di Giuseppe Coniglione
Non tutti sanno (e ancor meno sono interessati a saperlo) che nelle mie giovinezze ancestrali e settentrionali, trascorse giusto appena al di sotto di quelle foreste incantate di abeti sulle Alpi Scandinave dove è possibile ammirare lo spettacolo dell’Aurora Boreale, quando ancora non avevo scelto il mio attuale pseudonimo ed usavo il mio vero nome André Mourmour (come già detto, ma sarà utile ripeterlo indefinite volte per annoiarvi il più possibile!) e tutto appariva un po’ più francese del solito, vi fu un periodame che sarebbe utile definire, per darvi robuste certezze polverose e dubbi illuminanti sulla materia, in questo mourmouriano modus: dei bollenti furori dei fiori.
Tenterò di spiegarvi estas otras mis venturas, ma starà alla vostra scaltrezza carpirne le essenze e le escandescenze, siddu è veru ca fatti foste per seguire virtute e canoscenza e NON per addurre infiniti lutti “ai plebei”, come molti condottieri della politica purtroppo intendono la loro mission.
Digressionando, sia chiaro che il termine “condottiero” debba essere inteso alla maniera medio-rinascimentale, ovvero quale “capo di una banda di mercenari” e non quale “capo di una condotta idrica”, come qualche raro appassionato di irrigazione potrebbe trovarsi disgraziatamente ad intendere. Ma su questo discorso, prima o poi, scriverò alcuni tomi da raccogliere ed intitolare Le peripezie di un quasi-capo (autoproclamato) della condotta idrica e li regalerò a qualche inutile biblioteca comunale dove saranno custoditi (da poco aggraziati dipendenti pubblici ivi deposti quasi per punizione) per centinaia d’anni senza che nessuno mai se ne curerà e fino a quando, dopo mille anni, quando saranno ormai ridotti in polveraccio fituso, torneranno di moda e diventeranno libro di testo obbligatorio nelle scuole del Regime per generazioni e generazioni (che ovviamente mi odieranno a morte per questo). Ma questo, prometto, lo faccio dopo la pensione, ovviamente se questo istituto esisterà ancora fra trentasei lungimiranti anni, se ho inteso bene la tortuosa normativa vigente.
Ma lassamu pèrdiri, accamora, sti divagazioni da Smeagol de El Señor de los Anillos que quiere su tesor. Tornando a noi, ovvero a me stesso, tutti sanno (ma in realtà mal presuppongono) che nei periodi dell’anno che vanno a seguire l’inverno e che l’aere suole scaldarsi, molte piante sogliono gettare il bollore (leggi jittari ‘u vuddu) ed estasiarsi in manifestazioni di colori, grazia e profumi che comunemente nelle piazze e nei mercati al dettaglio di Guadalajara e provincia si piace appellare semplicemente come las flores. Quello splendido ribollire della stagione di Persefone a volte suole colpire anche la humana et funesta ispecie, la quale né meno delle api né più dê lapuna, gli capita ogni tanto di fare qualche minchiata credendo, ahivoi, di fare cosa benevola.
Adunque, per darvi idea vaga e vacua di quello che mi è ammattuto, vi cunterò una passata su cui poter esercitare le vostre mirabili e sagge competenze esegetiche. In un libro-nabucco, che la Fortuna (latinamente e machiavellicamente intesa, quindi né bona e mancu tinta) volle che doveva capitarmi di liegere qualche anno ‘n arreri, si narravano le historiae et vicendae di uno sventurato, determinato e leale arciere che da giovanissimo era stato strappato agli affetti della famiglia e alle gioie della pastorizia per essere assoldato tra le genti d’armi del suo Signore feudatario che, a sua volta sventuratamente, si era trovato a dover fornire leva militare senza potersi opporre al di lui Signore Principe Padrone per diritto divino e, così dicendo, smanioso di gettarsi nella mischia delle dispute dinastiche per succedere al trono di un Poco Rispettabile Regno che ubicavasi da qualche parte tra le terre franche e germaniche, laddove il vivace fiume Reno ha trovato un gentile piacimento a disegnare confini, dividere et creare popoli. Ma come è facile intuire, tra i popoli franco-germanici, l’arco era l’arma dei poveri, a differenza delle lunghe aste e spade quasi umanizzate dei nobili cavalieri. Mentre i cavalieri avevano tutta una nomea particolare e imbrogliata, sulle loro gesta venivano scritti e cantati memorabili poemi, i poveri arcieri, a parte Ulisse, Paride, Robin Hood e Atalanta (che non è la squadra del pallone), non sono comunemente molto ammuntuvati nelle litteraturae poiché giocavano nelle battaglie un ruolo marginale e muy tradimentoso: stare il più possibile ammucciati e colpire il maggior numero di nemici alla cu’ allippu allippu con le filècce (spesso avvelenate d’odio) fuggendo il corpo a corpo, dove avrebbero avuto ben poche speranze di riescirsene con le proprie et istesse gambe corporali. Quindi, spesso e a buon ragione, l’arciere tende sempre a comportarsi secondo i dettami del conosciuto proverbio in voga presso gli anziani abitanti delle Isole Svalbard: ‘u fùjiri è virgogna ma è sarvamentu di vita. Ebbene, l’arciere di cui narrerò brevemente e confusamente gli era proprio finita in cotal maniera e giustappunto l’opera in epiteti (un nuovo genere letterario sperimentale dei tempura nostri) La lunga estate surrealista che dilania i cuori ne parla in qualche modo un po’ bislacco e noioso, ma che ho trovato tuttavia degno di venire, come dire, esaminato. Il libro-nabucco, pubblicato nel 1973 dai tipi di Oiseau-de-la-Cerise – sic. Aceddu dâ cirasa – (in realtà semplicemente il garage pieno di umido di un pessimo e caravigghiaru – sp. muy caro – stampatore di calendari e carte dei morti che possedeva una stampante tipografica da gettito – “da lancio”), è l’opera di un poco avveduto scrivacchino dilettante della provincia parigina di cui non è simpatico fare il nome (in quanto non molto fiero della sua opera). Purtroppo, il nostro autore bruciò tutte le copie esistenti del libro per la collera di non riuscire a venderne neanche una al prezzo di mezzo chilo di pane, a differenza di un suo rivale, un sedicente contadino-poeta autodidatta, che riuscì a piazzarne sul mercato ben 23 (ventitrè) copie, più per la bontà dei parenti ed amici che comprarono il libretto perché gli sembrava brutto non farlo che per le sue doti di mercante-contrabbandiere di stampa clandestina ed abusiva.
Sebbene nel mondo odierno tutto si basi sull’essere marketable, a volte per diffondere la conoscenza di un’opera (come fortunatamente in questo caso) basta che la stessa sia facilmente stolable – it. rubabile – e proprio per questo esatto motivo oggi ne detengo l’unica copia al mondo sfuggita al rogo, almeno fino a quando non la lancerò facendola svolazzare dalla finestra.
Ebbene (vi consumo di dettagli per farvi perdere il filo della narrazione, ovviamente), questo arciere di cui dicevasi, così tanto per dire, vagava da giorni scalzo per la gioia dei suoi calli dolenti, con gli indumenti unti ed a brandelli e, aggiungo, molto probabilmente non lavava le sue carni nelle acque da ragguardevole tempo e quasi sicuramente si percepiva la sua profumatissima presenza da gran distanza, consumato com’era nell’anima dalle battaglie da cui era riuscito miracolosamente a scampare, fuggendo lesto e poco onorabilmente le rovinose sconfitte e gli spietati massacri che solo le follie umane sono in grado di compiere. Nascondendosi in del mezzo de li rovetti, era riuscito a mietere molte vittime tra i suoi inimici, i suoi dardi dalle punte arruggiate avevano trafitto centinaia di cuori nei lunghi soffocanti mesi di quella estate di guerra senza senso per la sete di potere di pochi ambiziosi carpati nel cerebro. ‘Nsumma, i cosi nun ci avièunu jutu in maniera molto buena, dicendola più pulita possibile.
In tutto questo trambusto il nostro eroe si era perso nelle oscurità e nelle dignità dopo l’ultima tragica sconfitta e si aggirava come un fantasma nelle terre dei suoi aguzzini aspettando di essere scoperto e giustiziato da un momento all’altro e tutte le notti i suoi pensieri non riuscivano più a concedersi sonno e riposo, poiché la certezza che il domani sarebbe stato uguale y mismo all’oggi (dunque peggiore dello ajeri e dell’avantajeri) falcidiava la sua mente di predatore-preda ormai priva di pensamento ragionevolmente progressista od incautamente liberale.
Tutte le volte che scurava lo torturava sempre lo stesso incubo e sentiva sempre lo stesso disumano dolore, pur non avendo alcuna ferita degna di nota o notula, oltre le ormai usuali cicatrici disegnate sulla sua pelle dalle fredde ed insensibili punte – altrettanto arruggiate – dei dardi dei nemici che lo avevano accarezzato più e più volte durante le battaglie e spesso spurtusato, senza mai potergli regalare la fine che spesso era giunto persino ad ardentemente desiderare in quelle indefinite giornate senza luce in cui gli dèi sembravano voler vedere scorrere il più possibile l’irrazionalità dell’Essere (nonché del dare e avere della partita doppia). Ma forse quello che lo tormentava di più non era un incubo vero e proprio, ma qualcosa di più considerevole: una ventata di surrealismo, come lo avrebbe definito, forse, Henri Breton. Sentiva un’ispecie di sensazione di accupamento profondo, si sentiva come se le punte – sempre più arruggiate – di mille dardi gli stessero perforando lentamente il cuore (ma non il fegato), come se in una sola volta tutte le filecce che aveva scagliato alla cu’ allippu allippu ed avevano portato morte e liberazione ai suoi nemici gli fossero tornate en drìo una dopo l’altra sibilando nell’aria e trafiggendolo ripetutamente senza possibilità di scampo, ma con enorme sensazione di scanto, uccidendo non il suo corpo ma la sua eccentricità d’animo giorno dopo giorno.
Ad un certo punto e virgola, dopo mesi e mesi di vagabondaggio, di vivere nutrendosi di armali sarbagghi che riusciva ad infilzare e di bacche verminose che riusciva ad arraffare, si rese conto che, pensandoci bene a mente fredda, il dolore e il non poter dormire non erano poi un così grave problema, perché problemi ne aveva talmente tanti e variegati che quelli non erano niente per lui. Quindi arrivò lentamente ad innamorarsi del dolore, a ricercarlo, a sublimarlo e ad azzardare sempre il più possibile al fine di procurarselo in magna quantitade: per fame iniziò ad ingegnarsi per fottere le galline (coccodé) dalle nassae ai villani senza farsi taliare, poi principiò con i furti di intere botti di vino facendole rotolare nelle nuttate e poté, da qui, constatare che il contadino era più furioso quando gli rubavano il vino che quando gli rubavano il pane: ma a lui in realtà non gli interessava molto se non per ‘mbriacarsi a sua volta.
Una notte che aveva deciso di depredare nuovamente un’altra famiglia di zozzi villani con le sue arguzie, aveva scorto da lontano una compagnia di ladri affamati che avevano avuto lo stesso meschino pensamento. Naturalmente diventò un ferio (it. una belva feroce): in preda a non si sa quale brama di monopolio capitalista e disprezzo del libero mercato e della concorrenza, il furore lo colse di sorpresa e decise di trafiggerli tutti da lontano col suo arco scagliando le sue filècce ammucciato tra le ùmmire, tradimentoso come sempre così come Natura lo aveva plasmato. Nel principiare aveva avuto un senso di soddisfazione e forse lontanamente di giustizia, di quella giustizia non scritta nei libri ma che credono di detenere i senza diritto e gli azzeccagarbugli dal cuore grande, poi si rese conto che l’aveva fatto solo per vederli morire, quindi per liberarli dalle imbrogliae, secondo la sua filosofia delicata. Molto probabilmente, però, non c’era più con la testa, ma questi sono problemi suoi che in questa sede possiamo tralasciare. Quella notte propria, per come era preso, avrebbe fatto volentieri anche strage di tutte le pecore di quella famigliuola di villani per puro sfregio, ma decise di rubare quanto gli serviva per saziare la sua fame e la sua panza che diventava sempre più grossa: uccise dieci galline, un pecorone, acchiappò quattro bottiglie di vino e se le portò, levandosi la vita per trasportare tutti quegli imbarazzi in una ‘rutta (it. grotta), che decise doveva diventare il suo Castello, poiché ogni uomo ha diritto di averne uno. In quell’esatto momento Yves Rochard, detto dai più Ivanu Robbajadduzzi (“Ivano Rubagalletti”), si rese conto di non essere più un unto arciere con le vesti a brandelli, ma che la lunga estate surrealista che dilania i cuori lo aveva fatto diventare semplicemente un violento e furioso ladruncolo, sebbene unto ugualmente. Ivanu Robbajadduzzi, sebbene trasformato lungo il percorso della sua formazione, aveva di nuovo deprecabilmente un’identità. Puh, avogghia!
Tutta questa parabola era per spiegarvi che, se non avessi rubato a mia volta quel libro e non avessi fatto il ladruncolo, oggi non avrei potuto raccontarvi nulla, ma soprattutto per farvi capire (e nello stesso tempo non comprendere) quello che ho provato in tutto quel periodo della mia vita che scelsi di catalogare come “dei bollenti furori dei fiori”, così per il gusto sofistico di attaccare un post-it a tutti banni. Molti di voi non avranno inteso bene cosa io voglia intendere con questa etichetta, neanche dopo avervi introdotto alla figura di Yves Rochard, ma sinceramente non è mia intenzione perdere troppo tempo con gli sciocchi, poiché ho altro di più importante a cui pensare. L’unica cosa che mi interessa che capiate per adesso è che ogni essere umano (o disumano che vogliate) ha bisogno di un’identità, qualunque essa sia e che non bisogna troppo farsi estasiare dai bollenti furori dei fiori come può capitare nelle molteplici esistenze che vi troverete a condurre in questa vita. Ma (perché c’è sempre un “ma” alla fine di ogni storia che vuole essere pedagogica) non ho ancora capito veramente una cosa e, forse, rifletterci assieme può aiutare sia me che voi per tentare di esplicare meglio quel periodame della mia vita. La domanda, che iniziai spesso a pormi senza trovare risposta, fu la seguente: Cosa bolle nei fiori?
Da molti anni provo ad immaginarmelo, ma deve essere qualcosa di davvero straordinario ed impalpabile, per cui trovare delle parole adatte dovrà essere un compito assai arduo e ponderoso persino per una setta rispettata di saggi come quella degli adepti di Ermete Trimegisto, che sicuramente leggeranno questo testo e coglieranno il senso dei messaggi in codice contenuti. Proprio, entonces, partendo da questo floreale interrogativo settario si iniziarono a frequentare alcuni uomini di litterae, ccô cocciu â littra, come direbbe qualcheduno qualsiasi che vogliasi in qualche bar fituso. Nella Normandia più recondita ed ostica all’umano desiderio della conoscenza, si iniziò a formare uno strano circolo di genti del cocciu â littra, i quali si dilettavano in condivise lecturae degli argomenti più scunchiuruti (leggi “sin alguna conclusiòn”) che potevano trovarsi, privilegiando in magna parte le historiae et in ispecie quelle inerenti i popoli degli Arabi (poiché entusiasti del loro modo di scrivere e delle loro flagranze orientali), dei Normanni (per fiere ottusità campaniliste e regionaliste) e dei Bizantini (per il loro poco germanico modo di vivere la vita).
Tentando di scoprire quel misterioso elemento che bolle nei fiori, ci imbattemmo (picchì c’era macari ju) quindi in letture ardite di gruppo, alla ricerca del dettaglio che potesse essere fondamentale per giungere ad una nuova scoperta per l’umanitade intiera. Tuttavia, sebbene la determinazione a volte conduce ad inarrivabili vette, risultò più piacevole adagiarsi sui fondi e lasciarci trascinare dai misteri del grottesco. Fu così che ci imbattemmo nelle beghe imperiali della Corte di Costantinopoli e negli scritti di Procopio di Cesarea, autore del De bello gothico e del De Aedificatur, lo storico per eccellenza dell’Imperatore Giustiniano, dai più osannato per la riconquista dell’Africa e dell’Italia ad opera dei generali Narsete e Belisario e per il Corpus Iuris Civilis, ma in pochi conoscono quelli che furono i curtigghi di Giustiniano e della sua “adorata” moglie Teodora, che ancora oggi possono essere ammirati uno di fronte all’altro nei mosaici speculari presenti nell’abside della Basilica di San Vitale in Ravenna, illo tempore capitale prima dell’Impero Romano d’Occidente, poi del Regno degli Ostrogoti, poi dell’Esarcato di Ravenna e ora anveci di nun sacciu chi cosa.
Il circolo degli amici di Procopio di Cesarea (o del cocciu â littra che dir si voglia) si iniziò ad invaghire dei curtigghi contenuti nelle Carte Segrete di Procopio di Cesarea, un libro che consiglio ad ogni genitore di leggere al proprio figlio prima di andare a letto per insegnargli a reverso quali sono gli esempi e i comportamenti umani che NON devono essere seguiti e da cui bisogna allontanarsi. Ma non voglio dar consigli ai genitori ribelli di oggi: sanno già che ai loro figli devono regalare un iphone per non sentirli piangere. Detto ciò, prima ca mi perdu n’àutra vota e nun accapu cchiù, tornando agli amici del cocciu, sovente prolungavano le loro disquisizioni sulle gioie delle vicende contenute in quelle Carte Segrete banchettando poco graziosamente in bettole di ventura e taverne con compiacenti osti per nutricare le loro, in alcuni casi piluse ma sempre degne di rispetto, panze. Proprio una di queste sere che avevano optato di addivenire in un villaggio detto di “Abukir”, luogo un tempo famoso per la presenza di donne un poco lascive ed accondiscendenti, ed avevano juto in una di queste taverne con osti compiacenti, la discussione era caduta sul balenottero Porfirione che, ai tempi di Procopio di Cesarea (giusto qualche primavera addietro), era divenuto il terrore di tutti gli armatori che dovevano far passare le proprie navi dal Bosforo (che non è quello del dentifricio). Sebbene, molto probabilmente, tale Porfirione fosse affetto dai bollenti furori dei fiori sui quali gli amici dô cocciu â littra stavano conducendo le proprie appassionate ricerche e per i quali quello stesso diavolo del Basilèus Giustiniano ebbe qualche notte insonne e dovette impegnare invano la stessa flotta imperiale per catturarlo, alla fine, proprio a causa dei suoi bollenti furori, il povero Porfirione si eliminò da solo spiaggiandosi sulla costa dopo avere inflitto ingenti perdite economiche a tutto l’Impero con il suo fare vizioso, poiché gli Imperi viziosi vengono costantemente colpiti da eventi viziosi.
Purtroppo, come già voluto esemplificare, i bollenti furori dei fiori non colpiscono solamente il mondo animale, poiché spesso ci sono fiori bollenti anche laddove si pensa non dovrebbero esserci. A forza di frequentare ostinatamente taverne con compiacenti osti, gli amici del Circolo di Procopio si imbatterono nell’oste più compiacente di tutti, che proprio piombò nella discussione quando si tentava di trovare il Leitmotiv che aveva portato il povero Porfirione a spiaggiarsi e si stava tentando di introdurre la questione dell’operato di un poco raccomandabile esattore delle imposte siriaco alla corte di Costantinopoli. Il compiacente oste interruppe la nostra emozionante discussione con la scacione di cosa volevamo ordinare da mangiare e non se ne andò più dal nostro tavolo, iniziando a disquisire solamente con uno dei membri della compagnia attratto forse dal candido giallore della sua pelle. In lui si celava il più bollente furore dei fiori, nonché quello più animalesco e, abituati come eravamo alle istorie del bizantinismo, capimmo subito che si trattava di un eunuco, tradimentoso come quelli che riempiono la storia dell’oriente romano con le loro congiure. Nonostante la disfatta (che divenne di “Abukir”) di non poter continuare le nostre disquisizioni procopiane, in quegli istanti gli amici del cocciu â littra poterono indagare le manifestazioni inaspettate dei bollenti furori di fiori che non ti aspetteresti di trovare. Tuttavia, osservando con metodo scientifico i comportamenti del compiacente oste, ci fu dato un altro importante esempio di come si può manifestare il ricercato evento. Dunque, le esistenze di Ivanu Robbajadduzzi, di Porfirione e la singolare smania dell’eunuco-oste più compiacente di tutti nel tempo hanno colto l’essenza di ciò a cui anela il Circolo degli Amici di Procopio di Cesarea. Per te, invece, orsù: Cosa bolle nei fiori?
In foto: l’imperatrice Teodora in un mosaico ravennate.