di Enrico Palma
Il primo degli eventi in programma è dunque una riduzione di una delle novelle più atipiche e impressionanti di tutta la novellistica verghiana, L’amante di Gramigna. Molto calda la presentazione dell’assessore alla Cultura e allo Spettacolo Pietro La Rocca, il quale ha ricordato, da buona memoria storica, l’importante ricorrenza di quest’anno, la figura di Mazzone e la collaborazione del figlio alle rappresentazioni di alcuni anni fa.
Allo stesso modo, il sindaco Vito Cortese ha insistito sull’importanza, fondamentale per Vizzini, della rimessa in circolo delle tradizioni, delle radici che in Verga sono ben salde, delle passioni eterne che lo scrittore ha saputo, parlando dei nostri avi, individuare ed esprimere nelle sue opere, in un’epoca in cui la letteratura e l’impegno intellettuale fanno vacanza, in cui alle piazze di pietra e palazzi, luoghi originari della città e per una sera anche di teatro, si preferiscono quelle troppo affollate e bercianti dei social, ricolme di parole costituite di nulla. La tradizione, quella in cui l’identità vizzinese si radica, vive dunque in Verga e, come ricordato dal sindaco, nei nostri avi, i quali, dalla pagina letteraria, si sono trasmessi fino a noi, vizzinesi di oggi, che ce li portiamo dentro, infitti nelle ossa, nei nervi, nei muscoli. Le parole di Verga, pronunciate in una vera piazza e da bravi attori, rivivificano questa tradizione, per dirci chi eravamo e, nella dispersione della contemporaneità, chi siamo anche adesso.
Lo spettacolo è stato ben integrato con Piazza Umberto I e il Palazzo comunale che, anche a causa delle stringenti norme igienico-sanitarie di contenimento, per una notte si sono prestati a fungere da palcoscenico.
Dopo una cornice narrativa di giovani che allegramente cantano e vogliono narrare e ascoltare storie, ci si immette nella novella verghiana vera e propria, una storia invero incomprensibile e a tratti finanche assurda. Peppa, giovane ragazza di Licodia, è promessa sposa a Finu, il quale, nomen omen, è finu di nome e di fatto. Un brigante della peggiore specie si aggira per le campagne della provincia, un tale Gramigna, ladro efferato e spregevole omicida, inseguito da carabinieri, soldati e schioppettate.
Questa novella è, senz’altro insieme a Cavalleria e La Lupa, una delle più estreme, una novella in cui la passione divora totalmente uno dei personaggi, vinto da un moto irrefrenabile che conduce inesorabilmente verso la distruzione, verso il male. Gramigna è la malaerba, quella che infesta i campi e che fa radici ovunque, anche nelle giovani pure di cuore, ed è la metafora del male radicale di cui nell’Ottocento si faceva tanto discutere.
Ciò che ci si chiede, come la madre di Peppa in una delle scene dello spettacolo più riuscite e commoventi, è: «Perché Peppa dovrebbe innamorarsi di uno così, di uno che non ha nemmeno visto e di cui si racconta solo il male?». Si tratta, ancora una volta, di una di quelle passioni ancestrali e di quelle domande irrisolvibili per cui al bene, alla sicurezza, a un marito sole della casa, si preferiscono il rischio, un uomo rude, truce e malvagio.
Gramigna è per tutto lo spettacolo un ologramma visibile soltanto in alcuni momenti, una presenza implicita ma costante che, per una migliore riuscita nella direzione tematica in oggetto, forse sarebbe dovuta restare tale, anche forzando il testo verghiano in cui l’uomo compare e dialoga realmente. Sia Peppa che Gramigna, nella riduzione, non hanno voluto piegare la testa, a una madre che aveva già deciso tutto o a una società ancora troppo succube e timorosa per emanciparsi dai potenti. Perché cosa abbia commesso Gramigna, di preciso, non è dato sapere.
In una novella la cui introduzione è una premessa metodologica, per cui compito dello scrittore è quello di presentare al lettore il fatto così com’è, nella sua pura e naturalistica oggettività, tale fatto, l’argomento della narrazione, è invece quanto di più distante da questa presunta esemplarità. Peppa rifiuta Finu, la gentilezza e il suo candore, e si innamora perdutamente di un bruto assassino, senza tuttavia che si accenni minimamente a qualche virtù caritatevole o desiderio di redenzione. Peppa si innamora e basta, la luna ha deciso per lei: «Ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma che la notte lo vedeva in sogno, e alla mattina si levava colle labbra arse quasi avesse provato anch’essa tutta la sete ch’ei doveva soffrire».[1] La stessa sete che la condurrà da lui, a prendergli l’acqua alla fonte, a beccarsi un proiettile di striscio sul braccio.
La malaerba, proverbialmente, non muore mai, tanto da mettere radici nel ventre di Peppa e a generare il figlio di Gramigna, quello per cui, schernita dai monelli, ascoltando la cattiveria che rivolgevano a lei e alla sua creatura, la giovane «si metteva in collera, e li inseguiva a sassate»[2]. Ci si chiede dunque perché, la ragione insita nell’anfratto più profondo del cuore umano, perché mai dunque ci si possa anche solo innamorare di Gramigna, divenendo, come Peppa, donna disonorata e perduta. A sentire lei sarebbe stata la volontà di Dio.
Di tutto ciò ben poca spiegazione si evince dalle parole di Verga; nello spettacolo, specie nel monologo di Gramigna (forse poco opportuno), sarebbero state la provvidenza, la luna, la voglia di rivalsa, la disobbedienza a un destino già scritto. È comunque una di quelle domande che, come ben sapeva il maestro del male dell’Ottocento Dostoevskij, fanno tremare di terrore, che fanno perdere la fede, che come il principe Myškin alla fine fanno impazzire. Come accade alla fine anche a Peppa la pazza e al suo bambino, il quale non sa ancora niente del padre e della sua storia e domanda anche lui, con voce flebile, perché.
Foto di Delia Di Pasquale