Dal thaûma tragico. Alcune riflessioni su “Metafisica concreta”

di Stefano Piazzese

 

«Il pólemos che sostanze e principi di Physis scatenano senza sosta suscita il thaûma tragico. Soltanto la sua conoscenza può condurre a catarsi, a dominare il dolore che esso produce»[1].

 

È possibile pensare il rapporto tra scienza e filosofia in una forma che non si traduca in abietta subordinazione della seconda alla prima, o in quella di una sempre più incommensurabile separazione tra le due? Metafisica concreta risponde a questa urgente e attuale domanda. Urgente poiché l’aut-aut che emerge oggi a partire dalla domanda precedente, quasi fosse una necessità che s’impone quando si pensa tale rapporto, comporta uno svuotamento totale (o svendita a basso prezzo, nel caso di chi con entusiasmo abbraccia la prima ‘opzione’) del senso della filosofia; attuale perché l’interrogativo sottintende una necessità riguardante ogni pensiero che tenta di inoltrarsi nella complessità del presente, in cui la lacerazione tra le due discipline sembra acuirsi viepiù. È terminato più di un secolo fa ormai il tempo in cui le due – scienza e filosofia – erano insieme, laddove, giusto per fare un esempio, era del tutto ‘naturale’ per il filosofo occuparsi e parlare di Wissenschaftslehre (Fichte). Ma l’epilogo dei grandi sistemi non vuol dire che non sia possibile pensare nuovamente scienza e filosofia in modo da riformulare, una volta posta la loro diversità, i termini di un possibile dialogo tra esse. Metafisica concreta è questo tentativo, l’inveramento di questa ardua quanto necessaria sfida; tentativo che per essere credibile, rigoroso e ben fondato non può non strutturarsi nella forma di un diá-logos con i momenti più importanti della storia del pensiero filosofico, che è la medesima storia di Europa[2]. Dunque, poniamo la domanda che attraversa ogni pagina del libro e il modesto tentativo qui messo in atto di percorre alcuni ‘luoghi’ del suo teoreticamente fecondo itinerario: «che bisogno vi è, a questo punto, di meta-fisica?»[3].

La prima riflessione che sorge perentoria è il titolo del libro a porla: Cacciari contribuisce a riportare e confermare all’interno del dibattito filosofico attuale il concetto di metafisica. Dagli scritti di Aristotele sappiamo che il sapere avente come oggetto la verità dell’essente, tà physiká, mai fa riferimento al carattere necessario della scienza dei principi, argomento che pertiene, invece, a metà tà physiká. Posta la differenza tra corruttibile e incorruttibile, la possibilità di una epistéme gravita tragicamente attorno alla domanda «quale reale analogia può sussistere infatti tra la realtà della regione delle Cause supreme e quella che abitano gli enti sensibili?»[4]. Vi è qualcosa che trascende la stessa ousía dell’oggetto che contempliamo e in filosofia questo trascendere la cosa contemplata prende il nome di stupore, sicché la nostra conoscenza è sempre generata dal thaumázein che suscita in noi l’essente che appare nel nostro orizzonte visivo; la stessa meraviglia che è fantasia, immaginazione e mai errore. Dalla dýnamis nasce la meraviglia, e da questa il philo-sopheîn che pone l’epistéme come suo fine. L’autore, in merito a questo inizio, ammonisce: «guai ad arrestarsi a questo piano, ma guai altresì a volerlo sopprimere»[5].

Seguendo sempre il pensiero aristotelico, è una esigenza della fisica che indaga le cause quella di farsi metafisica per definire i principi che reggono tale indagine, poiché

 

è soltanto per la theoría, secondo il punto di vista della metafisica, che si perviene alla Causa ultima della natura dell’ente finito e, insieme, ai principi in base ai quali questo risulta comprensibile secondo verità. La metafisica ‘salva’ la fisica dall’essere mera descrizione dei caratteri dell’ente e ne garantisce il valore teoretico. Una fisica assoluta non sarebbe mai epistéme; per essa l’ente resterebbe un eterno aporoúmenon, nel senso di un irrisolto problema[6].

 

Qui il punto della speculazione aristotelica in cui è scolpita l’importanza che la metafisica ancora oggi mantiene nei confronti della fisica, e che va assunta come una richiesta di quest’ultima quando la sua indagine arriva al punto finale; e proprio in forza di questa esigenza, in Occidente si è forgiata e sviluppata l’idea di una scienza che si costituisce quale perì tês phýseos.

Il pensiero di Galileo è un momento fondamentale del cammino storico di quel sapere che vuole essere scienza. È con il metodo scientifico, nel Moderno, che irrompe la grande discontinuità rispetto al prima, ‘frattura’ che caratterizza tutto lo Scientiam facere in cui «esperienza e esperimento finiscono qui col coincidere»[7]. Ciò vuol dire che con Galileo il problema del rapporto fisica-metafisica è posto in modo radicalmente diverso. Si è fatto cenno al concetto di discontinuità perché tale rapporto, una volta venuta meno ogni gerarchia tra ousíai, non è più strutturato come se si trattasse di due dimensioni distinte del sapere, altresì esso «è immanente nella stessa conoscenza della natura in quanto essa si costituisca come fisica matematica»[8]. E quindi in questo senso la fisica è meta-fisica: la fisica, non fermandosi alla osservazione empirica, integra come suo momento essenziale la formulazione delle ipotesi il cui linguaggio coincide con quelle che vengono definite leggi della Natura. Ma qui la domanda trascendentale apre un abisso denso di tragicità filosofico-scientifica che bisogna avere il coraggio di considerare per condurre il nostro argomento fino alle sue estreme conseguenze: «quale fondamento ha l’accordo, che di fatto sperimentiamo, tra la nostra matematica e la rivelazione della Natura? Come può pretendere la prima di valere come il linguaggio della seconda? Che cosa ne giustifica una tale auctoritas[9], e quindi, in modo ancor più preciso, «che cosa fa certa la mente di poter essere rivelatrice della sostanza dell’essente?»[10].

Quale forma prenderà, dunque, il rapporto tra scienza galileiana e metafisica? La metafisica determinando l’oggetto della scienza ne definisce, ipso facto, i limiti e chiarisce anche fino a ‘dove’ può estendersi la nostra conoscenza. E qui Cacciari non si limita a formulare una domanda, altresì, movendo da Kant, scorge un itinerario: la metafisica futura «dovrà valere come facoltà del conoscere»[11]. Stando a questa prospettiva, si erge la domanda che dice la krísis del philosopheîn: «se scienza della natura è solo matematica che resta da fare alla filosofia?»[12]. Dato che il linguaggio della metafisica, non essendo matematizzabile, si sottrae al sovrano dominio dello Scientiam facere, sarebbe un errore ridurre il ruolo della metafisica a comprensione dell’operari matematico, visto che la matematica stessa, «senza cui non potrebbe esservi oggi alcuna scienza fisica, ma solo una Beschreibung, una descrizione di fenomeni, mostra di fatto che si danno giudizi sintetici a priori»[13].

Cosa resta da fare alla filosofia? Visto che la matematica non volge il proprio interesse al problema della fondazione – per questa ragione è definita esatta –, risulta inevitabilmente posta di fronte alla domanda: cosa rende possibile il giudizio sintetico a priori? È la metafisica a indagare e spiegare «la possibilità del giudizio sintetico a priori, che è proprio della matematica, ma che in questa si mostra soltanto nella sua efficacia»[14], e dunque la capacità della nostra Seele di formularlo ha nel nostro essere sensibile la propria radice – difatti i giudizi in questione trattano gli oggetti dell’esperienza[15].

Epperò la questione posta rimane aperta in quanto l’uomo, poiché esiste ek-staticamente, tende a ciò che eccede la finitezza dell’apparire fenomenico degli enti; sospinto dall’angoscia egli formula la domanda delle domande, l’interrogativo che sorge dallo smarrimento del pensante ramingo nel baratro della ragione (Kant). Qui tutto il suo spaesamento: perché l’essere e non il nulla? La domanda «piena di disperazione» (Schelling) risulta possibile solo a partire dalla trascendenza dell’esserci, solo una volta compreso che l’esserci è tale proprio in quanto esserci che si trascende costantemente, «ma ciò equivale a dire che l’essenza del fondamento è la libertà dell’esserci, poiché trascendersi non può significare che l’essere-liberi dal mondo in cui l’uomo è gettato e gli è dato esistere» [16]. In merito a ciò, il pensiero di Cacciari mostra tutta la sua ricchezza teoretica nel prendere in considerazione il fatto che il rapporto fisica-metafisica riguarda ogni dimensione dell’esserci, quindi non solo il suo modo di porsi rispetto a ciò che è tà physiká, ma pure rispetto a ciò che egli è in quanto parte di ciò che vuole indagare, in quanto oggetto di ciò che il suo stesso sapere intende sviluppare ed esprimere, sicché Metafisica concreta vuol dire anche questo: riconoscere ciò che dell’essente eccede sempre la conoscenza raggiunta e che si caratterizza, per conseguenza, come non collocabile all’interno degli schemi categoriali strutturati dalla volontà di conoscere. Vi è sempre qualcosa dell’ente che non è riconducibile alla sua matematizzazione; vi è sempre qualcosa dell’ente che, anche all’interno di un laboratorio, rimarrà sempre sfuggente all’osservatore, al misurabile dell’operari scientifico come qualcosa che pur svelandosi mai sarà possibile ‘afferrare’ totalmente poiché in parte rimane inaccessibile come trascendenza perenne di ciò che si vuole indagare, costituendo la chiusura parziale e costante del proprio darsi.

Cacciari prende in esame il nesso causale affermando che è il nostro esserci a decretarne la krísis «poiché ontologicamente questo nesso si proietta sullo s-fondo dell’Inizio, dell’assolutamente incondizionato»[17]. L’autore afferma che «è la stessa theoría fisica a mostrare come si diano i fenomeni connessi tra loro in forme che non possono ridursi al legame causale»[18]. Accade ciò perché un fenomeno può seguire l’altro senza che l’uno sia l’effetto dell’altro (il quale, a sua volta, ne sarebbe causa), qui Newman riflettendo su Gödel fa riferimento al concetto di Zufall, ovvero al «susseguirsi di accadimenti che non stanno in una relazione causale. […] Nel caso si incrociano, si intrecciano, vanno insieme (symbebekós-symbaíno) elementi diversi, senza che tra essi possano stabilirsi nessi causali. Ogni evento è in sé un labirinto di casi»[19]. Pertanto, il nesso causa-effetto non può dire qualcosa sulla totalità dell’evento in modo da renderlo totalmente conoscibile. Quel qualcosa che sfugge, di cui sopra, si ripresenta nello sviluppo del nostro percorso. Quel qualcosa che non è possibile categorizzare entro il “sicuro recinto” del nesso causale è un “labirinto” in cui la mente si perde, sprofonda.

L’essente quindi risulta non spiegabile solo attraverso la lente deterministica che lo vuole effetto o prodotto di una causa. E in merito a ciò Cacciari chiama in causa Carlo Diano per porre una distinzione fondamentale concernente l’evento e il caso: il primo, di cui parla Diano in Forma ed evento[20], non è accostabile al secondo, difatti affinché «il caso diventi evento, esso deve riguardare […] questo individuo in questo hic et nunc (e dunque non essere più un caso, eccederne la dimensione, poiché, come abbiamo già visto, il caso co-implica in sé […] una molteplicità di eventi)»[21]. Non si risolve l’aporia dell’evento facendo riferimento al mero accadere; l’evento è tale se accade al soggetto e perché il soggetto lo avverte come presa della propria esistenza. Va precisato che evento e caso condividono, però, lo sfondo dell’“infinito onniabbracciante”, e anche evento e fatto, stando a Diano, non vanno mai confusi: se il secondo implica un legame inscindibile con la prâxis, il primo, l’evento, essendo segnato dal timbro di Anánkē, è il modo in cui «la Necessità si esprime nell’individualità del caso»[22]. E se è necessario che l’evento sia, nessun’altra creazione umana ha espresso tale necessità così come la troviamo nella tragedia greca. Giusto per fare un esempio: l’autore cogli un nesso che in Aiace Sofocle pone al centro della trama tragica secondo cui týche è un modo per dire anankaía. Solo alla luce di questo collegamento è possibile comprendere il senso per cui týche detiene il potere – è la tragedia greca a sviluppare questo pólemos che troverà grande attenzione da parte dei filosofi e segnerà tutta la storia del pensiero fino ai giorni nostri.

L’evento che piomba nel nunc stans del soggetto produce la lotta tra i due principi che Hölderlin chiama aorgico (evento) e organico (forma). L’esistenza stessa del soggetto si caratterizza entro i confini di questo agón, di questa dinamica che non conosce l’ora dell’occaso, ragion per cui «spiegabile è questa dialettica tra evento e forma, non l’evento che rimanda sempre a una propria ragion insufficiente»[23]. Il discorso di Cacciari porta alla luce la duplicità tragica di tale dialettica che costituisce il fondamento della tragedia greca e di ciò che da essa filosoficamente è sorto nella modernità, ovvero il tragico. Essa è tragica, in primo luogo, perché non vi è forma che possa arginare la possibilità dell’evento – quest’ultimo è sempre prossimo e l’uomo stesso vive perennemente esposto al suo incombere –, e, in secondo luogo, l’evento risulta non determinabile da qualche legge a priori o da schemi logico-concettuali, qui la ragione per cui esso rimane sempre al di là della capacità e dell’ambizione umana di afferrarlo appieno per fissarlo all’interno di una conoscenza certa, deducibile matematicamente, in termini causali. Ora, che senso ha per la metafisica concreta, e dunque per il tentativo di pensare filosofia e scienza, la dialettica evento-forma? Da essa è possibile rinvenire «quel problematico nesso tra micro e macro-fisico […] La ‘danza selvaggia’ del mondo micro-fisico sembra non potersi manifestare che nelle forme che assume quello macro-fisico e nelle leggi che lo descrivono»[24]. Inoltre, la dialettica irrisolvibile di cui pariamo, stando alla duplicità tragica di cui sopra, pone l’essente come unschuldig per la sua impossibilità di essere definito dalla sua Causa e dal suo Fine, per cui «Übermuthig è il suo animo, non tracotanza o vana arroganza, ma energia propria, superiore a ogni dovere o essere in debito»[25].

Impossibile sfuggire alla contraddizione che il tragico disvela come carattere sommo dell’esistenza e degli essenti. La parola della Necessità, seguendo Schopenhauer e Nietzsche, conduce a vedere nella morte lo scomparire della cosa, e dunque: «da dove verrebbe una sola molecola del mio corpo se non fosse sempre esistita? […] ma siamo fatti anche di memoria, e la memoria ricorda ‘i morti’»[26]. E considerando quel angeborene Keim des Todes, quell’«innato germe di morte» (Hegel, Enciclopedia), ci si domanda: «c’è una kantiana ‘fine di tutte le cose’? O questa fine la si intende come un ‘grande rimbalzo’, un contraccolpo da cui tutto si rigenera, oppure è necessario cadere nell’assurdo di un passaggio dall’essente al niente assoluto»[27].

Il fare implica sempre il credere in uno scopo e ciò riguarda anche lo Scientiam facere: lo scienziato ha fede che ciò che cerca esiste e che possa essere trovato. Ne segue che il credere risulta fondamentale al concetto stesso di verità caro alla scienza poiché «tra vedere e sapere – come tra sapere e scienza – non vi sono barriere, ma difficili transiti, che si percorrono interrogando-dubitando»[28]. L’autore richiama qui con forza quel principio, tratto da un verso neotestamentario (Giovanni, 4, 22), che apre il libro: Nos adoramus quod scimus, «noi adoriamo ciò che sappiamo»[29]. È a partire da questo legame tra adorare e sapere, tra credere e conoscere che diventa lapalissiana l’infondatezza delle idee stando alle quali il credere: 1) non richiede applicazione e cura; 2) funge da rasoio di Occam nei confronti delle domande che sorgono indagando gli essenti; 3) è un tentativo di rifugiarsi in una fortezza della mente per trovare ristoro e consolazione dal tremendo dell’esistenza. In riferimento ai “difficili transiti” a cui si è fatto prima riferimento, tra il sapere e il credere è possibile scorgere la dimensione ‘fiduciaria’ che pertiene anche all’operari scientifico – passaggio molto noto anche al Wittgenstein del periodo successivo al Tractatus[30].

Vi è uno stretto legame tra il tempo e l’evoluzione degli enti, e dunque anche tra il tempo e l’evoluzione del corpo umano, che determina una dissimmetria tra passato e futuro, definita con il nome di entropia: la differenza tra βίος e βιός caratterizza il cervello umano come organismo perennemente alla ricerca di ciò che possa tardare l’incontrovertibile decadimento del corpo, e allo stesso tempo capace di donarsi (e donare) la morte in modo letale in men che si dica. Questa duplicità mostra quanto il rapporto dell’uomo con il tempo sia e rimanga enigmatico. Ci viene incontro Boltzman, secondo cui

 

la scienza, supremo dono del Sé, afferma che, se l’universo è sufficientemente esteso (e certo sembra esserlo, visto che il nostro sguardo si spinge sempre oltre senza, per ora, mai tornare sullo stesso) o il tempo sufficientemente lungo (e anche qui i Greci sembrano averne già compreso l’infinità, ed è perché il tempo è infinito che pensano anche a sostanze eterne) la ‘freccia’ potrebbe invertire la sua direzione, come rimescolando per una durata sufficientemente lunga (ma forse calcolabile, non indefinita) un mazzo di carte è certamente possibile ripetere la partita appena giocata. La ‘freccia’ non conferisce al tempo alcuna ontologica necessità[31].

 

Misura del tempo e trasformazione dell’ente corrispondono, dato che il primo non è una forma a priori dell’intelletto, à la Kant, ma «misura della metabolé che allontana un sistema dal precedente equilibrio, misura della crescita dell’entropia fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio»[32] (p. 313). Lo scorrere del tempo soverchia sempre gli argomenti che hanno cercato di renderne ragione.

Sempre a proposito del tempo, bisogna tener conto dell’indeterminabilità del futuro. Seguendo il pensiero di Eschilo in Agamennone vv. 251-252, sappiamo che tò méllon (il futuro) è conoscibile solo quando è già accaduto, una volta dato, difatti il verbo méllo esprime un’azione che si sta per attuare, indica la tensione dell’agire che sta per accadere[33]. La precisazione preziosa che fa l’autore affonda le proprie radici nel pensiero tragico di Eschilo e ci ricorda che «il futuro abita già sulla soglia di questa mia stessa casa. Melletés è colui che esita, che indugia sulla soglia. Ha l’intenzione di procedere, ma avverte l’arrischio del suo gesto, il periculosum che lo attende. Il suo arrestarsi è insieme sempre una pre-vidente meditazione»[34] in cui inizio e fine stanno insieme. Potremmo aggiungere nietzscheanamente che melletés è colui che «siede sulla soglia dell’attimo» (Nietzsche, Seconda inattuale[35]). Il passato ha una luce che, sebbene non duri in eterno (durata ed eternità non stanno insieme), dirada le tenebre e pertiene sempre al nostro esserci. Dalla riflessione sul tempo emerge la semantica dell’eterno, e chi meglio del cantore dell’ignoto[36], Hölderlin, ha pensato alla contrapposizione di Aión-Aevum, alla vita mortale che «nel Canto del destino vede dileguare precipitando come acqua da scoglio a scoglio nell’ignoto, ins Ungewisse»[37], sicché l’essere effimero dell’uomo (non pensato quindi sub specie aeternitatis) invalida, de facto, ogni sua pretesa di eternità? La vita dell’esserci è permeata dal suo essere mortale, la sua è vita che ha in sé quel germe di morte e la cui morte è la sua più propria possibilità, così come ha affermato Heidegger al §53 di Essere e tempo sull’essere dell’esserci come Sein zum Tode (essere per la morte)[38]. Aión, afferma Cacciari, è il “Comune” che appartiene a tutti i tempi, nel senso che «non abitiamo il tempo, ma tempo siamo comunque, poiché quella stessa sostanza-energia o luce che si manifesta, la cui essenza implica l’esistenza, non può contraddire radicitus il modello entropico, pur interpretato in un senso irriducibile al paradigma deterministico»[39].

Sono queste due facce del tempo, quella misurabile-osservabile e quella che a questo binomio si sottrae, che nell’esserci si realizzano coabitando nella forma di un costante ‘dialogo’. La tragicità di questo dialogo consiste nel fatto che la seconda delle due ‘facce’, anche se non misurabile, è comunque dicibile e il tentativo di dire l’ignoto trova qui il proprio inizio. L’essente vive in questa pluralità di dimensioni ed è lo stesso nome tò ón, al participio, che indica la sua partecipazione, adesione al plurale del tempo che abita e del tempo che è.

La vita dell’essente è una rete di relazioni che risultano determinate da proprietà diverse e alla vita della singolarità partecipano diverse forme della temporalità per cui, pur non risultando tutte determinabili fisicamente, «non solo la scienza fisica non ne esclude la realtà, ma consente ora di percepirne la possibilità reale»[40]. Ciò vuol dire che la stessa fisica, prendendo in considerazione la relazione tra la singolarità dell’essente e il Tutto, volge il proprio sguardo all’inosservabile. Eccoci giunti in uno dei punti teoreticamente più alti del percorso in questione: «il visibile si trascende sempre; ogni atto di visione, theorìa, è all’origine di un cammino, di un esodo, dal visibile, verso ciò che, fin da questa stessa origine, si riconosce come fisicamente inosservabile»[41].

Non vi è lógos capace di risolvere questo pólemos, di dis-tenderlo nel discorso in modo tale da poter rendere ragione – lógon didónai – di ogni suo aspetto insidioso allo ‘sguardo della ragione’: si tratta, in riferimento a queste dimensioni, di unità mai conciliate, mai pacificate, ma armonizzate tutte all’interno di un discorso che vuole estendere il più possibile la propria considerazione su ogni aspetto che riguarda gli essenti.

Poste queste considerazioni, come intendere, infine, il rapporto tra scienza e metafisica che altro non è che il rapporto tra scienza e filosofia? Se Reale è l’esserci in cui è sempre vivo il suo passato[42], la parola assente e quella che tenta di formulare una definizione dell’essente[43], il silenzio da cui ogni pensiero ha scaturigine[44], il Mistico che a ogni parola dà vita costituendone la sua anima[45], l’evento e la forma nel loro rapporto dialettico che riguarda sempre questo essente qui[46], l’Energia che connette tutte le determinazioni dell’essente[47], lo spirito che distingue e accomuna osservando il modo in cui le dimensioni dell’esperienza prendono vita, si sviluppano, si trasformano e si relazionano[48], e, inoltre, se il fare della scienza è scandito dai parametri di precisione ed esattezza, «la vera metafisica è essenzialmente solidale con questo cammino; essa non fa che interrogarlo sulla propria ragion d’essere, sulla sua origine (anche, non solo storica), sulla sua destinazione»[49]. A partire da tale interrogazione, che si struttura nella forma di un dialogo costante tra le due, si fanno strada le idee generatrici dei grandi sviluppi dei saperi particolari. Questo vuol dire aver chiara la consapevolezza dell’inesauribilità del contenuto della cosa (H. Weyl) e, successivamente, chiedersi se sia possibile astrarre il pensare dal suo legame con il páthos. In merito alla seconda considerazione l’autore afferma che ciò non è possibile; «le distinte rappresentazioni del Reale appartengono al Reale e in questo non posson non comunicare tra loro»[50]. In questo comunicare risiede il senso più profondo del fare-filosofia che consiste nel tenere lo sguardo teoretico sempre aperto verso le diverse manifestazioni dell’essere attivo: qui la disposizione più propria del philosopheîn, la sua Haltung.

La tragicità della metafisica concreta, così come delineata nel pensiero di Cacciari, è da un lato la costante apertura alla Fremderfahrung che mai (s)cade nella Schwärmerei, pericolo da cui Kant metteva in guardia, e, dall’altro, la rinuncia a considerare l’ente come mero positum, risultato di un riduzionismo che lo collocherebbe esclusivamente entro il sistema della Scienza-Tecnica. E dunque, ancora, cos’è metafisica? «Metafisica è theoría dell’essente in quanto essente nel suo proprio nesso all’inosservabile»[51], lo sguardo metafisico del filosofo è generato dall’originario thaumázein che impone all’esserci di trascendersi, egli è infatti «esserci in quanto immanente trascendersi»[52]. Dunque, tra lo sguardo metafisico e tà physiká le cose stanno così:

 

nessuna osservazione delle cause finite e dei loro nessi può svolgere da sé tali problémata, e tuttavia questi ci vengono incontro, si impongono proprio a partire da quella osservazione e dalla theoría che ne sorge; il fenomenicamente osservabile si affaccia sul loro abisso e ne reclama l’esplorazione[53].

 

Quali conseguenza pratico-politiche sorgono da questo modo di intendere la concretezza dello sguardo metafisico? Se «metafisico è il riconoscimento della dimensione meta-politica che ogni ‘fare-politica’, nel senso di costruire un ordinamento della pólis, ha sempre comportato»[54], si avrà una prospettiva metafisica che intende porsi in modo critico rispetto all’ordinamento politico mostrandone l’impotenza. La prassi politica volta alla costruzione della città deve porsi sempre oltre rispetto a ogni paideia determinata. Ciò vuol dire che il Politico ‘metafisico’ è sempre oltre l’éthos che reclama, esige, di essere rispettato, attuato, osservato scrupolosamente. Strada, questa, che solo la philo-sophía e phil-agathía toccate dal thaûma tragico, ovvero così come esse risultano grazie al timbro che la tragedia greca ha impresso su esse, possono indicare ancora oggi all’Occidente nella forma del colloquio, della philía che si concretizza nel dialogo tra i saperi.

[1] M. Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi, Milano 2023, p. 56.

[2] B. De Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa, Il Mulino, Bologna 2022, p. 12: «L’Europa è la sua filosofia».

[3] M. Cacciari, Metafisica concreta, cit., p. 82.

[4] Ivi, p. 60.

[5] Ivi, p. 65.

[6] Ivi, p. 66.

[7] Ivi, pp. 84-85.

[8] Ivi, p. 84.

[9] Ivi, p. 87.

[10] Ibid.

[11] Ivi, p. 168.

[12] Ivi, p. 169.

[13] Ibid.

[14] Ivi, p. 171.

[15] Cfr. ivi, p. 175.

[16] Ivi, p. 225.

[17] Ivi, p. 266.

[18] Ibid.

[19] Ivi, p. 270.

[20] Cfr. M. Cacciari, Fluttuazioni intorno a Forma ed evento in Carlo Diano, in C. Diano, Opere, Bompiani, Milano 2022, p. 2010.

[21] M. Cacciari, Metafisica concreta, cit., p. 272.

[22] Ivi, p. 273.

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] Ivi, p. 274.

[26] Ivi, pp. 294-295.

[27] Ivi, p. 297.

[28] Ivi, p. 299.

[29] Ivi, p. 11.

[30] Ivi, p. 300.

[31] Ivi, pp. 312-313.

[32] Ivi, p. 313.

[33] μέλλω: stare per, essere sul punto di, volere, pensare, proporsi di, dovere, potere. Ma pure indugiare, temporeggiare, esitare.

[34] M. Cacciari, Metafisica concreta, cit., p. 320, nota.

[35] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II (Sull’utilità e il danno della storia per la vita – Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben, 1874), in «Opere», III/I, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1972, p. 264.

[36] Cfr. Cfr. R. Bodei. III. Hölderlin: «Rerum novarum cupiditas»La pressione dell’ignoto, in Id., Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Einaudi, Torino 1987, pp. 85-92.

[37] M. Cacciari, Metafisica concreta, cit., p. 323.

[38] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), § 53, trad. di A. Marini, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2006, pp. 735-753. Ivi, p. 743: «La morte è la più propria possibilità dell’esserci. L’essere-a essa dischiude all’esserci il suo più proprio poter essere, nel quale importa dell’essere dell’esserci come tale».

[39] M. Cacciari, Metafisica concreta, cit., p. 325.

[40] Ivi, p. 326.

[41] Ibid.

[42] Cfr. ivi, p. 380.

[43] Cfr. ivi, p. 383.

[44] Cfr. ivi, p. 385.

[45] Cfr. ivi, p. 386.

[46] Cfr. ivi, p. 393.

[47] Cfr. ivi, p. 395.

[48] Cfr. ivi, p. 397.

[49] Ivi, p. 387.

[50] Ivi, p. 403.

[51] Ivi, p. 409.

[52] Ivi, p. 412.

[53] Ibid.

[54] Ivi, p. 414.

Lascia un commento