di Alberto Giovanni Biuso
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- βίος
Ci sono degli eventi che molte culture umane, e anche il senso comune, definiscono sacri. Tra questi vi è il nascere e il morire dei membri della nostra specie. Il lavoro e l’atteggiamento filosofico non sottostanno e non obbediscono a nessun valore o significato assoluti, costituendo invece un incessante interrogare critico. Proviamo dunque ad analizzare lo statuto di sacralità del nascere e verifichiamo se esso conferma questa sua natura o la perde. La filosofia consiste infatti anche nel vedere il mondo come si presenta a uno sguardo antropodecentrico, nella prospettiva dell’intero, della quale la ζωή, la vita in quanto tale, è parte insignificante.
Anzitutto la biologia, le scienze biologiche. La generazione di un nuovo vivente negli animali, e nei mammiferi in particolare – classe di vertebrati alla quale Homo sapiens appartiene, pur tendendo spesso e in modo bizzarro a scordarsene – è frutto dell’incontro casuale tra un ovulo e uno spermatozoo, due cellule gametiche (femminile e maschile) dalla cui fusione si produce lo zigote e da qui l’embrione, poi il feto e infine il neonato. I notevoli rischi che in questo processo qualcosa non funzioni, producendo aborti o entità malformate, è di per sé indice del fatto che il nascere non è un evento sereno. Quel che è certo è che anche quando tutto funziona e va a buon fine rimane il fatto che «ogni essere umano è il prodotto del tempo e del caso – e gli episodi chiave sono le vite di tutti i suoi antenati. A una scala ancora più piccola, anzi microscopica, dobbiamo il nostro patrimonio genetico al fato, pressoché casuale, di un singolo spermatozoo»[1].
La situazione diventa oggettivamente dolorosa al momento del parto, momento che per millenni ha prodotto numerose morti nelle femmine generatrici della nostra specie. Le morti per parto sono diminuite e tuttavia rimangono costanti il dolore della partoriente, la sofferenza che si protrae anche per ore – a meno di un taglio cesareo, vale a dire di un intervento chirurgico – con effetti che le donne che l’hanno provato definiscono indescrivibili.
E pertanto una domanda: se il nascere fosse un processo del tutto iscritto nelle leggi della natura, come la caduta di un grave nel vuoto ad esempio, sarebbe così doloroso, incerto e pericoloso?
Una volta nato, il cucciolo della specie umana – diversamente, in questo, da quelli di altri mammiferi (non parliamo poi dei rettili o dei pesci) – costituisce un’entità che dipende in modo assoluto dagli esemplari adulti, senza l’accudimento costante e completo dei quali morirebbe in poche ore. Come mostrano l’antropologia (anche quella filosofica di Gehlen, ad esempio) e la biologia umana (di Lorenz e di Eibl–Eibesfeldt), il periodo neotenico, quello cioè nel quale il cucciolo umano dipende in tutto dagli individui adulti, ha una durata lunghissima e abnorme, che si misura in anni, se non in decenni[2].
Una volta diventato adulto (ma naturalmente anche prima), ogni esemplare di Homo sapiens è sottoposto a difficoltà di tutti i generi, a malattie psicosomatiche, ad angosce esistenziali, a una costante insecuritas sulla propria sopravvivenza e a un costante disagio nel proprio quotidiano. Insicurezza e disagio che dipendono certamente anche dalle circostanze storiche e dai contesti sociali nei quali si nasce e si vive ma che di fatto sono universali, variando la gradazione del soffrire e non la sua inevitabilità.
Formulare e moltiplicare degli esempi di tale insecuritas, sofferenza e disagio significherebbe utilizzare inutilmente lo spazio di queste pagine. È sufficiente che il lettore ponga mente e memoria agli anni che ha vissuto sinora, alla propria condizione attuale e a ciò che sa dei suoi simili, per trovare prova e verifica di quanto sta qui leggendo. Se in genere accettiamo o sopportiamo tale condizione incerta, dolorosa e fugace, è perché o cerchiamo di non pensarci – negando in questo modo il meglio della natura umana: la riflessione su quanto ci accade – o pratichiamo strategie di stordimento o valutiamo il vivere come un concetto astratto, evitando di soffermarci sul dettaglio dell’esistenza quotidiana, di solito non particolarmente piacevole. È quanto afferma con chiarezza e vivacità Emil Cioran: «Alla vita in generale noi accordiamo un sì che le rifiutiamo sempre in particolare. La sopportiamo in quanto totalità, benché essa non sia che una somma di intollerabile. È la superstizione di un sole in un destino di tenebre»[3].
- Strategie
Le strategie per far fronte a tale condizione, per sopportarla, sono numerose e diverse. Possiamo sinteticamente indicare fenomeni e strutture universali e molteplici che definiamo con i nomi di morali, filosofie, arti, religioni, tecniche, alle quali sono da affiancare atteggiamenti piuttosto diversi quali la violenza in generale e l’aggressività; le molteplici forme dell’inganno – verso se stessi e verso gli altri –; l’infliggere sofferenza senza scopo; la brama del denaro e del potere come se da questo accumulo potesse derivarne per la persona una qualche forma di garanzia dalla furia del dissolvimento; il disprezzo verso l’amore che si riceve e che spesso viene utilizzato contro chi ama; la risposta con uno schiaffo al candore e alla tenerezza; la pratica dell’umiliazione altrui per il piacere di umiliare; la furia dei molti contro uno; il godere delle sciagure altrui se portano all’individuo qualche minimo vantaggio o anche se non gli portano niente; la generale ferocia di cui la nostra specie è capace.
Di fronte a tali pratiche e atteggiamenti, davanti a simili strategie, è inevitabile concordare con le parole di uno dei massimi drammaturghi e narratori del Novecento: «La vita è un’incredibile carognata della natura, un’oscura aberrazione del carbonio, un’escrescenza maligna della superficie terrestre, una rogna incurabile. Composti di cose morte, ci decomponiamo in cose morte»[4]. Direi che nulla è da aggiungere, e nulla è da togliere, a una definizione della vita così esatta, così vera.
La vita animale è tutta infatti particolarmente ostica rispetto ad esempio alla vita dei vegetali, i quali non avendo sistema nervoso non hanno sensibilità e quindi se possiedono gli impulsi verso la luce e verso i liquidi, nel caso in cui non ottengano i risultati ai quali tendono non cadono nella disperazione e nel tormento.
Una differenza ancora più grande segna la vita animale rispetto all’inanimato e all’inorganico poiché sembra plausibile che la vita sia «una sollevazione dentro l’inorganico, uno slancio tragico dell’inerte: la vita è la materia animata e, bisogna pur dirlo, rovinata dal dolore. A tanta agitazione, a tanto dinamismo e a tanto affanno, non si sfugge se non aspirando al riposo dell’inorganico, alla pace in seno agli elementi»[5].
Una pace che è ben chiara ad esempio a Sāriputta, discepolo del Buddha, convinto che il Nirvāna sia felicità, «e quando gli si obietta che non ci può essere felicità laddove non vi sono sensazioni, Sāriputta risponde: ‘La felicità sta appunto nel fatto che in essa non v’è alcuna sensazione’»; Cioran ne deduce che «il paradiso è assenza dell’uomo»[6] ma direi che bisogna andare anche al di là di tale forma di antropocentrismo e riconoscere che il paradiso è assenza di ogni animale, di ogni dispositivo in grado di provare dolore ed esserne consapevole.
- Una tragedia ridicola
Bisogna quindi riconoscere che lungi dal costituire un privilegio, un primato o addirittura una manifestazione del sacro, l’evento della nascita animale e umana è una variante sfavorevole rispetto alla assenza di sensibilità, di dolore e di angoscia che invece caratterizza l’inorganico, vale a dire – e questo è un elemento assolutamente fondamentale – l’esistenza dell’intero, della materia cosmica che si genera, perisce e si trasforma nella immensità del cosmo, rispetto alla quale il nostro pianetino e i fenomeni che in esso accadono sono il nulla, sostanzialmente il nulla. E dunque è già troppo affermare che «il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara»[7]; il vivente è in realtà un frammento del tutto insignificante della materia. E pertanto la convinzione di essere e rappresentare il dominatore, il significato e il vertice del cosmo (ritenendo addirittura che un qualche dio si sia sacrificato per la specie umana) non può che essere qualificata come patetica, per non dire grottesca. Alla fine ci vuole un poco di misura in tutto, anche nell’inevitabile narcisismo che fa ritenere a ogni entità sensibile di essere la più importante di tutte. È dunque vero che
ci dovrebbero essere creature dotate di spirito più di quanto non siano gli uomini anche solo per gustare a fondo l’umorismo insito nel fatto che l’uomo si considera lo scopo dell’intera esistenza del mondo, e l’umanità è veramente soddisfatta solo se può assegnarsi una missione mondiale. […] La nostra unicità nell’universo! Ohimè, è una cosa fin troppo inverosimile! […] La goccia di vita che è nel mondo è senza importanza per il carattere del mostruoso oceano di divenire e trapassare: […] [ci sono infiniti astri] che non hanno avuto la vivente eruzione o che ne sono da lungo tempo guariti; […] la vita su ognuno di questi astri, misurata sulla durata della sua esistenza, è stata un attimo, una vampata con lunghi spazi di tempo dietro di sé, e dunque in nessun modo la meta e lo scopo ultimo della sua [della terra] esistenza[8].
L’atteggiamento sintetizzato in queste affermazioni di Nietzsche è lo sguardo capace di vedere e apprendere senza infingimenti il reale, capace di preferire il comprendere sullo sperare, l’osservare sul credere, capace di mettere in atto la luce della razionalità rispetto alle nebbie di consolazioni effimere e fallimentari. Di fronte a questa oggettività, le autorità di ogni natura – politica, religiosa o morale – tendono invece a incoraggiare la speranza e la fede nella sacralità dell’esistere. Si tratta però di strutture dell’illusione, pur se necessarie all’ordine costituito. Tale ordine si fonda infatti sempre su una morale, su una qualche morale. E quasi sempre tale morale ha come elemento centrale la necessità della procreazione, della diffusione della specie, del numero di umani da utilizzare e sui quali esercitare l’autorità. Umani che servano a produrre, a obbedire, a combattere e a morire nelle innumerevoli guerre che costellano la storia umana.
Per rendersi conto di tutto questo e accogliere la non generazione come rimedio nei confronti del male, del potere e della morte bisogna che non si predichino speranze ‘sostenibili’ e ottimismi antropologici e si colga invece nell’umano l’universalità del limite e del dolore che sono intrinseche all’esistere di una parte di materia consapevole del dramma, una parte di materia che in ogni suo esemplare è venuta al mondo senza averlo voluto e che dello stare al mondo subisce ogni giorno l’inquietudine e il soffrire. L’esserci di tale specie si configura come una colpa che non ha nulla di etico e di moralistico ma costituisce una struttura ontologica, quella per la quale a molti Greci antichi fu assai chiaro che «non nascere è la cosa migliore di tutte (ἄριστον πάντων)»[9]. La temporalità dell’umano è costituita infatti di costanti biologiche e metafisiche che nessun sommovimento storico e sociale può trasformare alla radice ma soltanto, se e quando ci riesce, rendere meno dolorose.
- Entropia e DNA
Non è soltanto alla trascurabile componente biologica del mondo che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, dell’entropia, della metamorfosi, del divenire.
La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel tentativo, destinato sempre allo scacco, che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte:
Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte[10].
Il fondamento di questo tentativo, insieme biologico e metafisico, di sopravvivere è il negativo. Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere[11], una forza della quale il nascere è soltanto manifestazione, espressione e condanna.
Il vivente è infatti un’entità molto strana, che per certi versi sembra sfidare le leggi della fisica. Entità strana già a partire dal tentativo di definirla. Non è affatto facile circoscrivere un vivente e distinguerlo strutturalmente dal non vivente, non è facile trovare un limite netto e chiaro tra questi due modi dell’essente. Jacques Monod individua le tre proprietà fondanti del vivente nella teleonomia, nella morfogenesi autonoma e nella invarianza riproduttiva. Un’altra caratteristica fondamentale è che il vivente non è mai statico, le strutture che lo compongono sono gli atomi e le molecole, che condivide con il non vivente, e le cellule che invece costituiscono la sua specificità. Le cellule rappresentano una struttura sempre in movimento, sempre in divenire, guidata dai tre processi centrali dell’evoluzione: replicazione, mutazione e selezione.
A questa ontologia la scienza biologica è pervenuta sulla base di ciò che Monod definisce il postulato dell’oggettività della Natura, che consiste nel rifiuto di ogni causa efficiente volontaristica e di ogni causa finale provvidenzialistica. Si tratta di uno sforzo teoretico e metodologico enorme poiché il presupposto che l’accadere, in particolare quello umano, sia mosso da una qualche volontà consapevole, potente e saggia che lo guida al fine di raggiungere il destino che da sempre tale volontà ha stabilito per lui, è il presupposto stesso sulla base del quale sono nate la cultura umana e le sue manifestazioni: miti, religioni, etiche, progetti politici, filosofie e le scienze stesse. La consapevolezza di questa dinamica millenaria non nasconde però che la credenza teleologica e provvidenzialistica è caratterizzata da alcuni elementi razionalmente inaccettabili e di fatto privi di fondamento.
Questo elemento è anzitutto l’antropocentrismo, che si dirama poi come vitalismo e animismo. Ma è evidente, e sensato, che l’universo non esiste certo per generare la vita né la biosfera esiste per produrre Homo sapiens.
Una prospettiva vitalistica implica invece sia la centralità dell’umano sia, in generale, una distinzione radicale tra l’essere dei viventi e l’essere degli enti inanimati. Immersi in un mondo nel quale alcune entità costituivano un pericolo, altre una risorsa e altre ancora – montagne, fiumi, nuvole – apparivano incomprensibili perché indifferenti e prive di volontà, i nostri antenati ebbero la necessità di attribuire anche a tali enti consapevolezza e capacità di agire in vista di fini.
Questa è una delle principali ragioni e radici dell’animismo, un atteggiamento per nulla limitato alle forme preistoriche di approccio al reale ma che caratterizza invece tutte le grandi esperienze culturali e religiose, comprese alcune recenti come l’idealismo (dai romantici a Gentile), Teilhard de Chardin, il materialismo dialettico di Engels. In tutte queste prospettive (e ovviamente nell’ebraismo-cristianesimo), per quanto tra loro assai diverse, opera la certezza che il divenire umano segua delle leggi inscritte in un destino e rivolte a un futuro migliore del passato, che si tratti di un futuro trascendente e spirituale o immanente e storico.
Anche il paradigma evoluzionistico darwiniano ha corso gli stessi pericoli di caduta nell’animismo provvidenzialistico, sotto il nome di selezione naturale, una selezione volta al ‘miglioramento’ dell’umanità. Se in Darwin non si dà nulla di questo genere, in molti darwiniani invece sì. In realtà i viventi, umani compresi, sono dei dispositivi chimici e autopoietici, i quali si sviluppano dunque sulla base non di determinazioni esterne ma di programmi biochimici inscritti nelle cellule, programmi che permettono a ogni vivente di svilupparsi, replicarsi, lasciare una discendenza. Esattamente questo, la replicazione della stessa forma pur nella infinita variabilità degli individui, caratterizza il vivente, vale a dire le specie. Si tratta di un elemento fortemente e intrinsecamente teleonomico, senza essere però teleologico. Lo scopo infatti coincide con l’ente e con le sue strutture materiche, non sta al di fuori di lui, in nessuna volontà dell’ente stesso o di altre forze. Questo processo si chiama autopoiesi, vale a dire la costruzione di sé sulla base di istruzioni chimiche. Si tratta di un elemento che, tra le altre cose, costituisce l’unità del biologico poiché si trova in tutti i viventi, dal batterio a Homo sapiens, il quale anche da questa prospettiva non ha nessun particolare privilegio.
La domanda centrale diventa allora come sia possibile che sulla base degli stessi costituenti, sintetizzati con le medesime modalità, si dispieghi poi la stupefacente varietà delle specie e dentro le specie dei singoli loro membri. Qual è l’origine della diversità morfologica e fisiologica dei viventi? La risposta è stata trovata nel DNA. I costituenti universali sono infatti i nucleotidi e gli amminoacidi; su tale base biochimica non si dà opposizione tra immutabilità e varietà, tra Platone ed Eraclito, poiché le modificazioni che avvengono dentro un sistema possono accadere in quanto esso esiste e si costruisce tramite alcuni elementi fondamentali che non mutano mai pur nel mutare delle strutture che tali elementi di volta in volta costruiscono.
Il tempo delle strutture biologiche è fatto di mutazioni e perturbazioni che conducono i viventi inesorabilmente all’invecchiamento e alla morte anche per l’accumularsi nel tempo stesso di accidentali errori di traduzione nel DNA. È con questi processi e fenomeni che in biologia opera il secondo principio della termodinamica. ‘Caso’ non vuol dire ‘arbitrio’ ma significa la contingenza di ogni ente particolare e di ogni specifico evento – che avrebbero potuto esserci come non esserci, accadere come non accadere – all’interno tuttavia di una necessità ontologica data da alcune regole immutabili nella sfera del vivente.
La contingenza è accolta senza difficoltà dagli umani quando riguarda i sassi, gli alberi o i passeri ma non quando la si estende a loro stessi. Scatta a quel punto il riflesso antropocentrico e animistico che ci fa ritenere di esistere su un piano diverso rispetto a tutti gli altri enti, inanimati o animati che siano. «Noi vogliamo essere necessari, inevitabili, ordinati da sempre. Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, perfino una parte della scienza, sono testimoni dell’instancabile, eroico sforzo dell’umanità che nega disperatamente la propria contingenza»[12].
La necessità è inscritta anch’essa nei nostri geni come in quelli di ogni vivente ed è fatta di immutabilità, variazioni, entropia, discendenza e dissolvimento.
- Oltre la vita, la materia
Materia è un concetto e una realtà plurale, complessa, la quale da un lato è più che evidente e dall’altro rimane tuttavia enigmatica. Le sue caratteristiche principali sono la spazialità, la sensibilità e la corporeità. La materia è una struttura oggettiva e non una costruzione della mente né dei sensi. I quali permettono di conoscere la materia ma non certo di produrla in alcun modo. Una specificazione che al senso comune può sembrare (giustamente) ovvia ma che nella storia della filosofia e delle scienze ha trovato degli avversari che da Berkeley ai fenomenisti e alla interpretazione di Copenaghen della fisica quantistica fanno in modi diversi dipendere l’ontologia della materia dagli apparati percettivi di qualche mente.
Le concezioni più feconde hanno invece sempre riconosciuto con linguaggi e modalità diverse che la materia è la matrice di ogni ente, è l’universale ontologico il quale «οὐ καθ’ αὑτό, ἀλλ’ ἄφθαρτον καὶ ἀγένητον ἀνάγκη αὐτὴν εἶναι, né si genera, né si distrugge di per sé, bensì è necessariamente incorruttibile e ingenerato»[13] non soltanto e non tanto in senso statico quanto soprattutto come ciò che è sottoposto a continua δύναμις, alla possibilità di un mutamento che non ne annulla l’essere ma lo apre continuamente al divenire, alla trasformazione, alla μεταβολή. La materia è dunque intrinsecamente temporale e probabilmente coincide con il tempo stesso, proprio per la sua possibilità di divenire sempre nelle sue manifestazioni macroscopiche senza annullarsi mai nella sua struttura atomica e molecolare. Anche a causa di questa sua potenza – nei molteplici significati di tale parola – la materia non è separata dalla forma ma è la forma stessa nel suo essere capace di subire ogni modifica rimanendo sempre diversa dal nulla.
Nel suo resistere alle modifiche e nel non dissolversi quando le subisce, la materia diventa la struttura inerziale della meccanica classica. Nei diversi gradi e forme che vanno dalle monadi fossili e minerali, che divengono senza percezione, alla monade-anima, che percepisce il divenire, la materia diventa la mente leibniziana (e di molte altre prospettive) come materia consapevole di esistere. In quanto realtà oggettiva e ignota che si contrappone ma fa anche da fondamento alle forme soggettive e animali dello spazio-tempo, la materia è il noumeno, il quale è in realtà il presupposto di ogni pensare, anche di quello critico-kantiano; lo è anche per Hume, che non ha mai dubitato dell’esistenza materica degli enti fuori dalla mente, dandola invece per ovvia. La materia come energia è il fondamento dell’ontologia e della cosmologia relativistiche, a partire dalle quali si è ipotizzata e si indaga sempre più a fondo la cosiddetta dark matter. La materia oscura è infatti «oggi il problema numero uno dell’astronomia, e sta molto in alto anche nella lista dei problemi della fisica. […] Ormai ci siamo riconciliati con l’idea postcopernicana di non essere al centro dell’universo, ma adesso pare proprio che il nostro statuto cosmico debba essere ulteriormente degradato. Lo sciovinismo delle particelle deve scomparire: noi non siamo fatti della sostanza dominante nell’universo»[14].
Il progressivo, inesorabile e fecondo itinerario verso la riconduzione del vivente e dell’umano ai suoi limiti procede in questo modo veloce. Bisogna deantropizzare la cosmologia e questo vuol dire anche e specialmente debiologizzarla: osservare e valutare la vita per quello che è, nulla di rilevante. Il cosmo è fatto d’altro, che con la vita non c’entra nulla. È fatto appunto di atomi, è fatto di radiazioni, è fatto dell’onnipresente gravità/massa/energia, è fatto di materia chiara e oscura.
Due ipotesi tra le più feconde sulla natura e potenza della materia vengono da poli che sembrano opposti nel pensiero europeo: Lenin e Anassimandro. Lenin, come Engels, afferma in modo assai netto il primato ontologico e logico della materia su qualunque forma di coscienza, una materia sempre dinamica, ‘dialettica’, che coincide con la trasformazione stessa degli enti di ogni natura e struttura. Anassimandro sostiene l’autonomia integrale della materia/forma universale e il suo coincidere con l’essere stesso come infinita dinamica spaziotemporale.
Ἄναξίμανδρος…ἀρχήν…εἴρηκε τῶν ὄντων τὸ ἄπειρον…ἐξ ὧν δὲ ἡ γένεσίς ἐστι τοῖς οὖσι, καὶ τὴν φθορὰν εἰς ταῦτα γίνεσθαι κατὰ τὸ χρεὼν διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν.
Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo e il suo divenire…) Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo[15].
La materia è dunque l’essere che non dipende da null’altro e che invece è il fondamento di ogni ente e di ogni coscienza. Un essere mai generato e mai distruttibile, del quale ciascun ente finito, determinato e temporale è espressione, modalità, figura transeunte di ciò che non passa e che in questa sua potenza è il tempo stesso come αἰών.
- Il mondo è perfetto
La materia in quanto tale è l’eterno, la materia vivente è invece l’effimero, è ciò che chiamiamo morire, il cui statuto e necessità sono da sempre oggetto dell’indagine filosofica. Per molte ragioni Socrate non ha paura di morire. Una di esse è che gli è naturale pensare «che un uomo che abbia davvero trascorso la vita occupandosi di filosofia affronti la morte senza timori» e che la filosofia sia, debba essere, in gran parte una μελέτη θανάτου, una preparazione al morire[16].
Questa sapienza, questo distacco, questo scetticismo producono la singolare sensazione che Fedone riferisce all’inizio del dialogo: «Socrate, infatti, mi appariva felice»[17]. Felice e talmente tranquillo da ricordare a Critone, e furono le sue ultime parole, di essere «debitori di un gallo ad Asclepio; saldate il debito e non ve ne dimenticate»[18], vale a dire ringraziare il dio della medicina di averlo in quell’istante guarito dalla malattia che è l’esistere, dal morbo che ha contratto con la nascita.
Socrate è un eudemonista, non ha nessuna concezione sacrificale e neppure ascetica della vita, che ha trascorso esattamente come ha voluto e desiderato, dall’inizio alla fine. Se è così tranquillo mentre muore è anche perché ipotizza che una volta morto lo «attende uno stato di felicità, poiché si libera da errori, stoltezza, paure, pulsioni erotiche e, come si dice nel caso degli iniziati, trascorre il resto del tempo davvero in compagnia degli dèi»[19]. La filosofia di Socrate è una grande filosofia anche e soprattutto perché ha come obiettivo di combattere e sconfiggere il demone della nascita, come hanno tentato anche (per fare pochi altri nomi) Platone, Schopenhauer, Nietzsche.
Schopenhauer ritiene che la filosofia non sia una antropologia ma debba costituirsi come geologia e cosmologia: «Per questa ragione la filosofia deve rimanere una cosmologia e non può diventare teologia»[20]. Una cosmologia che ha la sua sintesi nelle parole iniziali di un breve testo nietzscheano:
In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire[21].
Un altro, precedente, incipit molto somiglia a quello antropodecentrico del testo di Nietzsche:
Infinite sfere luminose, brillanti di luce propria, nello spazio infinito; intorno a ciascuna, illuminate da esse, ruotano pressappoco una dozzina di sfere più piccole; queste ultime, calde all’interno, sono rivestite da una crosta indurita e fredda, sulla quale un rivestimento di muffe ha generato esseri viventi e conoscenti: è questa la verità dell’esperienza, il reale, il mondo. […] Accanto ad essi niente di costante, eccezion fatta per la materia e per il ripresentarsi, per mezzo di certe vie e di certi canali, delle stesse svariate forme organiche che, solo per una volta, vengono all’esistenza[22].
Questo è il punto di partenza di ogni metafisica che voglia essere ontologia e cosmologia, senza ripetere la patetica nenia della supremazia dell’umano in un mondo del quale Homo sapiens costituisce un irrilevante frammento. L’esistenza dell’umano non rappresenta nessuno scopo, vertice e giustificazione del mondo. Qual è infatti l’obiettivo ultimo della vita, della ζωή e del nascere?
Mantenere in vita per un breve lasso di tempo degli individui effimeri e tormentati, tenendoli nel migliore dei casi in una condizione di bisogno sopportabile e con una relativa assenza di dolore, alla quale però subentra subito la noia; e poi la perpetuazione del genere umano e del suo affaccendarsi. […] La volontà di vivere ci appare, considerata oggettivamente, come una follia, e considerata soggettivamente, come un’illusione della quale tutto ciò che vive diviene preda, che lo porta a esaurire le proprie forze mirando a raggiungere qualcosa che è del tutto privo di valore. Solo che, se esaminiamo le cose con maggiore attenzione, scopriamo anche in questo caso che essa è piuttosto una spinta cieca, un impulso del tutto privo di fondamento e di motivazione[23].
A guidare tale processo senza requie e senza senso è in gran parte il desiderio sessuale, espressione suprema e nucleo autentico della volontà di vivere, radice e motivo di ogni innamoramento – per quanto etereo e ‘spirituale’ esso possa apparire –, strumento tramite il quale l’esserci di ogni singolo vivente è preso in prestito dalla specie, la preservazione e perpetuazione della quale è il vero scopo della materia/natura/volontà per la quale gli individui acquistano senso soltanto a questo scopo universale e collettivo. Di tale scopo doloroso, e sostanzialmente insensato, la nascita è l’episodio fondamentale. Ecco perché è contro la nascita che deve pensare e agire ogni metafisica che voglia stare all’altezza della propria costituzione.
L’illusione che in vari modi vorrebbe radicare l’immortalità del singolo nel principio metafisico di una volontà eterna è, appunto, una forma della consolazione con la quale gli umani e non poche filosofie mostrano di ritenere impensabile la propria morte, una vera morte, e provano le strategie più varie, e certamente interessanti ma non per questo plausibili, per convincere il singolo vivente che o non sarà mai distrutto una volta che è venuto al mondo oppure, come nel caso di Schopenhauer, che c’è sempre stato e sempre ci sarà come congiunzione inseparabile di volontà universale e rappresentazione individuale, oppure che la morte sia soltanto apparenza, fase, tappa e passaggio verso il vero mondo dove non si muore mai.
Assai diversa e libera da ogni umanistica consolazione è la prospettiva della termodinamica e dei suoi primi due principi che coniugano la indistruttibilità della materia in quanto tale e la assoluta finitudine, definitiva finitudine, di ogni specifica conformazione della materia, di ogni sua espressione individualizzata e temporale, soprattutto e prima di tutto la conformazione organica, animale, umana, quella che accade nell’istante della generazione e si rende visibile nel momento della nascita.
Radicate sul terreno della stringatezza ellenica, al modo della risposta di Sileno a Mida riportata da Teognide, sono alcune tesi schopenhaueriane come quelle che di fronte al morente constatano che sta per cessare qualcosa che non avrebbe dovuto mai cominciare e che proprio per questo è destinata inevitabilmente a finire, anche per la ragione universale che «il mondo è qualcosa che in fondo non dovrebbe essere»[24] purché si limiti la portata e il significato di tale affermazione al minuscolo mondo dei viventi sul pianeta Terra o su altri nei quali sia apparsa la medesima deviazione dalla perfezione della materia.
Tale mondo nella sua durata effimera e – lo ripeto perché è un punto fondamentale – limitata a quanto accade da qualche milione di anni agli abitatori di un pianetino tra i tanti, è in realtà un’insignificante espressione della vera potenza dell’essere. Tale potenza è il nulla nell’esatta forma del divenire.
Saggezza è quindi benedire il nulla dal quale proveniamo come forma individuale e il nulla al quale torneremo quando tale forma scioglierà i suoi effimeri legami; in quel momento le sue componenti atomiche e molecolari prenderanno altre conformazioni, diverse da quelle che ora e per una breve durata ci costituiscono.
Un fondamento metafisico del mondo sta pertanto nel fatto che la realtà, tutta la realtà, è distruzione. È questa un’affermazione lontana da ogni ‘pessimismo’ o atteggiamento ‘apocalittico’ ma significa semplicemente comprendere la struttura e la dinamica di ogni ente materico e la velocità con la quale tale dinamica si presenta e accade negli enti organici. Si tratta semplicemente della potenza della materia e dell’entropia che la intesse, del fatto dunque che niente sia e tutto divenga, un tutto che consiste nella incessante distruzione e trasformazione, di ogni ente, evento e processo. Dentro questa ontologia gli umani e tutti i viventi sono poco più di niente, costituiscono il risultato di una mescolanza di liquidi, di gameti, di composti cellulari. Questo, nulla di più, significa nascere. E questa è «la malattia più perversa, un flagello più iniquo della peste, è quella che si trasmette col seme e, generando, riempie di ‘dannati’ la terra. Questo è il virus più nefando»[25] anche per la ragione, a tutti ben nota, che si tratta di un virus dalle conseguenze letali sempre.
Chi genera un umano genera un condannato a morte. Il quale non soltanto morirà ma lungo tutto il corso del suo esistere dovrà sostenere difficoltà, inquietudini, malattie, pianti. Una simile azione non può che essere definita come frutto di egoismo supremo. Certo, essa viene compiuta in obbedienza a un potente ordine del βίος, dell’impulso che guida ogni entità vivente a riprodurre se stessa e tramite se stessa far sopravvivere la specie alla quale appartiene. Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molto consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte.
Che anche il Sole, come ogni altra stella, sia destinato a morire e morirà, che ogni conformazione delle cose sia un’infinita μεταβολή che ovunque splende e che soltanto negli enti sensibili, in particolare nei nati da donna, diventa dolore, è una notizia luminosa, perché è la verità.
Il mondo in quanto tale, al di là dei viventi, è un’energia e un destino che accadono senza dolore, come senza dolore esistono e accadono «la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui»[26]. Il mondo è perfetto ovunque non ci sia nascita organica ma si dia la potenza senza dolore della materia e del tempo.
[In foto la Nebulosa dell’Aquila (M16)]
[1] M. Rees, Il nostro ambiente cosmico, trad. di G. Rigamonti, Adelphi, Milano 2004, p. 172.
[2] Si tratta di una dinamica che Leopardi chiarisce in modo assai efficace: «Nasce l’uomo a fatica, / Ed è rischio di morte il nascimento. / Prova pena e tormento / Per prima cosa; e in sul principio stesso / La madre e il genitore / Il prende a consolar dell’esser nato. / Poi che crescendo viene, / L’un e l’altro il sostiene, e via pur sempre / Con atti e con parole / Studiasi fargli core, / E consolarlo dell’umano stato: / Altro ufficio più grato / Non si fa da parenti alla lor prole» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in Canti, a cura di G. Ficara, Mondadori, Milano 1987, vv. 39-51, p. 166).
[3] E. Cioran, Finestra sul nulla, a cura di N. Cavaillès, trad. di C. Fantechi, Adelphi, Milano 2022, p. 29.
[4] F. Dürrenmatt, La meteora, in «Teatro», a cura di E. Bernardi, Einaudi-Gallimard, Torino 2002, p. 724.
[5] E. Cioran, La caduta nel tempo, trad. di T. Turolla, Adelphi, Milano 1995, p. 85.
[6] Ivi, pp. 56 e 79.
[7] F.W. Nietzsche, La gaia scienza, in «Opere», Adelphi, Milano 1964 e sgg., vol. V tomo 2, trad. di F. Masini, af. 109, p. 118.
[8] Id., Umano, troppo umano II, in «Opere», cit., vol. IV tomo 3, trad. di S. Giametta, parte seconda Il viandante e la sua ombra, af. 14, pp. 141-142.
[9] Aristotele, Eudemo o dell’Anima, in I dialoghi, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 2018, p. 159.
[10] G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, Milano 2008, § 370, p. 363.
[11] Id., Die Phänomenologie der Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27; trad. di E. De Negri, La fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1985, vol. I, p. 26.
[12] J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, trad. di A. Busi, Mondadori, Milano 2022, p. 46
[13] Aristotele, Fisica, I,9, 192a, 28-29.
[14] M. Rees, Il nostro ambiente cosmico, cit., p. 91.
[15] Anassimandro, in Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13; DK, B 1.
[16] Platone, Fedone, a cura di F. Trabattoni, trad. di S. Martinelli Tempesta, Einaudi, Torino 2011, 63e, p. 31 e 81a, p. 115.
[17] Ivi, 58e, p. 9.
[18] Ivi, 118a, pp. 268-269.
[19] Ivi, 81a, p. 115.
[20] A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», a cura di G. Brianese, Einaudi, Torino 2013, p. 780.
[21] F.W. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in «Opere», cit., vol. III tomo 2, trad. di G. Colli, p. 355.
[22] A. Schopenhauer, Supplementi, cit., p. 7.
[23] Ivi, p. 465.
[24] Ivi, p. 735.
[25] M. Sgalambro, Trattato dell’età. Una lezione di metafisica, Adelphi, Milano 1999, pp. 41-42.
[26] S. D’Arrigo, Horcynus Orca, Rizzoli, Milano 2003, p. 638.