di Giovanni Altadonna
Ecco lo stato delle cose: dopo lo spaventevole disastro di Messina e la morte di dodicimila persone, non restava alcun asilo per gli altri abitanti, in numero di trentamila. La maggior parte delle case erano crollate, le altre, tutte lesionate, non presentavano alcuna sicurezza. Ci si affrettò, quindi, a costruire, al nord di Messina, in una grande pianura, una città di legno […]. Da tre mesi sono alloggiati in tal modo e questa vita di baracche, di capanne e anche di tende, ha esercitato, sul carattere degli abitanti, una influenza decisiva. L’orrore della spaventosa catastrofe, la paura di vederla rinnovata, li porta a godere spensieratamente dei piaceri del momento.[1]
Questa è la descrizione di Messina che Goethe fornisce in occasione della sua visita nella città dello Stretto, avvenuta quattro anni dopo il tremendo terremoto del febbraio 1783 che l’aveva rasa al suolo, devastando altresì gran parte della Calabria meridionale. Esso costituisce un evento fondamentale nella storia della città mamertina; dal momento che accelerò ulteriormente il processo (cominciato con la soppressione della rivolta antispagnola del 1674-78, continuato con l’epidemia di peste del 1743) della sua graduale perdita di importanza e di prestigio a favore di Palermo, che già a metà del XVIII secolo si affermava indiscutibilmente come la città più importante della Sicilia, soprattutto a livello demografico; ciò avvenne per vari motivi, non ultimo una serie di ingenti privilegi fiscali e amministrativi estorti dalla nobiltà locale ai viceré[2].
Perché la città di Messina, a quattro anni dalla catastrofe, appariva ancora come un cumulo di macerie, con gli abitanti costretti a vivere in baracche, capanne e tende? La risposta a tale quesito investe fenomeni, quali il carattere delle feste religiose in Sicilia e il parassitismo della classe dirigente siciliana, apparentemente molto distanti, ma in realtà profondamente interrelati da un fil rouge che potremmo sintetizzare come lo “scacco di Caracciolo”, ovvero il fallimento dell’assolutismo illuminato in Sicilia.
- Il Settecento in Sicilia
Al fine di addentrarci nelle complesse, e sorprendentemente “attuali”, cause dell’arretratezza della Sicilia di metà Settecento, occorre tracciare, a grandi linee e in estrema sintesi, gli aspetti fondamentali della storia politica dell’Isola nel XVIII secolo. Dieci decenni nel corso dei quali il regno “al di là del Faro”[3] fu investito in maniera dirompente da quelle “guerre di successione” che scandiscono in quel periodo la storia d’Europa; con profonde conseguenze economiche e politiche. «Cento anni nei quali la Sicilia cambiava ben quattro padroni».[4]
La Guerra di successione spagnola (1700-1714), che vide contrapporsi principalmente Austria, Inghilterra, Olanda e vari Stati tedeschi contro i Borbone di Francia e Spagna, ebbe per la Sicilia significativi effetti sia economici che politici. Alla crisi del commercio dovuta alla congiuntura bellica internazionale, nonché delle manifatture (legate alle commesse della Chiesa e della nobiltà, che non pagavano i debiti), si sommarono lo scontro politico fra Stato e Chiesa occasionato dalla “controversia liparitana” (su cui Sciascia, com’è noto, scrisse un brillante pamphlet) e il diffuso rimpianto verso la dominazione spagnola, la quale cedeva il posto, secondo il trattato di Utrecht (1713), a quella sabauda[5].
Fu così che il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, passato nel corso del conflitto dal fronte spagnolo alla coalizione anti-borbonica, divenne re di Sicilia[6]. I pochi anni di governo sabaudo della Sicilia (1713-1720) non furono sufficienti a risolvere, nonostante l’impegno del re e dei suoi amministratori, gli atavici problemi dell’Isola. Vittorio Amedeo rimase in Sicilia dall’ottobre 1713 alla fine del 1714: nel corso di quell’anno si adoperò per migliorare l’economia con provvedimenti che non potevano non suscitare l’antipatia dei notabili siciliani: investimenti, infrastrutture, contratti di lavoro più equi per i contadini, innovazioni agricole, confisca ai nobili delle terre e delle fonti d’acqua illecitamente privatizzate. Soprattutto, a essere mortificata dal parsimonioso re sabaudo era lo sfarzo della corte, considerata prerogativa irrinunciabile dall’aristocrazia siciliana, abituata al barocchismo spagnolo. Né la situazione migliorò sotto il conte Annibale Maffei, a cui Vittorio Amedeo II affidò il governo dell’Isola in qualità di viceré dopo il suo rientro a Torino. Il controllo sulla distribuzione delle pensioni, la regolamentazione dell’intrico di leggi e tribunali, la revoca dell’autonomia amministrativa, furono alcuni dei tentativi di riforma da parte sabauda che (neanche a dirlo) sollecitarono un’aperta ostilità[7].
Se a queste difficoltà si aggiunge l’ulteriore spina nel fianco rappresentata dal divampare del conflitto con la Chiesa scaturito dalla controversia liparitana, non stupisce che Vittorio Amedeo II cedette la Sicilia, pressoché senza combattere, alla flotta spagnola sbarcata nell’Isola nel 1718, nel contesto della Guerra della quadruplice alleanza (1717-1720)[8]. In difesa della cosiddetta “politica dell’equilibrio”, Inghilterra, Francia, Austria e lo stesso Vittorio Amedeo (il quale sperava di ottenere un territorio alternativo alla Sicilia per conservare il suo titolo regale) combatterono e sconfissero la Spagna: dapprima la flotta britannica annientò quella spagnola al largo di Capo Passero; poi, nell’estate 1719, spagnoli e austriaci si scontrarono nella battaglia di Francavilla, «probabilmente la più imponente che si fosse svolta in Sicilia dall’epoca romana»[9]. Il trattato dell’Aia (1720) sancì il passaggio della Sicilia agli Asburgo, mentre Vittorio Amedeo II diventava re di Sardegna (titolo che, com’è noto, i suoi successori conserveranno fino al 1861).
La dominazione austriaca della Sicilia (1720-1738; de facto fino al 1734) [10] ereditò gran parte degli atavici problemi a cui già il governo sabaudo aveva cercato invano di far fronte; con altrettanto impegno (forse con maggior prudenza) cercò a sua volta di porvi rimedio, ma i risultati non si discostarono granché da quelli dei predecessori, a causa delle solite storture strutturali: parassitismo dell’aristocrazia, collusione della borghesia, corruzione della burocrazia, sottomissione dei contadini. Invero, quanto alla politica religiosa, si giunse alla riconciliazione con la Chiesa: nel 1728 papa Benedetto XIII riconfermava l’Apostolica Legazia, prerogativa dei re di Sicilia fin dal tempo dei Normanni, che era stata messa in discussione dal vescovo di Lipari. D’altra parte, sotto gli austriaci l’Inquisizione continuò a operare: al 1732 è datata l’ultima esecuzione sul rogo di un eretico, Antonino Canzonieri.
Sul versante economico, i progetti per una riscossione fiscale più efficiente e più equa ebbero successo solo parziale a causa dell’opposizione dei nobili. I programmi, che erano già stati avviati sotto i piemontesi, di ravvivare l’attività mercantile, commerciale e mineraria di Messina si infransero contro l’inerzia dei baroni locali. Più in generale, ogni riforma era ostacolata ab origine da idiosincrasie burocratiche e giuridiche che finivano per anchilosare lo status quo[11]. Il viceré che a più riprese segnalò tale situazione e vanamente cercò di opporvisi era Cristoforo Fernández de Cordova conte di Sastago, spagnolo al servizio dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. Egli
concluse che il “diabolico caos” dei dazi nazionali e locali aveva creato una confusione che di per se stessa impediva qualsiasi aumento delle entrate o delle attività commerciali; e troppe persone traevano vantaggio da questo stato di cose perché potesse esservi qualsiasi possibilità di riforma.[12]
I tentativi di riforma sabaudi e asburgici, salvo qualche voce isolata che li appoggiava, non incontrarono in generale l’approvazione della classe dirigente siciliana, che continuava a rimpiangere il governo spagnolo il quale, «distante e facilone, […] dava mano libera alla nobiltà per governare, e malgovernare, i suoi servi a piacimento»[13]. Nel contesto della Guerra di successione polacca (1733-1738), risultò dunque facile ai Borbone di Spagna sbarcare, nel 1734, con un esercito in Sicilia e riconquistarla pressoché senza sparare un colpo. Con il trattato di Vienna (1738) i regni di Napoli e Sicilia furono assegnati in unione personale a Carlo III, infante di Spagna, capostipite della dinastia dei Borbone di Napoli; in cambio, Carlo VI d’Asburgo ottenne il Ducato di Parma e Piacenza. Il Ducato di Lorena passò dal Sacro Romano Impero alla Francia e in cambio Francesco Stefano di Lorena (marito della futura imperatrice Maria Teresa) ricevette il Granducato di Toscana.[14]
La Sicilia sotto Carlo di Borbone (1738-1759) si ritrovò, dopo oltre quattrocento anni, nuovamente unita al Regno di Napoli in un’unica monarchia nazionale non più dipendente da potenze straniere. Eppure, come nelle precedenti dominazioni, dopo una breve permanenza del sovrano titolare a Palermo, la Sicilia venne affidata a un viceré. Carlo III di Borbone, sebbene incarnasse al pari di altri sovrani settecenteschi l’archetipo dell’assolutismo illuminato, fallì anch’egli, al pari di savoiardi e austriaci, nel riformare l’irredimibile Sicilia. Le sue riforme (fra cui la Suprema Magistratura del Commercio, organo unico di controllo e organizzazione in ambito mercantile e finanziario, teso ad abolire quel labirinto di “fori”, burocrazie che ingrassava i privati a detrimento del pubblico; nonché il permesso accordato agli ebrei di tornare nell’Isola) furono violentemente osteggiate dai notabili siciliani[15]. Di fronte a tale risposta, la reazione del sovrano fu rassegnata e condiscendente. «A Napoli la monarchia stava ora tentando di realizzare uno Stato più forte e centralizzato; ma ai “notabili” siciliani fu concesso di continuare a comportarsi come se i loro privilegi fossero la migliore garanzia di felicità per i loro compatrioti»[16].
La sentina dei privilegi, la radice dell’immobilismo sociale e il covo delle clientele della Sicilia era (si badi, era!) il Parlamento. Esso «era un’istituzione che, non facendo altro, teneva viva la nostalgia per un passato idealizzato e in una certa misura immaginario, rallentando così il processo di trasformazione»[17]. Lungi dall’essere, com’era invece preteso dalle stesse Eccellenze che lo componevano, garanzia dell’autonomia siciliana, baluardo contro le usurpazioni della libertà della Sicilia tentate da Spagna, Savoia e Austria, il Parlamento era la principale causa dell’arretratezza dell’Isola:
Fintantoché questi governi stranieri rimasero un utile capro espiatorio cui dare la colpa della povertà e dell’arretratezza del paese, nessun siciliano era disposto a considerare che responsabile fosse piuttosto lo stesso parlamento, e l’atteggiamento mentale che esso impersonava.[18]
I baroni parlamentari, orgogliosi e satolli dei loro privilegi, non accompagnavano alcun onere ai numerosi onori barocchi legati al proprio ruolo. «Vittorio Amedeo aveva parlato sprezzantemente del “parlamento di gelati e sorbetti” perché sembra che mangiare gelati fosse la più notevole occupazione dei deputati durante le sessioni»[19].
Intanto, l’economia della Sicilia languiva. La coltivazione cerealicola, principale fonte di reddito dell’Isola, era soffocata, oltre che da complessi motivi di ordine economico, sociale e logistico, anche da un prelievo fiscale iniquo: la tassa sul macinato, che gravava interamente sulle spalle dei contadini, era un’imposta preferita a quelle (utopiche) basate sui redditi più alti. «Un viceconsole britannico ritenne che questo fosse il motivo fondamentale di tutta l’arretratezza dell’economia siciliana, poiché il sistema fiscale “è stato inventato al fine di far pagare il povero per il ricco”»[20].
Un momento simbolico della vittoria del baronaggio siciliano contro l’autorità dello Stato è costituito dalla perorazione dell’avvocato Carlo Di Napoli in difesa dei privilegi dell’aristocrazia siciliana. Essa sorse a partire dalla richiesta degli abitanti di Sortino di poter riscattare al demanio regio il proprio villaggio, dominio feudale del principe di Cassaro. Questi affidò la propria difesa a Di Napoli, il quale sostenne (sulla base delle leggi medievali Si aliquem e Volentes) che i feudi siciliani non erano donazioni da parte dei re normanni ai loro vassalli, bensì il risultato della spartizione della terra concordata fra il conte Ruggero e i propri commilitones all’atto della conquista dell’Isola. La tesi difensiva del Di Napoli venne accolta dal Tribunale del Real Patrimonio, e il viceré Corsini fu costretto ad adeguarvisi[21]. «Era la vittoria non solo di un feudatario bensì dell’intero fronte baronale […]. Al Di Napoli venne innalzato un busto marmoreo nel palazzo pretorio di Palermo, come benemerito alla “Nazione siciliana” […].»[22]
L’egemonia (non a caso scelgo di usare questo pregnante concetto gramsciano) che l’aristocrazia siciliana poteva vantare su tutte le classi sociali dell’Isola emerge una volta di più in occasione della rivolta di Palermo del 1773. Essa affondava le radici nel malcontento della nobiltà palermitana nei confronti del viceré Giovanni Fogliani Sforza d’Aragona, il quale aveva introdotto una serie di misure fiscali nella direzione di un’imposta progressiva sul reddito: ciò non poteva che scatenare l’ira della buona società. Quando una crisi alimentare portò il proletariato urbano della capitale all’esasperazione, i nobili (insieme con i membri delle corporazioni artigiane, ovvero la borghesia) ne approfittarono per pilotare la rivolta contro il viceré, che si trovò costretto a ripiegare su Messina. La città dello Stretto fu felicissima di accoglierlo; anche perché Fogliani non aveva fatto mistero (come altri prima e dopo di lui) di voler investire economicamente e politicamente su di essa a scapito di Palermo. Tuttavia, Fogliani fu sostituito. Il tumulto non rientrò prima di un anno, nel corso del quale a ricoprire ad interim la carica di viceré di Sicilia fu l’arcivescovo di Palermo, Serafino Filangieri. Il successore, Marcantonio Colonna di Stigliano, III principe di Sonnino, agì alla radice della crisi annonaria, riformando finalmente quel farraginoso sistema protezionistico e speculativo che metteva a rischio con incredibile frequenza l’approvvigionamento alimentare della Sicilia, nonostante la sua sufficiente produzione cerealicola[23].
- Domenico Caracciolo, un riformatore sconfitto
In questo quadro desolante e illuminante si inserisce la nomina, nel 1781, del marchese Domenico Caracciolo a viceré di Sicilia, incarico che egli manterrà sino al 1786[24]. Il terremoto di Messina citato in apertura di questo scritto si verifica dunque nel bel mezzo del suo governo. È dunque da imputare alla sua negligenza che Messina sia stata abbandonata a sé stessa? A seguito della contestualizzazione storica pocanzi delineata, siamo attrezzati per reagire perlomeno con diffidenza al cliché che rintraccia la responsabilità di ogni male di un Paese nell’inefficienza del governo, e solo in questa. In effetti, come abbiamo avuto modo di constatare, le cause dell’arretratezza della Sicilia sono (ed erano) più complesse, non potendosi ridurre (oggi come allora) all’inerzia del governo di turno.
Come spiega Leonardo Sciascia, Caracciolo credette doveroso avviare la ricostruzione della città dello Stretto, anche nell’interesse dell’intera Sicilia, e al fine di trovare le risorse necessarie a tale scopo credette necessario
imporre una decurtazione, da cinque a tre giorni della dispendiosa festa che in onore di santa Rosalia celebrava la città di Palermo. E fu forse il suo più grande errore di governo. Questo viceré riformatore, che era già riuscito ad annientare il Tribunale dell’Inquisizione e si accingeva a scardinare l’usurpazione e il privilegio feudale, appena si attentò a toccare i fasti di santa Rosalia, di colpo si trovò a perdere il favore di tutti i ceti alla cui affrancazione la sua opera tendeva: e i nobili subito ne approfittarono per assumere il patrocinio della massiccia e totale reazione.[25]
L’opera di un riformatore energico e intransigente quale fu Caracciolo trovò il suo ostacolo più grande, e decisivo, nello sfiorare quella particolare miscela esplosiva di campanilismo e sentimento religioso che si addensava nella festa di santa Rosalia e che venne abilmente sfruttata dagli aristocratici (minacciati da Caracciolo nei loro privilegi) per far insorgere l’intero popolo siciliano contro colui che tentava di liberarlo dalla tirannia del baronaggio e dall’inerzia della burocrazia. Lo storico Denis Mack Smith, in proposito, scrive che la festa palermitana di santa Rosalia
figurava al secondo posto nelle spese del bilancio cittadino e sembra che per tutti i palermitani rappresentasse il momento culminante dell’anno. I festeggiamenti duravano ora cinque giorni e qualche volta anche sei, durante i quali il lavoro si arrestava ed erano preceduti da settimane di preparazione. […] Ogni sindaco doveva superare il predecessore con divertimenti sempre più costosi per imprimere la gloria del suo nome nella memoria di una plebe esigente. Nel 1746 il principe di Lampedusa dissestò completamente il bilancio con i fuochi d’artificio che dovevano esprimere la gratitudine di Palermo alla sua protettrice per essere stata salvata dall’epidemia di Messina; e il viceré, entro certi limiti, approvò perché si fece notare che in tal modo il popolo comune veniva distratto da piaceri meno innocenti.[26]
Caracciolo non condivideva lo stile accomodante di gran parte dei suoi predecessori. La sua intransigenza, se da un lato è espressione di una convinta adesione ai programmi dell’assolutismo illuminato, dall’altro, nella misura in cui gli attirò l’ostilità sia degli oppressori che degli oppressi (per usare la sua terminologia), è anche il motivo che spiega il successo solo parziale delle sue riforme[27]. Del resto, egli era consapevole che una politica di compromessi sarebbe probabilmente risultata più utile al suo prestigio, ma non intendeva piegarsi ad essa: «Un galantuomo non può servire in Sicilia senza esser schiavo dei Siciliani, ed io non lo voglio essere; ma neanche voglio esporre la mia riputazione, sempre in pericolo in mezzo a questa masnada e con gli orecchi delle segreterie sempre aperti ad ascoltarli»[28].
Dalle lettere che Caracciolo inviava ai suoi corrispondenti a Napoli emerge uno spaccato interessantissimo del contesto sociale e politico in cui egli si trovò a operare. La natura privata di tali testimonianze, prive di eufemismi e di vacue perifrasi, consente di individuare in esse l’insofferenza costante del viceré verso gli aspetti più negativi della realtà siciliana, che si traduce in giudizi durissimi e molto lucidi sulle cause dell’arretratezza dell’Isola.
A Ferdinando Galiani, Caracciolo scrive che la burocrazia non è strumento per un’amministrazione uniforme e centralizzata, efficiente e giusta, bensì mezzo di oppressione del popolo da parte della ristretta borghesia degli uffici e dei tribunali, connivente con l’aristocrazia feudale. L’inefficacia stessa delle leggi, del resto, è garantita dalla loro estrema numerosità e varietà:
Tanti fori, tante giurisdizioni, tanti ordini e dispacci opposti da codeste segreterie, tanta debolezza e connivenza del ministero, tanta rilasciatezza di disciplina e tanto disprezzo delle leggi farebbero cadere le braccia al Cristo del Carmine. Oltre che, il paese per se medesimo è male organizzato: è abitata la Sicilia da gran signori e da miserabili, senza classe intermedia, vale a dire è abitata da oppressori e da oppressi, perché la gente del foro servono qui d’istrumento dell’oppressore.[29]
Egli continua osservando che nel regno di Napoli, «avendo le segreterie invasa la potestà legislativa esecutiva economica, ogni specie di giurisdizione alta media bassa, ponendo le mani ad ogni cosa pubblica e privata, sino sopra i decreti e le cose giudicate, e per conseguenza tolgono ogni vigore alle leggi medesime», la nobiltà e la borghesia abbiano rinunciato alla tradizionale ostilità di classe per unirsi contro «la forza destruttiva, dispotica e illimitata della burocrazia»[30]. Del tutto diversa la situazione, spiega Caracciolo, nel regno di Sicilia, in cui la burocrazia è il tappeto sotto cui celare le usurpazioni della classe dirigente: e perciò è interesse tanto dei borghesi quanto dei nobili, al fine di conservare i propri privilegi, preservare un sistema per cui esistono innumerevoli fori (ognuno per ogni corporazione, per ogni ceto, per ogni città, per ogni quartiere) che si sostituiscono all’autorità del governo centrale; e nel quale la proliferazione stessa delle norme (spesso in contrasto fra loro) le rende, in pratica, inapplicabili.
Caracciolo si stupiva di come, in Sicilia, la complicità degli oppressi con i loro oppressori fosse così radicata da impedire ogni serio tentativo di riforma economica e sociale. In una lettera ad Angelo Fabbroni egli scriveva:
Io sono stato, caro amico, condannato a leccare quest’orso; già mi è riuscito di abbattere quel terribile mostro dell’Inquisizione e di porre la libertà nella vendita dei viveri, di far da capo e di accomodare le strade della città e di far lavorare a quelle del regno, tuttavia restano infinite cose a fare ed altri mostri a combattere, ed io certamente non sono Ercole, e ciò che rende malagevole ogni opera è la resistenza di quei medesimi li quali si vorrebbero sollevare e liberare dalla tirannia dei potenti; tanto la lunga servitù degrade l’âme, onde più non risente il peso delle catene.[31]
Egli non manca di ribadire la marcata dicotomia fra oppressi e oppressori a Gaetano Filangieri, uno dei maggiori protagonisti dell’illuminismo italiano; identificando in essa una causa fondamentale della difficoltà di incontrare approvazione circa i tentativi di riforme fra gli stessi siciliani. Peraltro, i magistrati e gli intellettuali sono agli stipendi della classe dirigente locale[32]; per cui è impensabile trovare nella ristretta borghesia (o, come direbbe Caracciolo, nei “paglietti”) un veicolo del cambiamento:
Crede Vostra Eccellenza che io faccia del bene in Sicilia? mi onora troppo, perché non ho che la semplice volontà di farlo, e quasi indarno mi sforzo ad adempiere al mio dovere. Non ostante vado innanzi, siccome posso, con la scorta dei lumi, li quali si ritraggono dalla nobilissima opera della legislazione, la onde se fo qualche cosa si deve a Vostra Eccellenza, stante che deriva dalli documenti che imparo da lei. Ma il male è grande, il vizio è profondo e l’ammalato estremamente indocile e ostinato. La Sicilia è male organizzata, essendovi due sole classi d’abitanti, signori e pezzenti, vale a dire oppressori e oppressi; si aggiunge poi che li magistrati contemplativi, per non dire di più, sono gl’istromenti dell’oppressione.[33]
Vale la pena soffermarsi sull’espressione sopra evidenziata, “con la scorta dei lumi”, da cui traspare nel modo più esplicito l’adesione di Caracciolo ai valori di quel Settecento che Sciascia definì “il secolo educatore”[34]. Essa si manifesta nell’amicizia con i più importanti esponenti dell’illuminismo italiano e francese, di cui un’altra testimonianza importante è in questo capoverso:
Il povero D’Alambert ritrovasi afflitto da male di vescica, io ne ho lettere di continuo e me ne affliggo assai ancor io, perché l’amo come proprio un fratello e negli ultimi tempi della mia dimora a Parigi siamo stati quasi inseparabili; il suo male è grave ed è doloroso, ed egli non ha coraggio da sostenerlo, sebbene non sia affatto spaventato dalla morte; è compatibile; la morte non deve recare spavento alcuno all’uomo savio[35], ma finire fra li dolori è cosa crudele.[36]
Mentre nella Francia tanto amata da Caracciolo l’assolutismo monarchico aveva tolto ogni autorità politica ai nobili del regno, l’aristocrazia in Sicilia poteva vantare tanti e tali privilegi da arrogarsi il diritto di governare in vece dello Stato, ovvero dell’autorità regia (e vicereale). Al di là degli obiettivi economici, il progetto politico di Caracciolo fu la più decisa azione di contrasto al feudalesimo mai tentata fino a quel momento. In una lettera a John Acton egli critica le obiezioni avanzate dalla deputazione dei nobili circa la possibilità da parte dei «deputati delle università del regno» (o, come diremmo noi, dei Comuni) di presentare ricorso al re. Caracciolo evidenzia il vizio strutturale del Parlamento siciliano, in cui il voto combinato dei deputati dell’aristocrazia (Braccio feudale) e del clero (Braccio ecclesiastico) può facilmente invalidare quello del Braccio demaniale (le Città, o universitates, appartenenti alla Corona). «Questa è la massima del baronaggio di Sicilia. È cosa da non credere! L’antico sistema tiranno feudale, già abolito in Europa, portava un dispotismo dei baroni sopra li vassalli; la qual cosa li baroni siciliani vogliono ad ogni fatto sostenere; ma inoltre, che è nuovo e non si legge nella storia, voglione essere arbitri e dispositori sopra li tribuni dei popoli, vale a dire sopra il demanio del re»[37]. Caracciolo lamenta che lo strapotere dei nobili costituisce una minaccia alla stessa autorità regia nella misura in cui, ad esempio, pretende di ingerirsi (e di fatto si ingerisce) nell’amministrazione e nel prelievo fiscale delle città demaniali: «Se V.E. col suo zelo e con la sua fermezza non parla con franchezza ai padroni, e dica che, se lasciano fare a questi signori, il re resterà padrone di puro nome in Sicilia, io me ne lavo le mani: l’ho detto, lo dico, lo ripeto, per me ho già adempiuto al mio dovere»[38].
Una delle riforme più importanti tentate da Caracciolo «sur les arides bords de la sauvage Sicile»[39] fu l’istituzione di un censimento finalizzato a una tassazione proporzionale alla ricchezza il quale garantisse, oltre all’obiettivo economico di ricavare le risorse necessarie allo sviluppo infrastrutturale dell’Isola, anche l’obiettivo sociale di una più equa contribuzione alla crescita del paese. Il modello che Caracciolo addita al marchese della Sambuca, primo ministro del regno di Napoli, quale prova della possibilità di riuscita di tale progetto è il censimento varato nel ducato di Milano nella prima metà del XVIII secolo da Carlo VI d’Asburgo e continuato dalla figlia Maria Teresa[40]. Caracciolo spiega come le difficoltà non mancassero neppure nell’avanzatissima città meneghina; e tuttavia l’assolutismo illuminato della monarchia asburgica, nella persona dell’imperatrice Maria Teresa, permise nondimeno di portare a termine il progetto:
Fu somma la novità della materia, i pregiudizi volgarmente sparsi, la mancanza delle cognizioni, la spesa che occorreva pel censimento, l’utile privato che ne attende chi veglia all’utile pubblico, il timore e la diffidenza dell’incertezza del rimedio trascinava anche le oneste persone a suspettare con buona fede quel che si sussurrava. […] Queste ed altre simili difficoltà […], non solo non ismossero l’animo dell’Augusta Sovrana, che anzi vieppiù la confirmarono nel proposito; sicché fece pubblicare quanto su questa materia era stato disposto dalla Giunta del Censimento e lo fece eseguire con quel successo e plauso che oggi sappiamo.[41]
L’opera di Caracciolo «nell’ultimo angolo della cristianità»[42], «in questi confini della cristianità»[43], come egli definisce la Sicilia, ebbe a scontrarsi con l’incomprensibile convinzione dei suoi abitanti di vivere in una terra perfetta, la cui bellezza acceca a tal punto da nascondere alla vista le sue storture. Egli spiega a Fabbroni come l’incredibile incremento demografico di Palermo rendesse urgenti delle misure straordinarie di pianificazione e decoro urbano, quali l’abolizione della sepoltura nelle chiese e la costruzione di un cimitero fuori città: «onde nelle chiese l’està vi è insopportabile puzza; e questi barbari se ne stavano tranquilli in mezzo al fetore sotto questo ardente cielo»[44]. Una constatazione, questa di Caracciolo, che non può non ricordare il dialogo che il principe di Salina riferisce a Chevalley di aver avuto con dei marinai inglesi circa il contrasto fra la bellezza del golfo di Palermo e il degrado delle strade della città:
“[…] Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi, non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanotti ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are come to teach us good manners’ risposi ‘but wont succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. […]”[45]
La spiegazione che Don Fabrizio dà a Chevalley della sua risposta agli ufficiali britannici è una delle più suggestive descrizioni dell’anima siciliana:
“[…] Così rispondo anche a Lei, caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III, e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?”[46]
Caracciolo si domandava, sconcertato, come fosse possibile tale follia. Due secoli dopo, Leonardo Sciascia, sulla scorta di questo passo del Gattopardo, osservò come l’orgoglio dei siciliani derivi dal rovesciamento dell’insicurezza provocata dalla condizione insulare
nell’illusione che una siffatta insularità, con tutti i condizionamenti, le remore e le regole che ne discendono, costituisca privilegio e forza là dove negli effetti, nella esperienza, è condizione di vulnerabilità e debolezza: e ne sorge una specie di alienazione, di follia, che sul piano della psicologia e del costume produce atteggiamenti di presunzione, di fierezza, di arroganza […]; e sul piano della storia la capacità di rendere le cose nuove strumenti di regole antiche.[47]
[1] J.W. Goethe [1816-1817], Viaggio in Sicilia, Libri mediterranei, Ragusa 2015, pp. 82-83.
[2] Cfr. D. Mack Smith [1968], Storia della Sicilia medievale e moderna, tr. it. di L. Biocca Marghieri, Laterza, Roma-Bari 201611, pp. 399-400.
[3] A partire dalla Pace di Caltabellota (1302), e fino alla fondazione del Regno delle Due Sicilie (1816), Regnum Siciliae ultra Pharum era la denominazione ufficiale del Regno di Sicilia (corrispondente all’isola di Sicilia e arcipelaghi siciliani); mentre Regnum Siciliae citra Pharum indicava il Regno di Napoli.
[4] O. Cancila, Il Settecento in Sicilia, in R. Castelli (a cura di), Leonardo Sciascia e il Settecento in Sicilia. Atti del Convegno di studi, Racalmuto, 6-7 dicembre 1996, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 1998, p. 9.
[5] Cfr. ivi, pp. 9-11.
[6] Cfr. ivi, pp. 11-12; D. Mack Smith, op. cit., pp. 305-315.
[7] Ivi, p. 308.
[8] Cfr. ivi, pp. 316-318; O. Cancila, op. cit., p. 12.
[9] D. Mack Smith, op. cit., p. 318.
[10] Cfr. D. Mack Smith, op. cit., pp. 318-332; O. Cancila, op. cit., pp. 12-13.
[11] D. Mack Smith, op. cit., pp. 327-328.
[12] Ivi, pp. 328-329.
[13] Ivi, p. 333.
[14] Cfr. D. Mack Smith, op. cit., pp. 333-334; O. Cancila, op. cit., pp. 13-14.
[15] Cfr. D. Mack Smith, op. cit., pp. 334-342; O. Cancila, op. cit., pp. 14-16.
[16] D. Mack Smith, op. cit., p. 336.
[17] Ivi, p. 337.
[18] Ibidem.
[19] Ivi, p. 339.
[20] Ivi, p. 347.
[21] Cfr. ivi, p. 376; O. Cancila, op. cit., p. 17.
[22] Ibidem.
[23] Cfr. D. Mack Smith, op. cit., pp. 399-408; O. Cancila, op. cit., pp. 19-20.
[24] Cfr. D. Mack Smith, op. cit., pp. 409-420; O. Cancila, op. cit., pp. 21-25.
[25] L. Sciascia, Feste religiose in Sicilia, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose di Sicilia, Einaudi, Torino 1970, p. 184.
[26] D. Mack Smith, op. cit., p. 401.
[27] Cfr. ivi, pp. 421-434.
[28] Lettera di Caracciolo a John Acton, 4.XII[.1784], in Id., Lettere dalla Sicilia, Edi.bi.si, Palermo 2004, p. 36.
[29] Lettera di Caracciolo a Ferdinando Galiani, Palermo, 21.XII.1781, in ivi, p. 9.
[30] Ivi, p. 10.
[31] Lettera di Caracciolo ad Angelo Fabbroni, Palermo, 19.VI.1783, in ivi, pp. 21-22.
[32] «La speranza migliore di un avanzamento, oltre a una carriera nella Chiesa, era legata alla protezione di qualche barone, e questo è uno dei motivi per cui c’era così poca critica aperta all’ordine stabilito. Le critiche erano dirette piuttosto verso qualsiasi tentativo di riforme» (D. Mack Smith, op. cit., p. 388); «Sino all’avvento del Caracciolo, e spesso anche dopo, gli intellettuali siciliani, proprio per la particolare struttura della società isolana, erano impossibilitati a svolgere un ruolo autonomo nei confronti del baronaggio. Né devesi dimenticare che molto spesso essi appartenevano allo stesso ceto feudale. Così, mentre a Napoli fioriva una vasta storiografia antifeudale, in Sicilia il sistema feudale sino all’avvento del Caracciolo non fu mai messo in discussione» (O. Cancila, op. cit., p. 21).
[33] Lettera di Caracciolo a Gaetano Filangeri, Palermo, 2.III.1782, in Id., Lettere dalla Sicilia, cit., pp. 13-14 (corsivo mio).
[34] Cfr. C. Ambroise, A cosa serve il Settecento in Sciascia?, in R. Castelli (a cura di), Leonardo Sciascia e il Settecento in Sicilia, cit., p. 44.
[35] Secondo i precetti dell’etica stoica: cfr. ad es. Epitteto, Manuale, 5, a cura di M. Menghi, BUR, Milano 20158, p. 37.
[36] Lettera di Caracciolo ad Angelo Fabbroni, Palermo, 19.VI.1783, in Id., Lettere dalla Sicilia, cit., p. 24.
[37] Lettera di Caracciolo a John Acton, 17.VII.1783, in ivi, pp. 26-27.
[38] Ivi, pp. 27-28.
[39] Espressione che ricorre più volte nella corrispondenza di Caracciolo: Lettera di Caracciolo a Ferdinando Galiani, Palermo, 21.XII.1781, in ivi, p. 9; Lettera di Caracciolo ad Angelo Fabbroni, Palermo, 19.VI.1783, in ivi, p. 21.
[40] Lettera di Caracciolo al Marchese della Sambuca, Palermo, 17.III.1783, in Id., Lettere dalla Sicilia, cit., pp. 15-16. Maria Teresa morì il 29 novembre 1780.
[41] Ivi, pp. 17-19 (corsivo mio).
[42] Lettera di Caracciolo a John Acton [fine del 1783], in ivi, p. 33.
[43] Lettera di Caracciolo ad Angelo Fabbroni, Palermo, 19.VI.1783, in ivi, p. 24.
[44] Ivi, p. 22.
[45] G. Tomasi di Lampedusa [1958], Il Gattopardo, a cura di G. Barbieri, Loescher, Torino 1979, pp. 163-164.
[46] Ivi, pp. 164-165.
[47] L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose di Sicilia, cit., p. 13.