di Giuseppe Coniglione
Quando nelle venture della esistenza mia capitai errabondo in Terris Humidis et Nebulosis lasciandomi de retro il tiepido invernare della Terra del Triskelion, mi sforzai comunque di non farmi mancare niente. Avevo deciso che anch’io sarei diventato un siculo-normanno della diaspora costretto per volere del fato a peregrinare mondo mondo alla sublime ricerca dell’essere e delle veritade molteplici ed indefinite. El Día de Los Muertos de unos años atrás, ero atterrato di notte e notte con la gravosa valigia dei grandi sogni dei piccoli esuli all’Aeroporto di Falconara Marittima con un apparecchio preso a buon prezzo e, usufruendo dell’ultimo convoglio ferroviario, acciuffato alla stazione di Ancona più per uno strano caso della vita che per meticolosa pianificazione strategica, ero arrivato più o meno due ore appresso in quella che sapevo sarebbe addiventata la mia umile dimora, nell’unica città italiana capoluogo di provincia il cui nome è accentato sull’ultima sillaba, ovvero Forlì.
Travagliavo, in quei periodami convulsi, presso un Soviet appen’oltre la Citade de le Due Torri e dei mattoni rossi ovunque presenti e trascorrevo le giornate mie più in un movimento vorticoso e continuo di vagoni su rotaia e autobussole affollate che con i piedi fermi in terra: ero appena entrato nel favoloso Ordine dei Pendolari Senza Rizzetto. Era stato che, quando avevo ricevuto la famosa chiamata al fronte che tutti i meridionali nel corso della loro vita attendono, mi avevano assegnato la missione implausibile di trovare casa in giorni sette, a Bologna y nel mes de noviembre, quando già l’enorme studentato proveniente da ogni dove aveva divorato ogni speme di poter arraffare un miracoloso pertugio accomodabile a mo’ di stanza: naturalmente fu un clamoroso fallimento frutto di un’inoculata avventatezza. Quindi, siccome ho la testa dura e a quel trabajo non avrei rinunciato per nulla al mondo, dopo una disperata ricerca e dopo centinaia di telefonate per ogni illusorio annuncio che riuscissi a scovare, il discorso era stato che dovevo arrangiarmi a Forum Livii, niente di meno che a oltre settanta chilometrate da dove avevo trovato impiego. Fu così che fui costretto a svegliarmi per mesi nove (come una lunga gestazione indesiderata) ogni matina alle ore cinque, quand’ancora era scuro, ed essere condannato a vedere sorgere il Sole ogni dì dal finestrino del treno più o meno tra Faenza ed Imola, ovvero presso quel labile confine immateriale tra l’Emilia e la Romagna già citato in altre occasioni. Tutto questo per poter essere a lavoro puntuale alle otto ad appena qualche tiro di schioppo oltre il fiume Reno, in quella che mi venne subito di rimentovare come la Renania Minor, per non confonderla con la germanica Rheinland del río Reno mayor.
Trascorrevo ogni dì in viaggio quasi più del tempo che passavo effettivamente al trabajo. La sera, quando arrivavo stanco alla Caserma, ovvero in quell’enorme palazzone di otto piani che era una specie di Casa dello Studente con le pareti interne di cartongesso e che imparai a malincuore a chiamare casa, mi sbrigavo a cenare in fretta e furia perché alle nove dovevo andare a letto consumato e confuso dal mio scoordinato moto e l’indomani sarebbe stato un altro prodigioso giorno.
Mi dissero tutti, scienziati e non, che il problema era stato il contratto, ovvero quei quattro fogli di carta che avevo firmato senza scanto dopo aver vinto il mio primo concorso a premi indetto dalla pubblica amministrazione: c’era scritto contratto di formazione e lavoro a tempo determinato per dodici mesi. Ma ancor’oggi credo che fosse, più che altro, ad avermi impedito di trovare una sistemazione più umana, la cupidigia de li denari che a tutti arridono o semplicemente la passione che ci avevo preso nell’essere perennemente in movimento come l’Universo e nell’ascoltare i discorsi, le fantasie e le speranze dei viaggiatori. Mi sentivo ogni giorno un poco come Silvestro Ferrauto, il protagonista del romanzo Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e, come lui, incontravo sempre Con Baffi e Senza Baffi, ma, a differenza sua, non mi ero fermato la notte a dormire a Vizzini, ero andato molto oltre filosoficamente parlando.
Ogni matina, quando agghicavo ansioso alla stazione di Bologna, tra la calca delle genti presciose d’irsene al travaglio, facevo una gran corsa nei sottopassaggi per non perdere la per me magica corriera della linea numero 91, che sarebbe partita lì davanti, da Piazza Medaglie d’Oro, in pochi minuti e che mi avrebbe condotto epicamente al di là del Reno pressappoco dove Ottaviano, Antonio e Lepido si erano incontrati per decidere sulle sorti di Roma ed avevano siglato quel pactum dai più conosciuto come ‘Secondo Triumvirato’. Durante quel quotidiano andare dentro quell’autobussola, in cui da un minutame all’altro poteva succedere di tutto, dopo aver solcato Via Emilia Ponente, oltrepassato il Pontelungo e il Quartiere della Birra, continuando sulla Via del Triumvirato alla ricerca anch’io della gloria, spuntava davanti ai miei occhi in tutta la sua grazia e freschezza l’Aeroporto di Bologna intitolato all’illustre scienziato, inventore del telegrafo senza fili, Guglielmo Marconi. La visione di quella lunga pista, degli apparecchi che ogni giorno incuriosito vedevo accelerare improvvisamente per il decollo o fare complesse manovre di volo nei cieli per atterrare, mi suscitava falotiche ed incessanti voglie picaresche. Mi chiesi: «T’immagini come sarebbe bello ogni mattina prendere un aereo per andare a travagliare ed un altro para regresar a casa?». Sarebbe stato bello e romantico, ma compresi subito che non era economicamente sostenibile un tal pretesa, viste le mie non infinite finanze. Ma quel canto delle sirene ce l’avevo ormai dentro la cabeza, ogni giorno la gana di essere su uno di quegli aereoplani colorati era irrefrenabile: non poteva esserci via di scampo al furor de viajar nel lungo andare, come se già non ne avessi abbastanza della mia vorticosa quotidianità.
Oltremodo, mi disegnava in volto una gran mestizia il dover tornare ogni sera alla Caserma solo per dormire su un letto qualche ora, sempre che i miei vicini di stanza lo consentissero. Vivevo al quinto piano di quel palazzone assieme ad altre più o meno quindici persone, alcune stanze erano singole come la mia, altre erano doppie, triple e persino quadruple, ogni camera aveva il suo bagno riservato ma la cucina, ahimé, era in comune e sempre affollata di gente che faceva un gran casino. Alla mia sinistra viveva un povero camionista toscano che aveva il gran difetto di guardare sempre partite di pallone imprecando ad ogni azione e contribuendo a farmi odiare il calcio. Alla mia destra, invece, viveva una studentessa universitaria ravennate che aveva il vizio di invitare spesso il suo ragazzo a dormire lì la notte e che forse era incosciente che tutto quello che facevano si sentiva su tutto il piano. Qualche camera più avanti c’era un macellaio napoletano di mezza età che viveva lì addirittura da diversi anni, cioè da quando aveva divorziato dalla moglie che, a suo dire, era diventata pazza. Ancora più avanti non mancava, oltremodo, una giovane coppia di brasiliani che litigavano da mane a sera e che avevano un bebè di pochi mesi che piangeva ininterrottamente. Poi, c’erano alcune camerate con studenti Erasmus polacchi, che friggevano continuamente pancetta e lasciavano la cucina in uno stato pietoso, ed altre con studenti Erasmus spagnoli, che amavano discutere ad alta voce e sghignazzare fino alle prime luci dell’alba. Oltre tutto questo, c’era anche un ragazzo emiliano sulla trentina che aveva fama di fare uso di sostanze stupefacenti ed era avvezzo ad organizzare rave party nella sua camera, elemento, questo, che accomunava più o meno tutti gli altri nell’odiarlo. Comprenderete, quindi, bene che, nei fines de semana che non lavoravo, diventava una smania non voler essere lì: avevo bisogno di essere in qualsiasi altro posto a prendere aria come il pomodoro secco in estate.
Arrivò, dunque, un bel sabato pomeriggio che non riuscii più a resistere e decisi di abbandonare per un po’ tutto quel bordello. Da Corso della Repubblica presi per il Piazzale della Vittoria e continuai a scendere per il Viale della Libertà, tra nomi, monumenti ed urbanistica di chiara impronta mussoliniana. Era giusto il percorso che facevo ogni mattina e in lontananza si poteva già vedere forse il luogo di quella città di cui fino ad oggi conservo il ricordo più indelebile e bello: la stazione di Forlì. Giunto lì in una decina di minutami a passo tranquillo, notai subito che già mi sentivo rasserenato. Diedi, quindi, una taliatazza al tabellone dei treni in arrivo e decisi in pochi secondi che sarei andato a farmi una bella passiata a Cesena, così per vedere chi c’era in giro. Mi accattai il boleto in una di quelle macchinette self-service presenti in tutte le stazioni d’Italia, che mi consigliò di “fare attenzione ai borseggiatori!” mentre digitavo sullo schermo e salii sul convoglio che passò giusto pochi minutami appresso. Non ebbi quasi nemmeno il tempo di assittarmi e godermi un po’ el paisaje dal finestrino, come ero avvezzo a fare, che partì il classico annuncio con la voz metallica ed ormai familiare prima nella lingua di Dante e poi in quella di Geoffrey Chaucer: “Siamo in arrivo a…FORLIMPOPOLI-BERTINORO! / We are arriving in… FORLIMPOPOLI-BERTINORO!”. Il nome di quella stazione e di quei luoghi mi suscitò subito magna curiositade e quando il treno, fischiando, lentamente si stava per fermare, mi accorsi che nessuno nel mio vagone si era alzato per prepararsi a scendere e pensai fosse tremendamente triste e irrispettoso da parte dei passeggeri presenti. Ergo, mi alzai senza sapere il come e il perché e decisi che a Cesena ci sarei andato un altro giorno, perché almeno una vez nella vita, ritenni, è giusto scendere a Forlimpopoli-Bertinoro. E non ne fui per niente pentito.
Uscito dalla piccola stazione non avevo molta contezza di dove mi trovassi e soprattutto del perché il Non-Essere aveva voluto condurmi lì. Mi si presentò davanti agl’occhi una lunga strada alberata con i marciapiedi ricoperti dalle foglie multicolori dell’autunno inoltrato e decisi di percorrerla dritta dritta fino in fondo. Ad un certo punto, spuntai meravigliato nella piazza di quella che i romagnoli chiamano Frampùl e che era stata l’antica colonia romana di Forum Livii Popilii, fondata verosimilmente nel 132 a.C. dal console Publio Popilio Lenate, in cui svetta un Palazzo con una torre dell’orologio che mi fu davvero piacevole alla vista e che mi misi ad esaminare per parecchi minutami. Preso da quella foga di studiarmi quel monumento, non mi ero accorto di quello che c’era dall’altro lato della piazza: una imponente rocca trecentesca dalla pianta più o meno quadrangolare, difesa da due poderosi bastioni di pianta circolare con feritoie, ma che probabilmente ab origine dovevano essere quattro, uno per ogni agnone.
Quell’inaspettata visione fu una gran sorpresa per la persona mia e volli, entonces, capire quale fosse la sua istoria. Questa rocca l’aveva fatta costruire illo tempore il cardinale spagnuolo Gil Álvarez Carrillo de Albornoz quando aveva avuto l’incarico (un po’ come me), da parte del papa Innocenzo VI, di mettere un po’ d’ordine nelle Terre della Chiesa durante il confuso periodo della cattività avignonese. Il grattacapo di questo cardinale, che era un esperto conoscitore dell’arte militare, fue che alla potente famiglia degli Ordelaffi di Forlì, spudoratamente ghibellini e signori anche di Cesena, di Forlimpopoli, di Bertinoro e di altre rocche, non era molto piaciuta questa pensata del sommo pontefice e quindi avevano voluto fare di testa loro non volendo essere suoi tributari e creando continue rogne al papa, tanto da farlo adirare facendogli indire una serie di terribili Crociate contro i Forlivesi che furono predicate in tutta Europa alle spese del già scomunicato Francesco II degli Ordelaffi, detto il Grande, e della agguerrita mogliera sua Cia degli Ubaldini.
Quando nel corso di tutti questi gran casini, dopo che Albornoz era riuscito con grande fatica a costringere gli Ordelaffi alla resa dopo un assedio della città di Forlì durato due anni, accadde proprio che quest’ultimi continuassero a tramare alle sue spalle e, giusto a Forlimpopoli, questi Ordelaffi (o chi per loro) avevano pensato bene di toglierselo di torno, ma, purtroppo per loro y por buena ventura dell’ecclesiastico condottiero, all’attentatore al momento di usare lo schioppo gli era tremata la mano ed invece di eliminare lo spagnuolo uccise il di lui povero ed incolpevole cavallo. Dopo questo spiacevole episodio, i Forlivesi si rivoltarono di nuovo all’autorità papale e il cardinale Egidio Albornoz, naturalmente, diventò un ferio e per rappresaglia mise a ferro e fuoco Forlimpopoli, ordinando di uccidere tutti i suoi abitanti e di radere al suolo l’antica cattedrale ivi presente (che era situata di fronte il Palazzo della Torre), decidendo di trasferire la sede vescovile nella vicina Bertinoro e le sacre reliquie del protovescovo San Ruffillo a Forlì.
Inoltre, l’ispanico, volle emettere una specie di damnatio memoriae nei confronti della città di Forlimpopoli, per quello che i suoi abitanti gli avevano combinato, cambiandone addirittura il nome in Salvaterra. Una volta soddisfatto della sua opera, decise, giustappunto, di riedificare più maestosa la preesistente Rocca costruita dagli Ordelaffi e di impossessarsene, per poter disporre sul loro territorio di una fortezza difficilmente espugnabile y en el mismo tiempo poterli tenere sempre a bada. Sin embargo, per buona fortuna degli amanti dei bei nombres, unos años después, un figlio di Francesco II degli Ordelaffi, di nome Sinibaldo, fu molto più docile rispetto ai genitori e riuscì a riappacificarsi col Papato ottenendo anche la restaurazione dell’antico nome. Se costui non ci fosse riuscito e l’annuncio sul treno sarebbe stato “We are arriving in… Salvaterra-Bertinoro!” probabilmente non sarei mai sceso in quella stazione ed avrei continuato fino a Cesena come previsto, evitandovi anche la fatica di leggere di queste vicende.
Pero las maravillas de Forlimpopoli no se acabaron allí, porque yo, dentro de esa Rocca, quería absolutamente entrar. Avevo visto che c’era pure il MAF, ovvero il Museo Archeologico di Forlimpopoli, intitolato al primo direttore Tobia Aldini, in cui erano presenti diversi mosaici e reperti di età romana di cui sono andato sempre ghiotto proprio come i tombaroli. Quindi mi recai all’ingresso e con noncuranza trasii.
Alla biglietteria non c’era niuno e mi parse un po’ pittoresco, quindi aspettai qualche minuto in silenzio come fanno le persone educate e i ladri, poi attisai l’orecchio perché sentii dei rumori provenire da altre stanze e dissi ad alta voce «Buonasera!» per farmi dare udienza. Venne subito un’impiegata che mi salutò un po’ stupita di vedermi e mi disse: «Stavo controllando le ultime cose. È venuto un po’ in anticipo!». Non riuscendo a capire bene, la taliai un po’ confuso e le chiesi: «È chiuso ancora? Sono venuto troppo presto?». La signora mi fece un sorriso e si spiegò: «La presentazione della mostra inizia tra un po’. Se vuole la faccio accomodare all’interno del teatro e la faccio aspettare là». Rendendomi conto di essere arrivato nel posto giusto al momento giusto, ricambiai con un sorriso sornione e le feci intendere che per me andava più che bene. Ordunque, mi disse di seguirla e mi condusse dentro il piccolo teatro intitolato al celebre compositore Giuseppe Verdi, proprio a pochi passi dal museo e sempre all’interno della Rocca, o Fortaleza che dir si voglia. La sala era semplice ma comunque graziosa e la signora mi disse di accomodarmi pure dove volevo, visto che non c’era nessuno, e se ne andò di nuovo a fare le sue cose. Mi guardai attorno per qualche minuto e mi sentii un tantino imbarazzato di trovarmi lì da solo e per puro caso, poi feci un giro e, a picca a picca, iniziò a spuntare qualcuno per l’inaspettata presentazione. Ogni persona che venne mi salutò calorosamente: pensai che i forlimpopolesi sono delle gran brave persone e sicuramente non mi sbagliavo. Ma in realtà credo che mi avessero scambiato per uno degli organizzatori.
Girovagando per il teatro comunale e continuando a ricambiare, di tanto in tanto, cordialmente i saluti, mi accorsi che c’era in bella vista una lapide in marmo di Carrara che portava memoria di un triste evento accaduto all’interno di quella sala quasi duecento anni orsono, che fotografai col mio telefono-mobile-device-android-smartphone (o chiamatelo come volete voi che v’intendete di tecnologie!) e che vi riporto, dunque, integralmente:
LA SERA DEL 25 GENNAIO 1851
STEFANO PELLONI
DETTO IL PASSATORE
GUIDANDO UNA MASNADA DI LADRI
INVASE LA CITTÀ
E IN QUESTA SALA
DECRETÒ IMPUNITO TAGLIE E RICATTI
CONSACRANDO AL RISO ED ALLA VERGOGNA
LA VILTÀ DEI GOVERNI
NON CONSENTITI DAL POPOLO
LIBERO E COSCIENTE.
Lindo Guerrini
Forlimpopoli, Settembre MCMIV
Leggere queste parole mi mise un po’ i brividi e, presagendo l’accadimento di altri tristi eventi, pensai quasi che fosse il caso di andarmene, prima che avvenisse di nuovo qualcosa di spiacevole. Tuttavia, amando il sospettato pericolo e sentendomi molto estasiato da tutto quello che mi stava capitando, decisi chiaramente di rimanere e, aspettando che principiasse la famosa presentazione, indagai sulla triste vicenda e ne scoprii quanto segue.
In quella sera del 25 gennaio 1851, all’interno del teatro in cui per una serie di misteriosi accadimenti mi trovavo, all’inizio del secondo atto della rappresentazione del dramma La morte di Sisara, fece irruzione la banda del brigante Stefano Pelloni detto il Passatore, per il mestiere del di lui padre che era appunto ‘traghettatore’ del fiume Lamone. I malfattori, puntando le armi contro il pubblico, salirono sul palcoscenico e, facendo l’appello, commisero violenze e rapinarono uno ad uno gli spettatori presenti in sala.
Dopo aver raccolto ogni avere dei presenti, i banditi, non ancora soddisfatti del bottino, con un inganno riuscirono a farsi aprire e ad intrare pure nella vicina dimora della rinomata famiglia di Pellegrino Artusi. Durante questa incursione, la povera Gertrude, a differenza delle altre due sorelle di Pellegrino che erano riuscite a nascondersi chiudendosi dentro il camino e non furono scoperte, dovette subire ripetute violenze da quei barbari. Fu trovata, in seguito, in uno stato confusionale, sui tetti delle case dei vicini, dove ad un certo punto la povera ragazza era riuscita a scappare, ma, per il trauma subito non riuscì più a riprendersi, cadde nella pazzia e dovette essere rinchiusa presso il manicomio di Pesaro, dove morì a soli 49 anni. Dopo quel triste episodio, gli Artusi svendettero la loro casa a Forlimpopoli e si trasferirono a Firenze, dove riuscirono a sentirsi di nuovo al sicuro e rilevarono un banco di vendita della seta in Via dei Calzaiuoli, che si rilevò una mossa straordinaria per le loro fortune. Qui, Pellegrino Artusi, grazie al notevole capitale accumulato con quell’attività, si ritirò a vita privata nel Villino Puccioni dove aveva stabilito la sua dimora e decise di godere dei frutti del proprio lavoro dedicandosi interamente alle sue passioni, la letteratura e la gastronomia, pubblicando due opere di critica letteraria ed, infine, il libro che lo rese celebre, ovvero La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, di cui curò quindici fortunate edizioni a proprie spese in un ventennio. Sin embargo, quando terminò la sua lunga vita, non si era dimenticato del luogo che gli era stato più caro e nel suo testamento lasciò tutti i suoi averi al Comune di Forlimpopoli, che, ancora oggi, onora ogni anno la sua memoria con la Festa Artusiana e il Premio Pellegrino Artusi.
Ad un certo punto e virgola, rinvenni dalle mie riflessioni artusiane perché una anziana signora m’interruppe e mi chiese un po’ seccata: “Dottore, mi scusi, ma quando inizia la presentazione? Dovrebbe essere già ora. Mauro ancora non è arrivato?”. La guardai con un sorrisino e le dissi per rassicurarla col mio riconoscibilissimo accento siculo-normanno e allargando le braccia: “Tra poco arriva. Un po’ di pazienza.” Udendo il mio accento forastiero mi guardò un po’ stranita, ricambiò il sorriso e si rese conto che mi aveva confuso per qualcun altro.
Mi sedetti, dunque, su una comoda poltrona ancora libera, visto che nel frattempo il teatro si era quasi riempito, e dopo pochi minuti venne l’Alcalde di Forlimpopoli, che fu salutato calorosamente dai presenti ed aprì la presentazione con un bel discorso. Scoprii in quello stesso istante che si trattava dell’inaugurazione di una curiosa mostra sulle abitudini alimentari degli uomini del neolitico, partendo dalle analisi di diversi crani preistorici rinvenuti nel territorio alcuni studiosi presentavano i risultati delle loro ricerche. Intervennero tra i relatori alcuni eminenti professori dell’Alma Mater Studiorum(per i più, semplicemente Università degli Studi di Bologna) di bioarcheologia e di osteologia forense che spiegarono, appassionatamente, come, dalle lacerazioni presenti nei denti degli uomini del neolitico e dal materiale organico pervenuto all’interno delle loro sepolture, era stato possibile ricostruire quello di cui effettivamente si nutrivano: semi, animali, frutti selvatici ed, incredibilmente, a volte anche altri uomini. A quanto pare nelle occasioni speciali venivano eseguiti sacrifici umani e quindi, spiegarono, tra lo stupore dei presenti, che l’antropofagia era una cosa molto comune tra le genti di quel periodame. Fu davvero, nonostante il mio scetticismo iniziale, una presentazione sfiziosa. Quando terminò, tra gli applausi, gli organizzatori ci condussero finalmente presso il Museo e lì ci mostrarono e spiegarono accuratamente i reperti preistorici che avevano analizzato e le loro scoperte.
Quando fui sazio di tutto questo, galvanizzato dalla visita a quella straordinaria cittadina, ritornai alla stazione da cui tutto aveva avuto origine e rientrai soddisfatto alla Caserma dove constatai, con profondo rammarico, che il toscano e il napoletano si erano riuniti per imprecare ed assistere assieme alla diretta a volume spianato di un’altra interminabile partita di pallone. Fu in quella occasione che mi feci finalmente convinto che passare tutti i giorni davanti all’Aeroporto di Bologna senza scendere fosse un gran peccato…