di Enrico Palma
La seconda serata, ancora in Piazza Umberto I, ha fatto vibrare le corde più segrete dei luoghi che, nella finzione letteraria, hanno ospitato i personaggi della novella verghiana e poi dell’omonima opera musicata da Mascagni su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci. A distanza di qualche passo ci sono infatti l’osteria, in cui i duellanti si promettono la sfida, e, più giù, la Cunziria, l’orto dell’opera in cui il duello si consuma. Come la novella verghiana, da cui il libretto dell’opera si discosta non poco, il capolavoro di Mascagni mette in scena, anche grazie a musiche ormai memorabili, le passioni umane che solo la Sicilia rende più che mai perspicue e facilmente coglibili.
Possono essere per lo più tre le linee direttrici del dramma o, per meglio dire, le variazioni dello stesso tema: l’amore come declinazione della gelosia, dell’onore e del sacrificio. Già i Greci sapevano che, tra tutti gli dèi, Afrodite fosse la più potente e temibile. Concordando con D.H. Lawrence, il quale vedeva giustamente un Verga omerico, Cavalleria è un’opera ancestrale, che ripesca le passioni e i sentimenti umani più antichi e originari. Le vicende dei personaggi si intrecciano in modo inestricabile con il mito greco, ma anche con la Passione di Cristo, la cui figura, durante le scene dello spettacolo in chiesa e di preghiera, veniva mostrato e accompagnato in tutta la sua afflizione.
Secondo la tavola valoriale popolare era infatti stato commesso un peccato: l’aver posseduto la donna di un altro (Lola) e ingannato una povera ragazza (Santuzza) da parte di Turiddu, cose per le quali il giovane, benché sprezzante del rischio, pagherà il fio con la vita. Il suo ingresso, la prima aria dell’opera che Turiddu dedica a Lola, è in tal senso una dichiarazione d’intenti: «Ntra la porta tua lu sangu è sparsu, / E nun me mporta si ce muoru accisu… / E s’iddu muoru e vaju mparadisu / Si nun ce truovo a ttia, mancu ce trasu». Il peccato è stato commesso e il sangue che macchia la porta di casa di Lola è la prova del misfatto. A lui non importa di morire, poiché la passione che prova e che lo infuoca merita ascolto e d’essere tramutata in azione. E se anche Dio vorrà che lui muoia e vada in paradiso, l’amore per Lola sarà tale che senza di lei non vi entrerà.
Il testo offre quindi, sin dalle prime battute, una prima, decisiva indicazione: il sangue. Sangue che significa vita che pulsa ebbra e indefessa, esistenza totalmente posseduta dalle passioni più forti e insaziabili, ma anche e soprattutto morte e sacrificio, come il sangue di Cristo versato per la salvezza dei fedeli e la redenzione dei peccati.
Il volto dell’amore, specie quando si viene meno a una sua promessa, si rivela non soltanto come gelosia, ma anche come vendetta, senz’altro la più umana delle passioni. Vendetta che è di Santuzza, che confessa ad Alfio la tresca del suo Turiddu con sua moglie Lola, tanto da usare per il suo amore un superbo passato remoto con cui giustificare la sua spiata («M’amò, l’amai»), ma di cui si pentirà. Cosa che invece non farà Turiddu, il quale, pur consapevole di aver commesso un grave torto e di vivere nell’onta, proclamando la vitalità del sentimento e del suo cuore che batte per Lola, esclama: «Pentirsi è vano / Dopo l’offesa!». Non ci si pente, dunque, semmai ci si affronta, per stabilire nel duello chi dei due abbia maggiore onore dell’altro. Alfio deve anche lui difendere il suo onore minacciato, sicché reclama a gran voce, assetato come un lupo della sua preda: «Io sangue voglio».
Nelle battute iniziali, rispondendo alla richiesta di vino di Alfio, Lucia, la mamma di Turiddu, proferisce ingenuamente che il figlio era via, proprio a prendere del vino per l’osteria; cosa non vera, poiché, come si apprenderà in seguito, egli era stato visto da Alfio proprio vicino casa sua, non ancora consapevole del fatto che stesse facendo visita proprio alla moglie Lola. È una scena di grande importanza, perché Turiddu non doveva saziare la sete di Alfio con il vino di Francofonte: l’unica bevanda in grado di farlo era infatti il suo sangue.
All’osteria, quando la messa di Pasqua è stata celebrata, quando il giubilo per la Resurrezione di Cristo ha raggiunto tutti i cuori dei presenti, in una riuscita torsione degli eventi si compie il destino dei due uomini: la promessa della sfida. Turiddu offre ancora una volta del vino ad Alfio, ma egli, come capito, non può accettarlo, e certamente non per la ragione che «diverrebbe veleno / entro il mio petto». Dopo una splendida aria giocosa (Viva il vino spumeggiante), il capovolgimento del tono iniziale determina il dramma, anticipando i fatti che di lì a poco sarebbero accaduti. Prima, però, Turiddu deve prendere congedo dal mondo, e lo fa nel modo più commovente che si possa fare, forse il punto più alto di tutta l’opera, ovvero dando l’addio alla madre, alla quale raccomanda, quasi come un Cristo sulla croce che intercede per Maria e Giovanni, la sua comunque cara Santuzza. Dice Turiddu, prendendo commiato dalla madre, dal mondo e dalla terra: «È il vino che mi ha suggerito!». Il vino è sincero, non può mentire, esattamente come il sangue incandescente che gli scorre nelle vene, che deve a ogni costo assecondare le passioni che ribollono dentro di lui.
Leggendo invece la novella, Turiddu, prima di andare, chiede alla madre: «Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andrò lontano»[1]. Andrà lontano, nel luogo più lontano di tutti, non nei campi, né di nuovo soldato, ma da dove non si fa ritorno e la distanza dal quale viene colmata solo da avide preghiere. Il saluto alla madre è il saluto alla terra, quella terra che di lì a poco Alfio getterà con astuzia negli occhi di Turiddu, l’ultima visione con cui la terra nutrice di tutto lo prende a sé e alla quale compare Alfio sta «per rendervi la buona misura»[2]. Il coltello di Alfio affonda per tre volte, come una sacra trinità,nelle carni di Turiddu, la morte che profilandosi come giusta misura al suo oltraggio è stata resa in riparazione alle leggi inviolabili dell’onore ferito dell’uccisore. Il vino gettato al suolo da Alfio prima della sfida si impasta dunque con la terra, pronta sia ad accogliere la morte di Turiddu che a donare la vita. Il sangue «gorgogliava spumeggiando nella gola»[3], come quel «vino spumeggiante nel bicchiere scintillante» a cui il giovane e il coro inneggiavano gioviali nell’osteria di Lucia. Nel duello quel vino si è tramutato, come durante la transustanziazione dell’Eucaristia, compiutamente in vino. Turiddu, colpito a morte, cadendo esangue «non poté profferire nemmeno: “Ah, mamma mia!”»[4]. Quella mamma, la natia terra impastata di sangue, il compare l’aveva negli occhi. C’era già ritornato.
[1] Giovanni Verga, Cavalleria rusticana, in Vita dei campi, in Tutte le novelle, a cura di G. Zaccaria, Einaudi, Torino 2015, p. 179.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 180.
[4] Ibidem.