di Rachele Agosta
Il topos letterario, caro anzitutto alla poesia medievale, pone il lettore in una dimensione di malinconica riflessione sul senso del presente – ma anche della vita – e sulla scivolosa comprensione del passato, quindi della morte: dove sono coloro i quali vissero prima di noi?
L’archeologia si pratica ricostruendo i processi delle perdute quotidianità, superando di fatto il confine che nella domanda che dà il titolo a questo articolo è dato tanto da ubi quanto da fuerunt, perfetto latino che indica la compiutezza e la fine dell’azione, dando perciò risposta all’ubi di inizio frase e facendo sprofondare l’interrogativo in un’inguaribile retorica.
Il dialogo con i morti praticato dagli archeologi impone un naturale senso di rispetto nel non stravolgere le intimità rinvenute: ciò che etichettiamo come “ceramica comune” era in realtà un oggetto lavorato in varie fasi, che richiedeva attenzione e abilità manuali precise, che aveva una funzione d’uso che spesso cambiava in base alle esigenze del proprietario, come capita ancora oggi. Quindi nella ricostruzione storica non esistono quasi mai percorsi linearmente definiti e le chiavi di lettura possono essere potenzialmente infinite; perciò nel ritrovamento di una moneta di piccolo taglio c’è molto più dell’anno di conio e del valore intrinseco da ricostruire, perché le ultime mani che l’hanno afferrata prima delle tue, oggi, chiedono nuovamente di essere strette.
La meravigliosa ricerca dell’ubi a Pompei però sembra avere la risposta, ad ogni passo si cammina in una dimensione temporale non più contemporanea, si fa un salto in un passato rimasto congelato sotto gli occhi di tutti. La separazione tra vita e morte a Pompei è una linea trasparente tra chi guarda e cosa è guardato.
Andare per Pompei
La missione archeologica diretta dal Prof. Luigi Maria Caliò a cui ho avuto il piacere di partecipare con l’Università degli Studi di Catania si pone in diretta continuità con le precedenti campagne di scavo organizzate dalla Sapienza di Roma sotto la direzione di Enzo Lippolis, grande archeologo che oggi il Parco archeologico ricorda con compianta commozione per le brillanti intuizioni che l’hanno portato a riesaminare le architetture affacciate sul Foro, dominato da alcuni degli edifici più importanti tra cui il tempio di Giove, sul lato nord della piazza forense. Oggetto di accademica curiosità è il rapporto tra culto e spazio cittadino, come, cioè, venivano espletati i rituali e in che modo hanno influito sull’organizzazione degli spazi comuni.
La città è un organismo vivente in continuo cambiamento, ma a Pompei questa logica si interrompe: non ha mai attraversato fasi di decrescita e collasso, piuttosto la vita è stata cristallizzata nel suo giorno più nefasto. Imminente è l’importanza dell’andare oltre l’istantanea che l’eruzione ha creato
Lo scopo di Lippolis era infatti rivedere le fasi costruttive antecedenti al Tempio di Giove. Il professore Caliò ha raccolto l’eredità lasciatagli dai precedenti scavi, che hanno mostrato una struttura rettangolare in calcestruzzo, originariamente foderata di blocchi in pietra squadrata, che sembrerebbe essere stata rasata al suolo per poter stendere le lastre della pavimentazione che ancora oggi parzialmente rivestono la superficie del Foro. È questa struttura a pianta rettangolare la fase iniziale del tempio, poi spazzato via lasciando posto al più imponente complesso che è ora visibile al pubblico.
Lavorare a Pompei per venti giorni è stato un grande onere, ci si sente da subito custodi di qualcosa di estremamente prezioso e delicato. I siti archeologici sono frammenti di memoria e la divulgazione è parte integrante della tutela. In effetti prendersi cura di una realtà tanto ampia quanto fragile ha reso necessari negli anni una serie di accorgimenti ed interventi. Il primo ad essersi immerso in un campo così delicato quale è il restauro ai fini del pubblico godimento è Amedeo Maiuri, il cui grande lavoro nell’escavare sia Pompei che Ercolano è continuato con varie opere volte alla creazione di musei a cielo aperto.
Oggi “custodi” del Parco sono i cinque membri della task force del Laboratorio di Ricerche Applicate, tra cui un’archeozoologa, un’archeobotanica, un geologo, una restauratrice specializzata in conservazione e un’antropologa, la dottoressa Amoretti, responsabile del progetto.
Il Laboratorio si presenta come una Wunderkammer tra le più incredibili che si possano visitare perché è dimora dei reperti provenienti dai vari scavi, partendo addirittura da quelli ottocenteschi. Il risultato è che all’interno di quelle pareti si respira la quotidianità del I secolo d.C. Si può passare per le cucine delle donne pompeiane guardando i loro piatti carbonizzati ma ancora chiaramente riconoscibili in derrate alimentari, ma anche in ricette in corso d’opera che mai saranno ultimate perché chi stava cucinando è dovuto d’improvviso scappare via; si ha notizia del trattamento riservato ai prodotti ittici tra fossili di meravigliose conchiglie, pesci e murex; e si può curiosare tra gli attrezzi da lavoro degli artisti di Pompei, che ci lasciano in prestito le loro coppette in terracotta contenenti ancora i pigmenti dei colori utilizzati per realizzare le pitture parietali.
Qui vorrei aprire una parentesi che ci porta in giro per la città.
Le coppette di colore sono emerse specialmente nella Regio I dall’officina pigmentaria, da una bottega della Regio V e infine dall’Insula dei “Casti Amanti”, precisamente dalla casa che viene detta degli “Operai a Lavoro”. Il che ci riporta ad un precedente evento nefasto che i pompeiani hanno subito poco prima dell’esplosione.
Siamo nel 62 d.C. quando violentissime scosse sismiche si abbattono sulla Campania, con particolare violenza sulla nostra città che viene deturpata quasi interamente e che quindi, oltre dieci anni dopo, si trovava ad essere cantiere aperto, in piena ricostruzione e con rimaneggiamenti nelle architetture che diventano talvolta segni difficili da leggere.
Quindi una mattina di un giorno dibattuto del 79 d.C. alcuni lavoratori all’opera per la ricostruzione della città, dopo aver avvertito le scosse sismiche aumentare velocemente, videro la nube di fumo avvolgere il cielo e scapparono via lasciando sul posto i loro attrezzi. Noi oggi ammiriamo i residui dei pigmenti di colore utilizzati per creare i magnifici affreschi di gusto squisitamente romano che ornano molte delle case di alto e medio ceto. Troviamo pigmenti di blu egizio, ocra gialla e rossa, bianco di piombo, verde a base di malachite. Sono i colori principali dei quattro stili che August Mau nell’Ottocento definì “pompeani” e che si possono ammirare in molte delle 400 case in piedi.
La cosa più interessante degli edifici pompeani è che nel loro gusto decorativo si scorge facilmente e puntualmente la situazione politica che la città stava attraversando e anche negli stili e negli elementi dell’architettura urbana come pagine di un libro si sfogliano le conquiste straniere, le rifondazioni e le influenze del tempo.
Pompei è centro di antica fondazione, addirittura secondo alcuni sarebbe già stata fondata nel VIII secolo a.C. per mano degli Osci, ma nel mito di fondazione «si narrava che l’eroe greco Eracle di ritorno in patria con la mandria sottratta al re di Tartesso Gerione, dopo aver fondato Ercolano, fosse stato onorato dagli indigeni con una sacra processione (pompa) nel luogo in cui successivamente sarebbe sorta la città»[1]. Il culto legato ad Eracle in effetti è molto interessante sotto vari aspetti. Eroe giramondo che si interfaccia con scambi commerciali e interazioni culturali, si fa simbolo di un’integrazione fondamentale in quanto Pompei era sia città portuale sia punto di contatto tra Campania, Lazio ed Etruria meridionale. Se poi, come sottolinea lo stesso Lippolis in uno dei suoi articoli sulla città, si considera che come mito di fondazione Eracle è accolto anche nella colonia greca Cuma e nell’etrusca Capua, si scorge una pacifica circolazione di idee tra membri dell’aristocrazia, anzi, più correttamente delle aristocrazie, riferendoci a famiglie di etnie differenti.[2]
Strabone, invece, ci indica le altre influenze che la città campana accolse, le più importanti delle quali sono certamente da attribuire in capo agli Etruschi e Greci prima, Sanniti e Romani poi.
I Greci di VIII ma anche VII secolo a.C. erano già in fase di deduzione coloniale in Magna Grecia non troppo lontani da Pompei, anzi la fondazione della vicinissima Cuma ma anche di Pithecussa portò inevitabilmente ad esercitare la loro influenza sulla cittadella che infatti presenta un Tempio Dorico (i cui resti dimorano nel lato ovest del Foro Triangolare) di costruzione inevitabilmente greca. Di influenza certamente etrusca è invece il tempio su alto podio dedicato ad Apollo.
Il temenos del tempio di Apollo come lo stesso Tempio Dorico sono i primi segni di sacralizzazione dell’insediamento. È ancora più interessante il fatto che specialmente nell’area del Tempio Dorico siano stati rinvenuti alcuni dei più curiosi esempi di terrecotte figurate. La coroplastica è un tipo di arte dichiaratamente votiva attiva nelle zone campane ed etrusche già dal VII secolo. Per quanto concerne Pompei però i ritrovamenti si riferiscono per lo più al periodo che va dal IV secolo a.C. al II, con poche eccezioni di V secolo, tra cui emergono i ritrovamenti nell’area del tempio. Visti i motivi figurativi ma anche l’impiego della tecnica utilizzata ci si trova difronte a un esempio di sincretismo culturale tra la cultura greca e certamente quella etrusco-italica.[3]
I Sanniti furono invece una popolazione che a lungo ha contribuito a reinventare lo spazio pubblico in Pompeii. Siamo nel III secolo a.C. quando a seguito della Seconda Guerra Sannitica molte popolazioni della Valle del Sarno stipulano un accordo con i Romani. A Pompei i cantieri erano molto attivi, soprattutto per quanto concerne l’architettura urbana si assistette al riempimento degli isolati con botteghe e abitazioni che si standardizzano nella forma ad atrio tuscanico per quel che riguarda le dimore aristocratiche, mentre nelle case dei ceti medi le abitazioni sono più modeste, con meno ambienti ma che già presentano l’hortus sul retro, dove venivano coltivati i propri prodotti.
Il III secolo è determinante per la formazione della Pompei a noi familiare, eppure è nel I secolo a.C. che la città, a seguito della disastrosa Guerra Sociale, perse la sua autonomia a favore della presa di possesso romana. L’abilità dei Romani nello stipulare alleanze a loro favorevoli a Pompei è facilmente leggibile. Le grandi famiglie vennero spodestate, le proprietà confiscate; tuttavia si aprì una grande età, quella Imperiale, che imponeva grandi opere architettoniche che potessero rispecchiare la potenza del governante. Difatti a quest’età dobbiamo le ristrutturazioni delle case più imponenti come la Villa dei Misteri, ma anche del Tempio di Venere, che venne proprio in questa fase dedicato alla gens Iulia; la costruzione di una serie di edifici celebrativi disposti sul lato orientale del Foro (Edificio di Eumachia, Tempio del Genio Augusto, Tempio dei Lari Pubblici), il Macellum, il Tempio della Fortuna Augusta e, dall’opposto lato della piazza, la Palestra Grande, che soppianta la Palestra Sannitica già esistente.[4]
E così la storia di Pompei continua tra interazioni culturali e avanzamenti nelle rese plastiche ancora per un secolo prima della paresi.
Si potrebbe parlare a lungo della sensazione di impotenza che si prova attraversando l’orto dei fuggiaschi o del silenzio oltre i rumori che si avvertono percorrendo Via dell’Abbondanza o ancora dello stupore che si prova quando si apre alla vista il Foro nella sua imponenza, sovrastato solo dal Vesuvio che, alle sue spalle, ha provocato ma anche guardato la fine di migliaia di uomini terrorizzati.
Uno spaccato, che a mio parere si fa portavoce del disastro generale, è l’episodio della cosiddetta stanza degli scheletri, nella Regio V: un gruppo di individui, probabilmente tre donne e due bambini, in preda al panico capì di non poter fuggire o anche solo respirare l’aria esterna; in cerca di riparo entrò in una camera da letto barricandosi all’interno per sfuggire alla pioggia di lapilli, cercando, inutilmente, di bloccare le aperture utilizzando i mobili all’interno della stanza. Pare che siano sopravvissuti agonizzanti quasi un giorno prima del più orribile epilogo, cioè la morte a seguito del crollo del tetto che sopportava ormai il peso di ceneri e materiali piroclastici accumulati per oltre il metro di altezza. Il triste racconto dei fuggiaschi però continua post mortem: duranti alcuni scavi, forse anteriori anche a quelli del Settecento, un gruppo di tombaroli ritrovò i corpi eternamente intrappolati. Per rubare i gioielli che le donne ancora indossavano, trascinarono il cumulo di ossa in un ambiente adiacente, più luminoso, depredando così i cadaveri, che rimasero ormai privi anche della dignità del proprio corpo ormai confuso con i resti altrui.
La storia è ricostruibile grazie al lavoro della dottoressa Amoretti che nel raccontarla durante la nostra visita al Laboratorio ci ha trasmesso un po’ della sua passione per un lavoro che va oltre l’evenemenziale trattazione dei fatti e diventa quasi un quotidiano gesto d’umanità.
Ercolano
Gli abitanti di Ercolano non ebbero un epilogo più dolce dei vicini pompeiani. Dopo il boato, che segnò irrimediabilmente la fine di tutto, una colonna di materiale vulcanico alta 14 km chiuse il cielo per l’ultima volta e i cittadini vennero raggiunti da una nube di 400° alla velocità di 80 km/h che investì tutto e risparmiò solo quello che verrà poi sommerso da colate di fango e morte.
Entrando nel Parco, nettamente meno affollato che a Pompei, si è pervasi da un senso di quieto ordine. Il contrasto tra la città odierna sopra e l’antica sotto, circondata da grandi alberi tranquilli, impone un senso di giustizia, come se fosse una meravigliosa attrazione costruita per il piacere di noi turisti più che lo scorcio di uno scenario di morte.
Ercolano è stato un mortaio per i suoi abitanti, forse ancor più che nelle vicine Stabia e Pompei. Eppure il fatto che fino agli anni Ottanta dell’Ottocento non si fossero trovati corpi, se non qualche piccola eccezione, ha fatto supporre che lì la tragedia fosse stata più gentile, che avesse dato un preavviso tale da consentire loro di mettersi in salvo.
In effetti la speranza e la fuga sono state le protagoniste e si presentano inesorabili mentre camminando per il Parco, catturati dai così evidenti esempi di opus reticulatum, si arriva a loggette buie ubicate quasi subito alla sinistra di uno dei due ingressi. Guardandoci dentro il senso di quieto ordine diventa sinistro per via delle arcate dei fuggiaschi, un tempo affacciate sulla spiaggetta dove circa trecento abitanti di Ercolano arrivarono terrorizzati, in cerca di aiuti dal mare. Ma il mare era in tempesta ed impossibile da intraprendere, quindi decisero di aspettare i soccorsi all’interno di queste grotticelle fino ad addormentarsi per poi essere avvolti dalla calda nube di morte.
Sicuramente ciò che è più fotografato è la parte più disperata e umana di questo cimitero a vista, ovvero la donna incinta di un bambino di otto mesi della quale si possono con facilità scorgere i resti minuti per sempre.
La speranza non era del tutto vana, una barca stava avanzando alla volta di Ercolano senza, però, riuscire mai ad arrivare. Era la barca ritrovata nel 1982 davanti le Terme Suburbane che lunga circa 9 m trasportava il suo timoniere e tre rematori, forse facenti parte della flotta militare inviata da Plinio il Vecchio, andava verso il luogo della catastrofe quando venne raggiunta dalla colata. Oggi l’imbarcazione è stata sapientemente ristrutturata ed è conservata nel museo a lei dedicato all’interno del Parco.
Proprio adiacente al Museo della Barca si trova il piccolo quanto prezioso Museo degli Ori, dove il pubblico guarda le teche luccicanti con senso di meraviglia di fronte a una così minuziosa precisione. I prodotti dell’artigianato di lusso spesse volte erano in stretta correlazione con un uso sepolcrale, come il caso degli anellini d’oro riservati ai bambini morti prematuramente. Se da un lato questi ritrovamenti possono aprire discussioni sui riti sepolcrali ercolanesi, data la tenerezza dei corpi di provenienza, nella fattispecie sono connessi più ad una riflessione sull’importanza che aveva l’accudire il defunto a trovare spazio. Gli anellini sono contraddistinti da un nodo sottile che presentano a chiusura del gambo, come a voler rappresentare la chiusura della stessa vita oppure un senso di possesso al di là del contatto fisico non più possibile.
Non tutti i reperti di Ercolano dimorano nell’originale sito, ma anzi la maggior parte trova collocazione nel Museo archeologico di Napoli, meraviglia tra le meraviglie campane, luogo di eterno sapere e infinito stupore.
Il Museo archeologico Nazionale di Napoli
Di provenienza ercolanese è, uno fra tutti, la curiosa statuetta a sfondo erotico-grottesco raffigurante Pan nell’atto di possedere una capra.
L’elemento sessuale è un topos mai abbandonato in area campana, dai graffiti falliformi riscontrabili persino nel piano di calpestio pompeiano agli affreschi delle domus, tanto pompeiane quanto ercolanesi, che attirano gli sguardi e i sorrisi dei visitatori.
La sessualità era una dimensione del benessere del tutto accettata nella cultura greca prima e romana poi. La sua rappresentazione era tutt’altro che volgare ma anzi si rifaceva ad una volontà superiore che era il concepimento, la riproduzione, cioè un’area indissolubilmente legata alla fertilità della terra. In proposito basti ricordare che la stessa parola “parto” è derivante dal latino “partus”, un sostantivo che trai vari significati include anche quello di “produzione, prodotto della terra”.
Dunque in una terra tanto florida il richiamo alla fecondità non è certamente fuori luogo o poco dignitoso. Se poi pensiamo ai “bordelli”, impropriamente detti, è da capire che per i costumi dell’epoca non era insolito praticare il benessere anche nei suoi eccessi, che poi diveniva forma di arte all’interno dei pannelli parietali, rappresentato come parte del quotidiano senza la pudicizia che alle sole epoche più tarde appartiene.
Il nudo è quel nudo sublime e perfetto che di umano sembra avere la sola ispirazione iniziale, che nessuno potrebbe descrivere meglio del Winckelmann difronte all’anatomica perfezione degli esemplari della collezione del Cortile del Belvedere, non lontani da quelli conservati a Napoli dove la collezione Farnese, giustamente posta nelle stanze più interne come l’altare di una chiesa infondo alla navata, distrugge le studentesche aspettative perché difronte a tanta maestosa perfezione non rimangono parole.
Nell’imponenza dei suoi 3,17 m, nella gravità dei pensieri che corrugano la fronte e nella maestosità della muscolatura, l’Eracle Farnese occupa una piccola saletta dove null’altro può trovare posto.
La copia romana conservata nel Museo napoletano riproduce una scultura della seconda metà del IV secolo a.C., la quale è, insieme ad altre 1500 che Plinio gli attribuisce, opera del genio di Lisippo. In quanto scultore, Lisippo, prende le distanze dal grande Policleto, che cronologicamente lo precede, la sostanziale differenza tra i due sta nella resa del corpo umano, che non è più come dovrebbe essere ma come si presenta.
Non è più un rapporto matematico a regolare il movimento nello spazio: le figure sembrano prendere animo nelle loro sproporzioni, riscontrabili, ad esempio, anche nell’Eracle a riposo, che presenta un capo decisamente più piccolo rispetto al resto del corpo che invece è tutto proteso in larghezza a rendere l’onnipotenza del soggetto osservato.
Eracle ha appena terminato una delle dodici fatiche rubando i Pomi delle Esperidi e l’anteriorità all’impresa è precisamente scolpita nel marmo perché proprio nella mano destra, che l’eroe, stanco, porta dietro la schiena, ci sono i Pomi.
Particolare è la scelta di rendere un momento così privo di azione ma denso di significato: impossibile non essere catturati dall’intima tristezza che costringe Eracle ad una dimensione riflessiva anziché autocelebrativa per l’impresa appena compiuta. Ogni cosa in lui esprime una stanchezza fisica ma anche emotiva, il peso è tutto portato a sinistra, con il corpo abbandonato sulla clava e il nemeo identificativo del personaggio, da cui il braccio penzola.
A questa dimensione tormentata si contrappone l’armoniosa vista della copia romana del Doriforo di Policleto: «l’equilibrio tra le membra del corpo è perfetto e la postura appare armonica, sciolta e naturale; si tratta tuttavia di una costruzione virtuale, che non presenta nessuna aderenza alla realtà»[5]. Nell’opera di Policleto la perfezione è raggiunta anche nella resa nelle ciocche ondulate, ordinatamente poste ai lati delle orecchie e nel controllo del movimento del corpo con il braccio destro posto in avanti in corrispondenza con la gamba sinistra e viceversa.
A chiusura della mia breve dissertazione su alcune delle mirabilie campane riporto ciò che per ultimo ho riservato durante la mia visita al Museo: La battaglia di Issos.
L’originale è attribuito a Filosseno di Eretria e servì da modello per la realizzazione di un mosaico nell’esedra della casa del Fauno a Pompei; esedra appartenente ad una fase ellenistica della casa che, come l’opera, risale almeno al 130 a.C.
L’opera mosaicata è davvero più piccola di come me l’aspettavo, eppure non per questo ho impiegato meno tempo a coglierne i dettagli che costruiscono quello che senza dubbio rimane uno dei mosaici più famosi dell’ellenismo.
Il campo di battaglia sfugge a qualsiasi tentativo di riconoscerne la provenienza, perché non viene raffigurato alcun elemento paesistico all’infuori di un unico albero, morto, sulla sinistra.
Il cielo è piatto e privo di espressione. A caratterizzare l’opera è un grande caos: i colori passano da un elemento all’altro senza pause, la luce è viva come se i secoli non potessero consumarne lo splendore. Tutto è spazio per le figure doloranti agonizzanti e morenti. La prospettiva è resa da corpi in battaglia e confluisce verso Alessandro: un cavallo di spalle, gli altri tesi in movimento, alcuni accompagnano i loro cavalieri alla fuga perché è entrato in scena il suo protagonista e qualcosa cambia ma anche i capelli mossi dall’azione, gli occhi sgranati, il corpo spinto in avanti senza paure. Dario stesso, dall’alto del suo carro, è inerme e non può far altro che indicarne l’arrivo; per cui il punto di fuga del quadro è totalmente decentrato per adattarsi all’epicentro dell’avvenimento, che è il solo arrivare di Alessandro, sulla sinistra del mosaico.
Camminare per i luoghi di coloro che ci hanno preceduto è senza dubbio un privilegio da esercitare con cura e la tutela alle nostre mirabilie è la carezza più delicata che possiamo porgere.
Ubi sunt qui ante nos fuerunt? La ricerca storica, adesso, diventa risposta.
[1] F. Pesando, Pompei. Le età di Pompei, 24 Ore Cultura, Milano 2012, p. 9.
[2] Cfr. I Pompeiani e i loro dei. Culti, rituali e funzioni sociali a Pompei. Atti della giornata di studi, Sapienza Università di Roma Odeon del Museo dell’Arte classica, fascicolo n. 3, a cura di E. Lippolis, M. Osanna, A. Lepone, Edizioni Quasar, Roma 2016, pp. 6-7.
[3] Cfr. Ivi, pp. 186-187.
[4] Cfr. E. Pesando, Pompei. Le età di Pompei, cit., pp. 36-39.
[5] G. Bejor, M. Castoldi, C. Lamburgo, Arte Greca, Mondadori, Milano 2013, p. 295.