunque probabile che Reid, studiando la filosofia del suo caro nemico filosofico, abbia per primo saputo accogliere il prezioso suggerimento uscito dalla penna dello stesso Hume – «Sii filosofo, ma in mezzo a tutta la tua filosofia resta pur sempre un uomo»[19] – e ben applicarlo alla sua speculazione, rivalutando le basi teoriche su cui poggiava la longeva tradizione filosofica che ha poi finito per mettere in discussione senza, tuttavia, mai rinnegarla del tutto.

A testimonianza di quel che si è sostenuto fin qui, per concludere, si è scelto di riportare le parole con cui Reid apre uno dei paragrafi della sua Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune, non a caso intitolato «Non dobbiamo abbandonare la speranza in un sistema migliore»; parole attraverso le quali è possibile cogliere la sua non banale e degna di nota consapevolezza storiografica, nonché l’implicita affinità concettuale nei riguardi della succitata “continuazione con cambiamento di direzione”:

Bisogna perdere ogni fiducia perché Descartes e i suoi epigoni hanno fallito? Assolutamente no. Una tale pusillanimità sarebbe offensiva per noi e per la verità. Le scoperte vantaggiose sono talora il prodotto di un genio superiore, ma più spesso sono il risultato dei tempi e dell’occasione. Un viaggiatore, sebbene giudizioso, può sbagliare strada ed essere indotto a seguire inconsapevolmente delle tracce fuorvianti; fino a quando, se la trova davanti a sé, egli può procedere senza sospetti ed essere accompagnato da altri; ma se poi finisse in un luogo inaccessibile, non gli occorrerà molta avvedutezza per accorgersi di aver sbagliato via e per scoprire le cause del suo errore[20].

*L’immagine è frutto del lavoro di Gordon Johnson.

[1] Basti pensare a Immanuel Kant, che, scagliandosi contro l’utilizzo dei principi del senso comune ai fini di un’ipotetica risoluzione dei problemi metafisici, finiva per criticare un tale approccio metodologico descrivendolo come uno strumento attraverso il quale «il più stupido cianciatore può con fiducia misurarsi col più profondo ingegno, e resistergli»; I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica come scienza, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 8. 

[2] T. Reid, Ricerca sulla mente umana e altri scritti, a cura di A. Santucci, UTET, Torino 1975, p. 105.

[3] I termini “filosofo” e “colleghi” sono virgolettati in quanto, se – a livello teorico – si applicasse definitivamente la netta separazione tra filosofia e senso comune, a Reid non potrebbe venir più attribuito tale appellativo e, di conseguenza, i maggiori esponenti della cultura prettamente filosofica del XVII e del XVIII secolo apparterrebbero ad un settore disciplinare differente rispetto al suo.

[4] E. Agazzi, Introduzione, in Id. (a c. di), Valore e limiti del senso comune, Franco Angeli, Milano 2004, p. 9.

[5] Ivi, p. 10.

[6] Cfr. ivi, p. 12.

[7] Alcuni dei principi esposti da Reid sono riportati da A. Guardo, La teoria della memoria di Reid in contesto, in T. Reid, Saggio sulla memoria, a cura di A. Guardo, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 29-30: «In primo luogo, quindi, sostengo, come un primo principio, l’esistenza di tutto ciò di cui ho coscienza. Un altro primo principio è, credo, che i pensieri di cui ho coscienza, sono i pensieri di un’entità che chiamo “me stesso”, “la mia mente”, “la mia persona”. […] Un altro primo principio ritengo sia che quelle cose che ricordo distintamente sono davvero accadute. […] Un altro primo principio è la nostra propria identità personale e ininterrotta esistenza, a partire dal nostro più antico ricordo distinto. […] Un altro primo principio è che quelle cose che percepiamo distintamente per mezzo dei nostri sensi, esistono davvero e sono come le percepiamo essere. […] Un altro primo principio è, credo, che abbiamo in una qualche misura potere sulle nostre azioni e sulle determinazioni della nostra volontà. […] Un altro primo principio è che le facoltà naturali, per mezzo delle quali distinguiamo la verità dall’errore non sono fallaci. […] Un altro primo principio intorno all’esistenza è che c’è vita e pensiero in quelli, tra i nostri simili, con cui riusciamo a conversare. […] Un altro primo principio che ritengo sia che certi aspetti dell’espressione del volto, del suono della voce e del gesticolare indicano certi pensieri e disposizioni della mente. […] Un altro primo principio mi pare essere che bisogna avere un certo rispetto per la testimonianza umana per quanto riguarda le questioni di fatto e anche per l’autorità umana per quanto riguarda le questioni di opinione. […] Ci sono numerosi eventi dipendenti dalla volontà dell’uomo in cui si ha una probabilità autoevidente, maggiore o minore a seconda delle circostanze. […] L’ultimo principio delle verità contingenti che menziono è che nei fenomeni naturali ciò ha ancora da accadere sarà probabilmente simile a ciò che è già accaduto in simili circostanze».

[8] Cfr. G. Graham, La filosofia del senso comune e la sua ricezione, in E. Agazzi, (a cura di), Valore e limiti del senso comune, cit., pp. 126-127.

[9] Ivi, p. 125.

[10] P.  Spinicci, Prefazione, in T. Reid, Saggio sulla memoria, cit., p. 10.

[11] La traduzione italiana del contenuto della lettera in questione viene riportata da E. Levi Mortera, Reid, Descartes e la «way of ideas», in C. Borghero e C. Buccolini (a cura di), Dal Cartesianesimo all’Illuminismo radicale, Le Lettere, Firenze 2010, p. 103.

[12] L. Neri, Filosofia della mente e storia della filosofia in Thomas Reid, in A. Santucci (a cura di), Filosofia e cultura nel Settecento britannico. Vol. II, Hume e Hutcheson. Reid e la scuola del senso comune, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 339-340.

[13] Ibidem.

[14] Cfr. ibidem.

[15] Ivi, cit., p. 341, in cui si legge: «Secondo Aristotele – così affermava Reid – le cose emettono le proprie specie intelligibili […] che si imprimono sull’intelletto passivo e diventano quindi le idee mediante cui l’intelletto “percepisce le cose esterne”».

[16] Ibidem.

[17] F. Restaino, Scetticismo e senso comune. La filosofia scozzese da Hume a Reid, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 249.

[18] Il riferimento è all’espressione utilizzata da Ortega riferendosi ad ognuna di quelle verità parziali che derivano da qualsiasi altra esperienza di pensiero sulla realtà– «Ciascuna è una “via” o un “cammino” […] attraverso il quale si ripercorre un tratto di verità e se ne contempla un aspetto. Ma si arriva ad un punto nel quale, per quel cammino, non si può andare oltre. È necessario tentarne uno diverso. Ma, per essere diverso, è ineludibile considerare il primo e, in questo senso, è una sua continuazione con cambiamento di direzione» – in J. Ortega y Gasset, Idee per una storia della filosofia, a cura di A. Savignano, Sansoni, Firenze 1983, p. 117. Espressione a cui avevo già fatto riferimento, riguardo a un altro contesto, nel mio L’importanza della “Continuazione con cambiamento di direzione” nella storia del pensiero umano, in «Il Pequod», 8, 2023, pp. 60-67.

[19] D. Hume, Ricerca sull’intelletto umano [1996], Laterza, Roma-Bari 2009, p. 9.

[20] T. Reid, Ricerca sulla mente umana e altri scritti, cit., p. 111.

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