“Il mio Gramigna? Un tributo a Mazzone e a Vizzini”

Il regista e sceneggiatore Massimo Giustolisi parla del suo adattamento della celebre novella verghiana 

 

di Paola Giordano

 

 

Dare vita sul palco a una storia che ha del paradossale come quella raccontata in L’amante di Gramigna, novella verghiana inserita nella celebre raccolta Vita dei campi (1880), non è semplice ma senz’altro intrigante. Per almeno tre ragioni. 

Innanzitutto perché è la storia di una giovane donna che si era innamorata un brigante, Gramigna, senza mai averlo visto («Io non l’ho visto! Ne ho sentito parlare. Sentite! ma lo sento qui, che mi brucia»[1] confessa alla madre), ascoltando solo «quello che dicevano nella strada»[2]. Follia, si dirà, eppure è accaduto e accade che una persona si innamori di un mostro: si chiama ibristofilia, meglio nota come “sindrome di Bonnie e Clyde”.

In secondo luogo perché è «l’abbozzo di un racconto»[3]Così lo definisce nella premessa a Salvatore Farina lo stesso Verga. Un abbozzo di racconto condensato in poche, pochissime pagine che concedono al regista una grande libertà. Quella di attingere, laddove il Verga tace, altrove: alla propria fantasia, ad altre storie, alla propria vita. Una sfida con sé stessi.

E, infine, perché è una storia di coraggio. Peppa dimostra infatti di avere il coraggio di inseguire i propri desideri, a discapito di tutto e tutti, anche della propria madre. Ribellandosi così agli schemi imposti dalla società. Se, ancora oggi, questo per alcune persone è difficile, alla fine dell’Ottocento era pura follia.

Di questo – e di tanto altro – ho parlato con Massimo Giustolisi, autore dell’adattamento teatrale andato in scena sabato 30 agosto in Piazza Umberto I, a Vizzini, primo dei tre appuntamenti della cinquantesima edizione delle Manifestazioni Verghiane.


Come è nata la scelta di portare in scena proprio l’Amante di Gramigna?

“Devo cominciare da un po’ prima di questo spettacolo. Nel 2004 sono stato contattato dal figlio di Mazzone, Giuseppe, che purtroppo è venuto a mancare pochi giorni prima della rappresentazione, per fare le Verghiane con La roba, con la sua regia e con Fulvio D’Angelo. Quello è stato per me il mio battesimo vizzinese. Poi i rapporti si sono un po’ interrotti, io nel frattempo ho formato una mia compagnia e abbiamo deciso di mettere in scena nel 2016 Storia di una capinera. Nel momento in cui quello spettacolo ha avuto un certo riscontro abbiamo fatto una richiesta: così, con Storia di una capinera, nacque la prima collaborazione. Negli anni successivi ci furono dei tentativi che non andarono in porto per accordi che non arrivarono ad essere presi in maniera concreta ma il rapporto con il Comune di Vizzini è rimasto sempre vivo perché Pietro (La Rocca, assessore al Turismo e allo Spettacolo, ndr) è una persona gentilissima. Quest’anno ci siamo fatti risentire: prima del lockdown abbiamo rimesso in scena la Capinera e ho pensato che avessero voglia, desiderio di rifarla dopo tre anni, perché ebbe moltissimo successo allora. Pietro si consultò con la Giunta: mi dissero che era un po’ presto per riproporla e che era preferibile fare qualcosa di diverso. Al che, avendo saputo che quest’anno ricorreva il cinquantennale delle Manifestazioni Verghiane, era curioso capire con che cosa avessero cominciato e loro avevano cominciato proprio con l’Amante di Gramigna. Non volevo fare un torto al compianto Giuseppe e a sua volta al padre, che aveva scritto un adattamento dell’Amante di Gramigna, anzi, ero molto rispettoso e proprio per evitare di tradire in qualche modo le sue volontà – perché quando uno scrive un testo e lo mette in scena ha sempre idee molto chiare su quello che vuole fare e il fatto che venga messo in scena da altri senza la sua supervisione può avere come conseguenza che si travisi quello che è il suo volere –  avendo letto la versione di Mazzone avevo visto altro”.

Cosa aveva visto?

“Non più bello o più brutto: semplicemente altro. Al che ho proposto alla Giunta e in particolare a Pietro una mia completamente diversa e originale versione, un adattamento ex novo, nato dall’idea di proporre una cosa nuova Vizzini e di farlo come una sorta di commemorazione, omaggio, tributo a Mazzone e a quello che è stato in questi anni Vizzini, con edizioni delle Verghiane di grande fulgore grazie anche alla presenza di attori di straordinario successo, come Mariella Lo Giudice con cui ho lavorato per tanti anni. Per cui noi che siamo una compagnia di professionisti ma relativamente giovani ci volevamo confrontare con un testo nuovo. Contestualmente è uscito un bando a Catania e lo abbiamo fatto anche lì. Questa è la genesi dello spettacolo. Il problema da affrontare è stato il distanziamento sociale dovuto alle restrizioni imposte dal Covid…”.

A questo proposito, com’è stato tornare in scena dopo il lungo periodo di stop dovuto al Covid che ha paralizzato il mondo dello spettacolo? 

“Questo è stato un problema serio e se in estate abbiamo comunque in qualche modo potuto mettere in scena gli spettacoli all’aperto, che era una condizione ideale per poter adeguarci alle restrizioni, al chiuso sarà un grosso problema. Noi abbiamo chiuso con Storia di una capinera, il 27 febbraio, pochi giorni prima del lockdown. Avevamo programmato una tournée e abbiamo perso una quarantina di date. Ci siamo ritrovati da un giorno all’altro senza sapere cosa fare. Non nascondo che alla mia compagnia ho detto che dopo tutto quello che avevamo fatto durante il lockdown – perché abbiamo continuato a lavorare in smart working con gli allievi fino al 7 luglio – non avremmo fatto nulla perché eravamo veramente distrutti. Nel momento in cui si è riproposta la possibilità di tornare in scena però non ho saputo dire di no perché ero così voglioso di salire di nuovo sul palcoscenico, di raccontare una storia, di vedere la gente seduta, voglioso di assistere ad un nuovo racconto che non sono riuscito a dire di no. Io sono sempre in coppia in regia con Giuseppe Bisicchia, che mi ha coadiuvato anche questa volta. È lui, il più delle volte, a prendere le redini degli spettacoli più di me, e stavolta invece è successo il contrario: questo lavoro lo sento più mio perché è il mio adattamento, sono mie alcune scelte e Giuseppe è stato di grande supporto perché mi ha lasciato fare”.

Quanto dunque di Massimo Giustolisi c’è in questo adattamento teatrale?

“È una domanda incredibile questa che vorrei mi avessero fatto in tanti perché c’è tantissimo di me: ci sono parole mie, ci sono sogni miei, ci sono eventi che sono veramente accaduti nella mia vita che ho preso, ho messo su carta, ho trasferito nella storia. C’è il tormento interiore, c’è la passione, c’è il ricordo, c’è il voler fare ma avere paura, c’è il coraggio, c’è il desiderio di rivalsa: c’è moltissimo di me. Forse Gramigna è lo spettacolo che mi somiglia di più nella mia carriera”.

A quale personaggio si sente di essere più affezionato?

“Sicuramente al personaggio di Peppa, nonostante io interpreti Fino. Il personaggio di Peppa rappresenta il desiderio di rompere gli schemi, di essere al di fuori delle convenzioni e di non fare necessariamente quello che è stato già stabilito, senza chiederle neanche se le andasse bene o meno. Rappresenta poi il tormento interiore, che è anche attrazione perché L’amante di Gramigna è anche una storia di grande erotismo che forse è più dell’attrazione perché se pensiamo ad una donna che non ha mai visto una persona e se ne innamora solo per le sue gesta – peraltro negative – perché Gramigna è un brigante, un essere che ha compiuto atti efferati, una persona spregevole. Eppure Peppa è affascinata da quest’uomo, per il gusto del proibito, per il desiderio di capire perché questa persona ha vissuto questa vita. Io la racconto ed è un racconto completamente inventato rispetto alla novella: racconto l’infanzia del brigante, un po’ come nei film Disney o Marvel, in cui emerge che nel cattivo c’è sempre una motivazione, o nella cinematografia, come nel prequel di Joker, dove si indaga sul perché sia diventato così”. 

Perché Gramigna diventa cattivo?

“Non è voglia di farlo diventare un eroe: cattivo è e rimane. Faccio descrivere i crimini che ha compiuto, nonostante nel testo non ci siano, perché volevo si capisse quanto fosse cattivo. Faccio raccontare che due carabinieri tornano con le teste che penzolano perché volevo proprio che si capisse che non eravamo di fronte all’eroe baldanzoso delle fiabe, anzi tutt’altro. Nonostante ciò è chiaramente una persona”. 

E negli altri personaggi c’è anche qualcosa di lei?

“È chiaro che in Fino c’è qualcosa di me ma questo dipende anche dal fatto che avendolo rappresentato io in scena inevitabilmente c’ho messo del mio. La madre, per ultima, è il personaggio che secondo me ho scritto meglio perché ho avuto un vantaggio grandissimo: sapevo chi lo avrebbe interpretato, sapevo che Nadia Trovato sarebbe stata la madre, che avrebbe toccato quelle corde e mi sono potuto permettere di scrivere quelle parole perché sapevo che quelle parole sarebbero andate in bocca a lei e le avrebbe interpretate in quel modo. Questa è una risorsa incredibile. Quando le mie parole venivano tradotte in quello che io pensavo veramente e nel modo in cui lo pensavo per me era magia perché mi rendevo conto che avevo centrato”.

A proposito di Peppa, secondo lei in questo personaggio c’è più desiderio di rivalsa nei confronti di una società, di una famiglia che le aveva imposto di sposare il giovane ricco del paese o c’è più un amore folle e assurdo? 

“Credo che L’amante di Gramigna non sia solo una storia d’amore: è una storia di libertà. C’è infatti una grande voglia di rivalsa, di affermazione personale, di libertà appunto. Tuttavia innamorarsi di un criminale è una patologia anche oggi riscontrata: ho fatto delle ricerche quando ho cominciato ad approcciarmi al testo, addirittura ne avevo anche scelta qualcuna che volevo inserire, poi l’ho ritenuta poco adatta al contesto e ho evitato. Oggi non potrebbe accadere quello che è successo a Peppa perché un criminale lo vediamo in tv o sui social. Però è una patologia abbastanza diffusa: molti serial killer ricevono proposte di matrimonio in carcere. Diventa una cosa agghiacciante: in Peppa c’è una parte di lei che non dico sia pazza ma che la conduce oltre tutto, oltre gli schemi della società, oltre il suo tempo. È di una modernità incredibile questo personaggio. L’idea che ci sia una persona nascosta tra i campi la attrae, tanto che avviene in scena che lei ascolti affascinata parlare di Gramigna. Peppa non vive di tantissime battute rispetto agli altri, è presente in tante scene ma ha più silenzi, più ascolti che altro. Ascolta quando la madre e il fidanzato parlano di Gramigna, ascolta quando i popolani dicono che è stato preso, ascolta sempre. Questo fa nascere un Leitmotiv nella storia che è la luna: Peppa dice ‘la luna ci ha sposati’, guarda la luna sapendo che quella stessa luna la sta guardando anche Gramigna”.

Perché ha scelto proprio la luna come Leitmotiv?

Ho scelto la luna perché è un elemento pagano che si contrappone alla religiosità fortissima del paese, della madre che è sempre con rosario in mano, dei paesani che, nonostante siano pettegoli e pieni di livore, talvolta esagerano, tanto che raccontano cose che non stanno né in cielo né in terra: dicono ad esempio che l’hanno trovato nel tinello o sotto il letto, cose che non erano successe realmente”.

Un po’ come accade nei piccoli paesi dove di bocca in bocca un fatto si ingigantisce a dismisura.

“Esatto. In una delle scene le popolane, le curtigghiare come le appelliamo in Sicilia, esagerano e alla domanda ‘come l’hai saputo?’ la risposta, dopo alcuni istanti di silenzio, è ‘l’hanno detto in paese’ e quindi è sicuro. Un po’ come dire, oggi, ‘l’hanno detto in televisione’. Peppa è completamente al di fuori da questo, tanto che anche a livello cromatico abbiamo fatto una scissione netta: il popolo, le donne sono vestite con i colori della terra – marrone, beige, mattone. La madre è vestita invece di nero, come fosse al lutto. Peppa invece è vestita di grigio, con la camicia nera ma ha un piccolo merletto che spicca perché ha quel desiderio di uscire fuori, come se avesse quasi voluto imporre che voleva qualcosa di più. Nel sogno di Fino – un’altra scena completamente inventata – lei appare discinta, in camicia da notte, come lui non l’ha mai vista. È una Peppa diversa: erotica, sensuale, che si lava davanti a lui ed è scalza. È una situazione paradossale perché lì, a quel punto, diventa la Peppa che Fino immagina. È un eros che però non si concretizza. Come un gioco di specchi, Fino chiede a Peppa di avvicinarsi ma lei gli risponde ‘io devo andare’; nella scena con Gramigna, invece, costui le dirà ‘avvicinati’ e lei lo fa. Una scena in particolare che ho nel cuore è quando Gramigna le chiede ‘vuoi che vada via?’ e lei risponde di no: è quello il momento in cui lui capisce che Peppa è in suo potere”.

Qual è il suo personaggio verghiano preferito?

“Verga è un autore che offre tanti spunti ad un attore, ad una compagnia teatrale per sviluppare le sue storie. Un personaggio che mi piace da impazzire è la Lupa, che ho sempre voluto mettere in scena tanto che è stata una delle proposte degli anni passati a Vizzini che poi non andò in porto. La Lupa è un personaggio incredibile perché in lei c’è il sacrificio, c’è la passione, c’è l’ardore, c’è il fuoco dell’Etna, un fuoco che arde dentro di lei e che non si spegne mai, fino a portarla alla morte. Credo che questo sia veramente un personaggio da affrontare con grande cautela perché si può scadere facilmente nel macchiettistico, nella volontà di esagerare. Anche la versione cinematografica del ’96 non è stata delle più brillanti nonostante Gabriele Lavia sia uno dei miei registi preferiti. Credo si potesse fare ancora meglio. La Lupa secondo me può dare ancora tanto, anche con una visione un po’ più moderna. È chiaro che, all’interno di un contesto come le Verghiane, spesso il timore è quello di deludere le aspettative se si fa qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che ci si aspetta. C’è una tendenza a lavorare sulla tradizione e questo per un regista può essere un po’ castrante”. 

Qual è invece quello ritiene lontano anni luce da lei?

“Per quanto riguarda i personaggi negativi non riesco a digerire Nedda (ride, ndr), perché poverina le succedono di tutti colori, pare che porti sfiga a sé stessa, rappresenta l’essere vinta per eccellenza. Noi abbiamo fatto una versione divertente, molto giocosa che si intitola Tutta colpa del Verga, scritta da Giovanna Sesto, collega e collaboratrice, dove a un certo punto Nedda dice “io mi ribello”, “a me succedono troppe cose negative, io voglio essere felice”. Probabilmente è un qualcosa che difficilmente si potrebbe inserire nelle Verghiane però per i bambini potrebbe essere una cosa carina. È interessante, a mio avviso, proprio l’idea di rivalsa di una Nedda che a un certo punto cambia le carte in tavola e dice “basta, voglio un altro finale per la mia vita, adesso ci penso io” e in qualche modo diventa Peppa. Abbiamo realizzato questa versione per dare un lieto fine almeno a un personaggio verghiano”. 


[1] G. Verga, L’amante di Gramigna, in Vita dei campi, in Tutte le novelle, a cura di G. Zaccaria, Einaudi, Torino 2015, p. 189.

[2] Ivi, p. 190.

[3] Ivi, p. 186.

Lascia un commento