Redimere la deiezione. Perfect Days di Wim Wenders

di Enrico Palma

 

Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.

Mt 6, 34

 

L’effetto che questo film produce nello spettatore non avrebbe potuto essere descritto meglio da come fa Danilo Breschi: «Non capita sempre di uscire dal cinema trasformati. Anzi, accade di rado. Al più, oggigiorno, si esce frastornati, inquietati, angosciati, dalla visione di un film. Ma è, in fondo, gioco facile, ormai. Basta spingere sullo spirito del tempo che ci attanaglia giorno e notte. Assai meno frequente, quasi rarissimo, uscire dal cinema istruiti. Sì, nel senso di addestrati a vivere meglio, con maggiore consapevolezza, persino con più gusto, se non con gioia. Addirittura»[1]. E Breschi coglie ancora nel segno quando accosta l’esercizio esistenziale di questo film a quello che ciascuno di noi, consapevolmente o no, tenta di fare ogni giorno: redimersi. È quindi un sottilissimo invito alla redenzione che questo film struttura e suggerisce, una poetica dell’eternamente ritornante non come gabbia della vita bensì come fattore sprigionante, che riscatta dal negativo. Un elogio del quotidiano, direbbe il Todorov che passa in rassegna la pittura di interni del glorioso Seicento olandese.

Una vita minima. Questo si potrebbe dire dell’esistenza che conduce Hirayama. Uno scarto immondo della ferocia sociale e delle megalopoli alienanti come Tokyo, nella quale, comunque, resiste la possibilità che possa nascere e durare una primula di luce. Il suo lavoro è forse tra i più degradanti che si possano mai svolgere: pulisce i bagni pubblici sparsi per la città ma con una solerzia, una metodica e una disciplina talmente ammirevoli da apparire, almeno inizialmente, del tutto incomprensibili. Un lavoro insensato, per di più, come sostiene il suo collega piagnucoloso e approfittatore Takashi, «superficiale», perché tanto i bagni, si sa, si sporcheranno di nuovo, sempre. Tuttavia, come il Sisifo del mito, Hirayama combatte contro il sudiciume, risospinge ogni giorno la sua pietra, divenendo una metafora dolente ma profondamente vera dell’esistenza umana, quella che ognuno di noi conduce: opporsi, resistendo con geometria e ordine, alla deiezione, allo scadere della vita nel suo naturale rovinio verso la fine, di cui ogni giornata è unità elementare del ritmo.

Cogliendo giustamente la lezione del cosiddetto secondo Heidegger, di Holzwege e Vorträge und Aufsätze, Breschi indica ancora la dinamica soggiacente al film con una splendida enunciazione: «Il luogo della deiezione, se accudito e trattato con cura, si trasforma in luogo della redenzione»[2]. Questo luogo non è solo il bagno pubblico – a cui nella cultura giapponese si attribuisce particolare enfasi –, è il mondo nella sua totalità, insieme alla vita immersa in esso. Trasformare la deiezione esistenziale in forma luminosa è il compito che la vita deve darsi se vuole redimere se stessa. L’acribia di Hirayama si configura quindi come una via verso la salvezza.

La vita di Hirayama è scandita da una cadenza sempre uguale, una routine che sembra salvarlo da un passato di cui solo nell’incontro con la sorella si conosce qualcosa. Forse proviene da una famiglia benestante, ma a prescindere dalle ragioni che l’hanno ridotto (o indotto) a quella vita parca e umilissima e dalla pietà che si può leggere sul viso della sorella apprendendo della sua condizione, sapere la motivazione di fondo non importa per nulla rispetto alla forma che Hirayama ha deciso di assegnare alla sua esistenza. Si sveglia per il rumore di una scopa, arrotola materasso e lenzuola, si lava i denti, annaffia i germogli, si veste, esce di casa, guarda grato il cielo sospirando di soddisfazione, compra una lattina di caffè, ne beve un sorso nel furgoncino e inizia così la sua giornata, ascoltando i grandi classici della canzone anglofona degli anni ’70. Sembra quasi che Hirayama abbia con sé uno di quei condizionatori d’umore Penfield concepiti genialmente da Philip Dick, anzi che sia lui il condizionatore di se stesso.

Un invisibile. Questi sono il suo essere e il suo compito, pulire dove gli altri sporcano; un’igiene che però, come mostra Hirayama, è quella generalissima che compiamo ogni giorno, dopo i sogni inquieti che separano la sera dalla mattina, continuando, estenuandoci, a vivere.

La sua vita, per certi aspetti, appare persino invidiabile. Un’esistenza appagata, contenta, serena, regolata, un’algebra vitale che pur non essendo ovviamente infallibile riesce però a portare avanti. È commovente vederlo godere degli attimi estetici a cui si concede: la bellezza dei raggi del sole che attraversano le fronde degli alberi mentre stormiscono (in giapponese komorebi, letteralmente «luce che filtra tra gli alberi»), che coglie con la sua macchina analogica; il benessere della pulizia nei bagni pubblici dove si ristora; il drink che beve nel solito locale come premio di «una faticosa giornata»; e infine il giorno di riposo, quando sviluppa le sue fotografie per poi riporle in delle scatole, cambia il rullino alla macchina, lava i vestiti in lavanderia, gira in bici, visita il suo locale abituale, va a comprare un nuovo libro; e la lettura, l’ultima cosa che fa prima di dormire, il gesto che in modo assolutamente non casuale chiude la sua giornata.

Alberto Giovanni Biuso giustamente ricorda la dimensione solitaria, quasi la regola monastica, di Hirayama, quella che si addice allo studioso che ripiega nella solitudine per cogliere e trasformare il mondo nella comprensione avvenuta nel concetto, la Umkehr che era già di Hegel, Kafka e Benjamin: «Un proverbio latino recita O beata solitudo, o sola beatitudo. Una beata solitudine come condizione della gioia. E questo nel gioco di oscurità e luce che sono i giorni umani, le ombre, komorebi»[3]. Una solitudine a confine con l’isolamento, da tutto ciò che si direbbe tipicamente umano e ritenuto fondamentale per la pienezza, dal successo professionale da ricercarsi a ogni costo a una relazione sentimentale stabile in cui riporre il proprio basamento. Ma Hirayama è lontano da tutto ciò. Hirayama basta da sé a se stesso. La sua esistenza è autofondata.

Si direbbe quindi una vita perfetta poiché perfettamente disciplinata. Certo, Hirayama ha più disciplina, tutto sembra più stereotipato rispetto alla cosiddetta normalità, ma non è niente di lontano dall’esistenza di ogni persona comune, dalla quotidianità media. Con la differenza, sostanziale e decisiva, che dai giorni perfetti di Hirayama traspare una sincera pienezza, una serenità realmente gioiosa. Come scrive Marco Belpoliti: «Parla pochissimo, solo a gesti del capo – si inchina, annuisce e poco altro –, in compenso sorride ed è il sorriso uno degli elementi centrali della sua personalità. Incarna in qualche modo l’aspetto dell’umiltà, virtù in cui si manifesta l’amore per il mondo, per le cose così come sono, ma anche la consapevolezza della propria parzialità. Hirayama non è modesto ma appunto umile, come il lavoro di lava cessi cui si dedica con costanza e precisione»[4]. Quella di Hirayama è un’amorevole abitazione nel limite dell’essere, consapevole della finitudine inestirpabile ma capace del difficilissimo gesto della riconoscenza verso l’esistente comunque sia e dello sconfinamento negli attimi di rara bellezza tra le maglie di questa geometria armonica del quotidiano.

Eppure, il film di Wenders mostra con chiarezza che i giorni perfetti sono tali poiché accolgono al loro interno la ferita dell’imperfezione, lo divengono soltanto a condizione di accettare questo dato di fondo, come ammette lo stesso Hirayama giocando a calpestarsi le ombre con l’ex marito della proprietaria del locale al quale resta poco da vivere, e cioè che niente può rimanere così com’è senza cambiare, pena l’assurdità. Il divenire è ontologico, bisogna riconoscerlo, allo stesso modo della necessaria ortocronia esistenziale che bisogna costruirsi, una cairologia in cui consiste infine la saggezza di vivere, di dare a ogni cosa e a ogni momento il proprio tempo, giacché, come dice alla nipote Niko, «un’altra volta è un’altra volta, adesso è adesso».

La presenza della vita a sé produce ombra, ma in un onesto momento di comunione inter-umana, di condivisione reciproca del proprio malessere per sostenerlo meglio nel dono che l’alterità a volte rappresenta, si può tentare di danzare, di giocare, di eludere la tenebra, come lo sguardo di Hirayama rivolto verso l’alto teso a cogliere il lucore dei raggi del sole tra gli alberi, gli stessi di cui, come dei frammenti di sereno, raccoglie i germogli per farli crescere dentro la propria casa, ovvero dentro di sé, per mettere radici nella luce.

Giunge sempre l’evento perturbante, dal licenziamento di Takashi all’arrivo della nipote, fino alla rivelazione della presenza di qualcuno nella vita della donna di cui forse è innamorato. Anche Hirayama è vittima della pesantezza, dello sconforto e del disgusto di vivere, anche a lui capita di desiderare di annullarsi, di fare uno strappo alla sua logica incrollabile per ubriacarsi e fumare, secondo quel principio per cui fa bene, una volta tanto, farsi del male. La vita è possibilità del sereno e finestra voluta di gioia, ma dopotutto, come aveva intuito Freud, è anche il perturbante.

Sulle note di Feeling Good di Nina Simone, dopo le vicissitudini dei giorni passati, Hirayama riprende la sua giornata, l’abitudine che lo salva, vivere ogni giorno come se fosse il primo giorno di un cerchio senza fine. Sorride, ma alterna degli istanti in cui l’espressione si rabbuia, come se ci fosse una tensione tra la gioia e il dolore, tra la serenità e il pianto, il pendolo oscillante che era già di un passo celebre di Schopenhauer. Anche nella vita minima di Hirayama, e per questo molto più preziosa poiché concettualmente più trasparente, accade tale tensione, si mostra il suo vero valore: cioè che la vita è quella che è, e, per dirla con un ossimoro, solo la ricerca sempre precaria e mai quieta della serenità può renderla alla fine accettabile. A tal proposito, Sarah Dierna coglie uno dei significati più profondi di questa mirabile estetica del quotidiano: «I giorni diventano perfetti quando si accetta che siano imperfetti e si rinuncia quindi alla perfezione. In quell’esatto momento essi appaiono sereni, nonostante tutto»[5]. È vero che, in qualche modo, la rinuncia rasserena, riassetta l’esistenza nella dimensione che le è più propria e, prudenzialmente, più sostenibile. Ma parlerei qui di ideale – appunto – regolativo, di un metodo, anche nel significato letterale di via da percorrere, che la vita dà a se stessa per reggersi nella razionalità di una via, che ha il suo senso nel suo stesso procedere ordinato.

Una questione di igiene, quindi. Lavare la propria circostanza, il ci del proprio trovarsi, con ordine, impegno, cura e pazienza dalle scorie dell’imperfezione, dalla pena, dal dolore e dall’afflizione che ogni giorno reca con sé. E ciò nonostante apprezzare. Come la vita infima di Hirayama, che sembra niente ed è invece tutto.

 

 

[In foto la stazione centrale di Berlino vista dai giardini del Reichstag]

[1] D. Breschi, L’occhio di Wenders redime i giorni uguali ai giorni, in «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee», 30.07.2024, https://ilpensierostorico.com/occhio-di-wim-wenders/, consultato il 23.08.2024.

[2] Ivi.

[3] A.G. Biuso, Komorebi, 6.03.2024, https://www.biuso.eu/2024/03/06/komorebi/, consultato il 23.08.2024.

[4] M. Belpoliti, Ombre e gabinetti. Perfect Days di Wim Wenders, in «Doppiozero», 11.01.2024, https://www.doppiozero.com/ombre-e-gabinetti-perfect-days-di-wim-wenders, consultato il 23.08.2024.

[5] S. Dierna, Perfect Days di Wim Wenders, in «Vita pensata», 30, maggio 2024, pp. 184-186, qui p. 186.

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