Tornare dove il Tempo si ritrova. Sugli ultimi Pavese e Proust

di Enrico Palma

  

I’m a traveler both time and space

To be where I have been

Led Zeppelin, Kashmir

 

Il cosiddetto Temps retrouvé, eponimo del settimo e ultimo volume della Recherche, non è il tempo perduto che ritorna cum gratia negli attimi estatici della memoria involontaria ma, in un modo che può stranire, è il Tempo come implacabile divenire e causa inesausta di trasformazione. Il Tempo come materia creatrice che è indifferente alle sorti umane, che vince le rocce, che non dà tregua ai corpi, che è un moto incessante e che dalla sua profondità luminosa è senza sosta anch’Esso. Il vero tempo, infatti, non è quello evocato e restituito dalla memoria involontaria, poiché esso è l’Eterno che non viene ritrovato bensì scoperto. Tale tempo è quello che il Narratore riscopre ritornando dall’Eterno in cui era approdato, cioè entrando nel salone in cui stava avvenendo la grottesca cerimonia funebre del famoso Bal des Têtes

C’è tuttavia un ritorno per Proust, fisico e corporale, che possa essere anche un ritrovamento? Non c’è dubbio che nella Recherche ci siano almeno due episodi di ritorni in luoghi nei quali si era stati un tempo: la seconda Balbec e proprio alla fine, cioè all’inizio del Temps retrouvé, la seconda Tansonville, quando il Narratore soggiorna dall’amica Gilberte. E però, se la speranza era di essere confortati da una forse troppo semplice e direi anche ovvia constatazione alla luce di ciò che accadrà a palazzo Guermantes qualche centinaio di pagine dopo, la risposta che si ricava è un durissimo no. Cos’è nondimeno che fa percepire nelle pagine proustiane l’avvisaglia di una fondamentale consonanza con il maestro del ritorno per antonomasia della letteratura del Novecento, e cioè Cesare Pavese? Si tratta di un’opportunità di comodo, talché l’insufficienza proustiana ravvisata nel ritorno in carne e ossa dove si era vissuti sarebbe solo, au contraire, un faro che fa brillare in modo più luminoso le tesi pavesiane? Oppure c’è una convergenza tematica importante e su cui riflettere a fondo? Il mio tentativo sarà quindi provare a leggere con tale chiave ermeneutica i grandi capolavori degli ultimi Pavese (La casa in collina La luna e i falò) e, sebbene in modo più marginale, Proust (Le Temps retrouvé), cercando di cogliere ciò che entrambi senza essere accostati avrebbero forse tenuto nascosto. E tutto ciò lo si farà tenendo conto di una formidabile nota nietzscheana che, apostrofando l’antiquariato della storia e chi lo pratica con convinzione, e pur nella sua tagliente ironia, esprime in modo veramente magnifico la tonalità delle considerazioni qui presentate e che cito nella sua ampiezza:

 

Ciò che è piccolo e limitato, decrepito e invecchiato riceve la sua propria dignità e intangibilità dal fatto che l’anima dell’uomo antiquario, la quale custodisce e venera, trapassa in queste cose e vi si prepara un nido familiare. La storia della sua città diventa la storia di se stesso; egli concepisce le mura, la porta turrita, l’ordinanza municipale, la festa popolare come un diario illustrato della sua gioventù, e in tutte queste cose ritrova se stesso, la sua forza, la sua diligenza, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e le sue cattive maniere. Qui si poteva vivere, egli si dice, giacché si può vivere; qui si potrà vivere, giacché siamo tenaci e non ci si può spezzare da un giorno all’altro. Così, con questo “noi”, egli guarda oltre la caduca e peregrina vita individuale, e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe e della città.[1]

 

1. Tornare dove il Tempo distrugge

 

Se no, tornerò dov’ero,

conclusi viaggio e tempo;

là – amare non potevo,

qui – amare mi spaventa[2]

 

La casa in collina è un romanzo crepuscolare, che alla gioia di ricordare e di riconoscere quello che si è stati coniuga in modo lucido e disincantato la dispersione della vita e della storia, nonché il male che intride entrambe[3]. Corrado, il protagonista, potrebbe essere il tipico modello di intellettuale subissato dagli eventi più grandi di lui e che lo sovrastano, occasioni in cui le sue humanæ litteræ sembrano proprio non servire ed essere state sostituite da un’urgenza più intima e da un modo diverso di rispondere alle domande quotidiane di un vivere sconvolto. La collina a cui salire la sera è infatti proprio ciò, una vita altra, plausibile poiché si sa in un modo o nell’altro di averla vissuta già una volta. La giustezza di questo tempo passato, il modo in cui lo si trascorreva pieno di feste, balli e amicizie, viene messo in crisi dalle fiamme di una cocente incertezza insieme storica e destinale, e direi anche originaria, natale e atavica. Il celebre motto pavesiano di vivere «con gli altri e per gli altri»[4] che ritorna nella prima pagina di questo romanzo, l’affido cioè all’alterità come destino, anche cristologico, di compimento individuale nel darsi à les autres in quanto evento ontologicamente fondativo del nostro esserci, è seriamente posto in dubbio, talché di fronte alla cloaca bellica tale afflato si riduce a un’entità né pensabile né pronunciabile.

Il cane Belbo, le voci stanche e suadenti delle vecchie e la luna nascente all’imbrunire richiamano Corrado verso la collina, lì dove risuona un antico vociare, un’atmosfera di giovialità e di feste passate ma ancora udibili in quei sentieri e in quelle forre. Su tutto ciò, tuttavia, «il gran buio pesava, copriva ogni cosa», un luogo nel quale «l’antico indifferente cuore della terra covava nel buio»[5]. Torna alla mente la «gran luce»[6] de Il diavolo sulle colline, ma a Corrado riaffiora, come una sorgente al disgelo della primavera, il ricordo del ragazzo che è stato, al quale chiedere in quel buio e in quella indifferenza generali un po’ di compagnia e di spiegazioni a tale mesto vivere. Dalle stelle piovono le luci dei ricordi ed esse cadono dal cielo a ogni piè sospinto. In mezzo a quella gente, tra i ragazzi in cui Corrado rivede il suo sé passato di quando viveva come loro, egli prende consapevolezza del vuoto della vita di adesso, avverte un odore antico, un potente richiamo che gli fa provare un sapore remoto da seguire con quell’istinto mitico-irrazionale che lo riconnette al mondo perduto e coperto dal buio[7].

Rivede la donna con cui stava prima di lasciare la collina, Cate, verso la quale era stato un villano, insensibile e brutale, la cui presenza lo riempie di pressanti domande sul ragazzo che era stato una volta e per il quale lui non aveva fatto più nulla se non dimenticarlo. La donna che ritrova ha ora un figlio, suo figlio, Dino, nel quale Corrado riconosce ciò che era stato, un segreto che solo il suo stesso sangue che ora scorre in quel bambino può finalmente rivelargli. Forse però la vera Cate era la prima Cate che aveva conosciuto e per la quale non aveva provato niente, proprio come il Narratore proustiano che solo dopo decenni scopre, con una commovente rivelazione, che Gilberte era stata innamorata di lui e che la sua sortita con la zappetta in mano era un tentativo malriuscito di attirare la sua attenzione, con l’unica differenza che Gilberte prima contava tutto e ora nulla. Al contrario di Corrado, per il quale Cate assume adesso tutt’altra importanza. Quanto è contradditorio infatti il cuore umano, affermerebbe Proust, o, per meglio dire, quanto è criminale l’immaginazione che lo fuorvia, essendo l’oggetto amoroso la totale produzione da parte del soggetto innamorato, che costruisce sulla mediocrità dame più incantevoli e desiderabili di qualunque bellezza tizianesca.

La luce della luna, come una magia, mostra le cose che sono state per come erano veramente. Nel torpore esistenziale di Corrado un che di indefinibile stava realmente avvenendo, quel qualcosa che non sai di aspettare ma che quando accade ti accorgi che lo stavi aspettando da sempre, e cioè proprio il ritorno che, nell’intervallo temporale nel frattempo intercorso, fa intra-vedere le cose nella loro vera essenza. Tuttavia sembra negare ciò il Narratore della Recherche, il quale, passeggiando per i sentieri sui quali camminava quando era bambino, finisce per esclamare: «J’étais désolé de voir combien peu je revivais mes années d’autrefois»[8]. Incedere per quelle strade, che avrebbe dovuto significare per lui una strabiliante schiusura degli anni passati, come l’aprirsi dei boccioli di ogni fiore che con la sua sola presenza dovevano concedere il loro profumo, l’esser lì non gli suscita alcunché: non avverte, tra il flusso vitale di adesso e quello di una volta, «cette contiguïté d’où naît avant même qu’on s’en soit aperçu l’immédiate, délicieuse et totale déflagration du souvenir»[9]. Più che di una deflagrazione si tratta dunque di una picconata nel ghiaccio, troppo spesso per poter essere infranto e per scorgere l’essenza che vi sta sotto. È assai strano infatti che il Narratore non reagisca e rimanga inerme, ma cionondimeno tali affermazioni, in contrasto con quanto mostrato dalla narrazione pavesiana, preparano il climax verso il fatidico palazzo Guermantes e la faretra di folgori della memoria involontaria. 

Tuttavia, riandando a Pavese, la gioia di questa riscoperta determinata dal ritorno è turbata da un male irredimibile che ci portiamo dentro, almeno con la stessa profondità del mondo perduto a causa del distacco dell’adultità. La città da cui Corrado si era allontanato in cerca delle risposte ai dubbi su chi era stato in tutti quegli anni è minacciata dalla guerra, che è contro l’occupante e poi partigiana e civile. La repulsione verso la distruzione dell’oggi è dunque motivo di una ritirata ancora più decisa verso la collina, un retrocedere al luogo in cui stare in pace e ritrovare, nella consapevolezza non perduta poiché mai posseduta, la serenità necessaria al riequilibro interiore, alla riflessione su ciò che è davvero conoscenza, quel calore della vita e la sospensione della morte che, nel ricordo eretto a scudo contro il conflitto, trasfigurano e danno requie. La guerra infatti non tarda ad arrivare anche lì, nei sentieri, nelle vigne, nelle antiche piazze delle feste d’estate, a uccidere i contadini, ad affamare chi viene risparmiato, a privare del cibo dell’anima e di un’ostia di salvezza. 

La Guerra arriva anche nella Combray della Recherche, ma non è il Narratore a raccontarcela direttamente bensì Gilberte, a cui Proust decide di dare la parola attraverso una toccante lettera indirizzata al suo cher ami[10]. Piuttosto che nel Narratore, è curiosamente in Gilberte che cogliamo il senso del ritorno: la prima volta era tornata per sfuggire ai tedeschi; la seconda perché le era insopportabile l’idea che la guerra distruggesse il suo castello, il mondo in cui era stata bambina e nel quale aveva vissuto in modo così affettuoso e caro. E Proust riporta la lettera di Gilberte senza far dire una parola di commento al Narratore. È in questo snodo che inizia a costituirsi un’insormontabile differenza: il narratore pavesiano solo tornando può capire chi è; il Narratore proustiano è vero che torna, conosce ciò che egli era stato e che non sapeva di essere, ma tutto questo lo lascia in modo sorprendente, come abbiamo visto, totalmente inerme. Proust non cerca l’origine di ciò che è stato, non ritiene che nell’esperienza originaria giaccia il suo vero io: egli cerca l’uomo eterno che ascoso e in attesa ha covato in lui e che solo l’epifania della memoria involontaria può rivelargli.

Se il Narratore proustiano vive dunque con amara rassegnazione il mondo gettato nella tenebra della guerra, del vizio e delle spettacolari acrobazie sociali che avevano riscritto la gerarchia dell’alta società parigina, il Corrado di Pavese ha ancora un rigurgito di ottimismo, forse da intendere come il preambolo a una sconfitta emotiva, esistenziale e cosmica ancora più grande e cocente: «Eppure tutto continuava. Sorgeva il mattino, calava la sera, maturava la frutta. M’aveva preso una speranza, una curiosità affannosa: sopravvivere al crollo, fare in tempo a conoscere il mondo di dopo»[11]. Un mondo che ancora per lungo tempo sarebbe stato pieno di macerie, come quelle di una Torino ormai spenta nella notte dall’infuriare dei bombardamenti e che tanto somiglia per atmosfera alla Parigi del 1916 in cui passeggia il Narratore, ma forse ben più martoriato nei cuori di chi avrebbe visto i cadaveri, non importa se di amici o nemici, e di chi con gli occhi pieni del loro sangue sarebbe sopravvissuto. Si sperava nella fine imminente della guerra affinché essa non giungesse alle colline, si anelava ardentemente alla salvezza ma «la salvezza non venne»[12]. Il desiderio di pace e di serenità, la fiducia in quella vita festante e briosa con gli altri e per gli altri aveva assunto agli occhi di Corrado tratti farseschi, divenendo quasi una beffa. 

Corrado sembra denotare la stanchezza di vivere di Pavese, una spossatezza che a un certo punto sorprende tutti ma che diventa preponderante quando si cammina tra le orme di corpi divenuti nel frattempo cadaveri e ci si imbratta del loro sangue, quando alla bontà transitiva verso gli altri si ottiene in risposta un colpo di fucile o la paura di essere beccati e giustiziati per una forse insensata partigianeria. 

Il professore Corrado desidera dunque la sua pace, ed è nel massimo scoramento che sembra provarla, entrando in una chiesa, in un attimo di preghiera autentica poiché sgorgante da una profonda necessità interiore, in una pagina di altissimo pathos e di raggiunto apice letterario: «Bastava la pace, la fine del sangue sparso. Ricordo che stavo attraversando una piazza e il pensiero mi fece fermare. Trasalii. Fu quella una gioia, una beatitudine inattesa. Pregare, entrare in chiesa, pensai, è vivere un istante di pace, rinascere in un mondo senza sangue»[13]. Pavese sembra dire che per sfuggire alla guerra, la quale non è altro che la metafora della distruzione della vita sempre più feroce e quasi punitiva del passare degli anni, la tenebra del mondo che ci possiede per il solo fatto di durare più a lungo, non è sufficiente tornare alla collina illuminata dalle luci delle stelle, non basta ritrovare Cate e rileggere la vita passata nel sangue che ha ripreso nuova impeto in Dino: forse è necessario retrocedere ancora, rinserrarsi in una solitudine estrema. 

La preghiera, per quanto importante e liberatoria, costituisce infatti solo una sospensione: «L’essenza dell’esperienza orante è qui la pacificazione interiore, l’anticipazione effettiva di un mondo redento, in pace, senza sangue, in cui si rinasce, si ricomincia. Il punto è, per Corrado, il parallelismo possibile fra la calma interiore ottenuta attraverso la fine della guerra e l’istante della preghiera che ogni volta offre all’orante una caparra dell’eirēnē attesa»[14]. Ma anche ciò risulta non avere alcun senso, poiché questo «sgorgo di gioia»[15], tale ineffabile percezione di una salvezza è questione di un solo attimo, un flebile sussurro con cui comprendere che alla fine è totalmente inutile anche tentare di ottenerla in modo definitivo. «In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di esser ben nascosto. Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia. Volevo esser buono per esser salvo»[16]. Una salvezza umile, una richiesta semplice e proprio perché tale in fondo la più complessa e irrealizzabile, come far sanguinare un dio fatto non di carne ma di pura luce, una pace da cercare ancora una volta nella preghiera, ma verso chi pregare, sebbene sia stata evocata una chiesa come luogo di raccoglimento, Pavese lo lascia inespresso. 

È quindi una considerazione assai amara, un’arrendevole consapevolezza per cui è anche vano insistere nel rimediare al male nel mondo senza prima aver risolto quello che si ha in sé. Corrado è uno sconfitto ragionevole dalla vita e dalla storia che invoca per sé almeno la pace per finire i suoi giorni, in cui preservare intatto il mito della sua felicità infantile e primigenia. «Quel vecchio mondo del culto e dei simboli, della vigna e del grano, delle donnette che pregavano in latino ma capivano in dialetto, dava un senso ai miei giorni, alla mia vita rintanata. Non c’era nulla di diverso: vedevo bene che dai boschi ero passato in sacrestia»[17]. Che significa fuggire da una solitudine per rinserrarsi in un’altra ancora più radicale.

Costretto però a scappare dal collegio per via della minaccia di un delatore, Corrado attraversa le campagne e le strade che insieme alla sua gente gli «vivevano nel sangue e nel chiuso ricordo»[18]. Quella gente che trovava morta per strada aveva i suoi stessi ricordi, aveva il suo stesso sangue, che era nell’uva e nella maturazione dei frutti. La nube di morte e d’acciaio della guerra e del Tempo distruttore, com’è chiaro anche nella Recherche[19], aveva opacizzato l’esistenza, l’aveva fatta perire nella tenebra in cui, in hora mortis nostræ, gli esseri umani acquistano dal loro fundus vitale, o dalla loro fine, l’uguaglianza che solo chi resta può cogliere, concepire e anche patire. Il ritorno che doveva essere ricordo e ritrovamento è certamente stato tale, ma ha significato una ancor più profonda amarezza, poiché i loro vapori molto presto vengono trafitti da un presente in rovina, tanto da poter dire che questa guerra, che finisce davvero solo per i morti, e che è in fondo la vita di tutti noi, non è altro che la forma divenuta comprensibile del buio dello stare al mondo, di un male che, pensando al mito e a quel ragazzo a cui si chiede ragione, è tale proprio perché si dura ancora a vivere[20].

 

2. Tornare dove il Tempo risorge

 

Per la somaticità temporale che siamo risulta vitale trovare da qualche parte una Heimat, un terreno, una casa, un luogo nel quale abitare con fiducia. Un bisogno che nasce anche dal nostro sentirci estranei a ogni particolare dimora.[21]

 

La luna e i falò è un libro amaro, come del resto comprendere la vita. Un romanzo sulle radici, sulla necessità di averle, sullo sforzo salvifico di farle di nuovo germogliare quando la foresta della vita è ormai tutta arsa. Anguilla, il protagonista, è stato in America, ha voluto fuggire dal suo paese, vedere il mondo al di là di esso, credendo, erroneamente, che oltre il profilo collinare così tanto familiare e divenuto insopportabile, e oltre Genova e di là dal mare, ci fosse la salvezza. Quando si è piccoli e creduloni intorno al mondo, si è convinti fermamente che rispetto al proprio paese i luoghi, le genti e la vita intera siano migliori in qualunque altro posto si vada. Si fantastica perciò su Venezia, Firenze, il mito tedesco o, nel caso di Anguilla, il non per nulla casuale american dream

Quel paese però lo si porta dentro, è lo spaziotempo nel quale con il nascere siamo stati gettati, e ciò diviene ancor più evidente perché Anguilla, un po’ per ironia della sorte, o per meglio dire per sottigliezza narrativa da parte di Pavese, è un trovatello, ovvero chi non ha radici e identità nella carne di nessuno, chi, in modo emblematico, deve acquisirle da altri, dai suoi affidatari, da coloro che nel bene e nel male si prendono cura di lui, ma soprattutto dal suo paese, ovvero dalle piazze, le strade, le cascine, le bigonce, le stelle e i riti popolari come i falò a settembre bruciati per far piovere e per rendere più feconda la terra. E questo accade perché «l’Esserci, l’uomo – la vita – viene già sempre nelle cure degli altri, in cui è già sempre appagato, “a casa propria”; cure che gli mediano il mondo e la vita»[22].

Non avere un luogo nel sangue significa non essere nessuno, non sapere chi si è. Siamo dunque all’opposto del paradigma moderno dell’uomo che si fa da sé come frutto di una sociogenesi aggressiva e dimentica della naturalità, anche biologica, da cui è tracimato il nostro essere, a prescindere dunque dal nucleo fondamentale di base della famiglia o anche più semplicemente dal profilo delle colline che si scorge ogni mattino della propria infanzia al risveglio. Avere un paese significa avere i propri morti in un cimitero, sapere dove si trovano quegli avi che sono «il terreno sotto i piedi dei vivi»[23], avere una moglie e generare un figlio che possa somigliare a loro in modo da potersi riconoscere e sapere finalmente chi siamo. 

Un paese pur ci vuole, dice Pavese, una frase divenuta l’effigie della sua letteratura, un paese in cui sono infitti nelle pietre, negli alberi, nei profumi, nel tramonto, i pezzi della nostra anima di cui senza saperlo ci siamo liberati, la perdita dei quali ci fa soffrire nell’aspirazione spesso spasmodica e inconsapevole a ritrovarli. E sradicarla è impossibile. Si può al massimo tentare di allontanarsi per un po’, provare ad avere fortuna in luoghi anche remoti, ma il ricordo resta, urla forte e intenso il richiamo dei giorni felici che si trovano nei luoghi in cui si è cresciuti prima che l’adultità rivelasse il vero volto della vita, il dolore. Dopotutto come chiosa Pavese: «Queste cose si capiscono col tempo e con l’esperienza»[24].

Il tempo crea la distanza e accumula il dolore per un luogo in cui la felicità di un passato irrintracciabile è fuori portata. Secondo Pavese il passato non torna ma si può tornare nel passato andando nei luoghi in cui un tempo siamo stati felici e che custodiscono tale felicità in ogni vigna, filare e vecchia conoscenza. Anguilla dice di essere tornato. Ma lo è veramente? Si tratta dello stesso paese in cui aveva vissuto? Le vecchie persone non ci sono più, gli amici di un tempo, come Nuto, sono cambiati, non suonano più il clarino e hanno messo su famiglia. Andare per quelle strade, tuttavia, rievoca in lui ciò che aveva perduto con la fuga e gli anni di assenza. Ma è un vero ritrovamento?

Per Pavese è sufficiente tornare al proprio paese per ritrovare ciò che si era perduto, per iniziare con una consapevolezza diversa da dove si era lasciato, una consapevolezza per cui ciò che conta davvero era in quelle colline, nel trovarsi «un pezzo di terra quant’è lunga una donna»[25], nel fare un figlio da lei e stabilirsi lì? In America non poteva avere tutto questo? Non c’erano terre, soldi e lavoro a sufficienza per tutti? Ma come poteva Anguilla prendere in moglie una che non gli avrebbe svelato il segreto del suo sangue, una che era cresciuta sotto una Luna diversa, aspra e rossastra, e che non sapeva nulla dei falò? Anguilla, con il ritorno a casa, fa come Proust e la sua madeleine, che lo apre alla gioia nel tempo ritrovato della sua Combray? 

Difficile rispondere a questi interrogativi. Per Proust i paradisi autentici sono quelli che si sono perduti[26], e fin qui si è in linea con Pavese, ma per lo scrittore francese tali paradisi si ritrovano soltanto in se stessi, nella memoria, nella materiatempo che l’analogia creata da anni lontani mette in contatto annullando il divenire ed esautorando l’esserci dal tempo stesso. Anguilla tocca le cose, le annusa, le assapora, si fa raccontare il tempo perso da Nuto, e di riflesso entrambi si raccontano a vicenda le storie della loro infanzia. Il tempo parla in quei luoghi nel miracolo della rimembranza, che è un portare al corpo un passato sepolto, una preghiera ai sepolcri della memoria disseminati per le strade e gli anfratti del mondo che ci rivelano a noi stessi. La verità di quei luoghi, l’impressione originaria che ci svela chi siamo stati, du côté de chez Proust, viene invece bollata come totalmente insufficiente: 

 

Je savais que la beauté de Balbec, je ne l’avais pas trouvée quand j’y étais, et que celle même qu’il m’avait laissé, celle du souvenir, ce n’était plus celle que j’avais retrouvée à mon second séjour. J’avais trop expérimenté l’impossibilité d’atteindre dans la réalité ce qui était au fond de moi-même; que ce n’était pas plus sur la place Saint-Marc que ce n’avait été à mon second voyage à Balbec, ou à mon retour à Tansonville pour voir Gilberte, que je retrouverais le Temps perdu, et que le voyage, qui ne faisait que me proposer une fois de plus l’illusion que ces impressions anciennes existait hors de moi-même, au coin d’une certaine place, ne pouvait être le moyen que je cherchais.[27]

 

E ciò perché, per Proust, sono le sensazioni che la nostra intelligenza non registra e provocate dalla memoria involontaria a scovare il Tempo perduto e a portarlo alla luce. Non è semplicemente tornando dove si è stati che può accadere l’incanto.

La questione genera allora un paradosso molto complicato da sciogliere, poiché è facile ravvisare un’insufficienza molto netta nella posizione proustiana, tanto che dalle pagine di Pavese mi sembra che si evinca una qualche forma di compimento più alto: quando si è bambini, si cresce e si annusano le ragazze per la prima volta e si vorrebbe passare da loro dietro al canneto, ogni luogo e situazione sembrano essere più belli e ricchi del posto in cui si vive; quando si è grandi e il tempo di cogliere una ragazza deve essersi compiuto, quando il ciclo deve ricominciare da te con la generazione, quella bellezza e quella ricchezza a cui si aspirava, fuggendo da quei posti diventati infernali, sembrano essersi disfatte per sempre, maturando in più una consapevolezza che mai si sarebbe supposta, per cui quelle cose sono state vissute ma senza averne avuta la benché minima contezza. Per lo scrittore piemontese il ritorno serve proprio a ciò, a scoprire quanto un tempo si è stati felici senza però esserne stati consapevoli e come povera sia adesso l’esistenza senza un paese, senza poter prendere moglie e regalare un figlio a quella terra, per rivedere in un altro essere, a me il più vicino, quello che ho vissuto e che adesso ho smarrito. 

La luna e i falò mi sembra la storia dell’agnitio di tale smarrimento e di quanto sia miserabile la vita di un oggi distante da quegli anni ormai franati per il pendio della vita incassato tra la vigna e il campo di grano. Rimane solo qualche traccia, che è nella Mora, lì in alto nella Gaminella, nella sventura di Cinto, ma soprattutto nei racconti di Nuto e Anguilla, la parte più cospicua del romanzo, che solo a questo punto si tramuta in reminiscenza. È la possibilità che questi racconti possano farsi e che ci sia ancora qualcuno con cui poter narrare a costituire una speranza, una salvezza, che per Pavese genera la letteratura e spinge a scrivere un romanzo come questo. Il ritorno ci fa dunque capire cosa abbiamo perduto, ci rende consapevoli della felicità che abbiamo avuto senza saperlo e ci spalanca i cancelli della tragedia che è il vivere, nel quale, come unica speranza, nel deserto in cui la vigna è morta e la stilla dell’uva non bagna più la terra, ci sorreggono le radici e la possibilità di poterle raccontare. Più di un decennio prima Pavese, in modo folgorante, aveva marchiato col fuoco poetico tale afflato concludendo così Lavorare stanca: «Val la pena tornare, magari diverso»[28].

Giunto a Genova, Anguilla prova un’immensa delusione, che sarà centuplicata arrivando in America, tanto da dirsi tra sé e sé: «C’era il porto, questo sì, c’erano le facce delle ragazze, c’erano i negozi e le banche, ma un canneto, un odor di fascina, un pezzo di vigna, dov’erano? Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m’ero accorto, che non sapevo di saperla»[29]. Il distacco ci comunica, con il silenzio del luogo dal quale si è fuggiti, che qualcosa reclama d’essere ancora invocato, ed è il ritorno a farci avvedere di tutto questo, a farci sapere di sapere ciò che avevamo perduto. Il tempo ha staccato gli anni felici dal tempo stesso, ne ha fatto qualcosa, dunque, di extratemporale, di mitico, qualcosa che sta lì, intangibile e ineffabile ma pur presente e che si deve riannodare alla vita attuale, alla vita-che-ritorna. Il mito che è l’insieme delle tradizioni del paese che non ci sono da nessun’altra parte, che è le amicizie di una volta, il rossore che colora le proprie guance al contatto con la ragazza per cui ci si strugge, la sua compagnia, l’esserne gelosi, desiderarla sopra ogni altra cosa. 

Come può ritornare tutto ciò sotto la luna americana che giustamente fa spavento, con una ragazza, Rosanne, che come la Calipso de L’isola potrebbe dire ad Anguilla: «Ma da quando sei giunto hai portato un’altr’isola in te»[30], che ignora tutto ciò e che benché possa anche dargli un figlio il suo sangue sarebbe solo una menzogna? 

 

Ho pensato sovente che razza di figli sarebbero potuti uscire da noi due – da quei suoi fianchi lisci e duri, da quel ventre biondo nutrito di latte e di sugo d’arancia, e da me, dal mio sangue spesso. Venivamo tutti e due da chi sa dove, e l’unico modo per sapere chi fossimo, che cosa avessimo veramente nel sangue, era questo. Sarebbe bella, pensavo, se mio figlio somigliasse a mio padre, a mio nonno, e così mi vedessi davanti finalmente chi sono.[31]

 

Sconoscendo i suoi padri, non sapendo sotto quale lapide Anguilla il bastardo abbia i suoi avi, l’unico modo che ha per conoscersi è generare, oppure, e qui giungiamo alla centratura ontologica che cercavamo, scrivere. Anguilla narra allora la sua infanzia, gli anni nel paese, alcune avventure di gioventù con Nuto e un gruppo di sorelle, dei giri sul biroccio, delle notti trascorse insieme, delle tante lune e dei tanti falò. Poi l’adultità si accanisce contro di loro, arrivano il male della vita e della storia, uomini che se ne approfittano, la guerra. La povera Santina, diventata grande e perciò chiamata Santa, la più piccina delle sorelle, adesso riceve uomini, riceve anche le Ca’ Nere, fa a Nuto delle soffiate che pagherà con la vita. Il bel tempo è scomparso, si è estinto con il mutare della luna che ora più nessuno guarda in cielo. 

La luna di Anguilla è quella americana, che tra le nubi di uno sterminato deserto pare un coltello assetato del suo sangue. Santa, uccisa per essere stata scoperta, da candida e dolce com’era quand’era vestita con l’abitino bianco che la faceva sembrare già a sei anni bella come una sposa, è stata anche lei distrutta dal tempo, costretta a farsi giri in auto con uomini potenti e anche a riceverli controvoglia. È la santa che subisce il destino avverso di tutti. Alla fine, per darle una degna sepoltura, viene bruciata come una dea pagana. Viene arsa come uno di quei falò, simbolo della bellezza e della gioventù che promettono eternità ma che poi svaniscono, dell’illusione che la vita sia qualcosa di buono, che la memoria redimi e trasfiguri. Bontà che in qualche misura si può assaporare, ormai è chiaro, solo tornando come Anguilla al paese, a casa, lì dove bruciano ancora i falò, lì dove la luna ricopre le cose di un’aura mitica e di una felicità che può pulsare intensamente solo nella pagina: un silenzioso letto di cenere in cui, come in un paese, si sta almeno in pace[32].

Con alcuni versi luziani: «Tace nel silenzio / dalle sue lontane rocce / l’antica parleria – / o il silenzio / è nostro, e non più lacuna, / ora, di parola / ma annullamento / e cenere da cui tutto risorgerà?»[33]. C’è qualcosa che, non cogliendo il come e il perché, ricomincia sempre, risorge. Se dunque l’acquisizione della Recherche è il raggiungimento di un en dehors du temps che riformulato nella scrittura letteraria consente di ottenere la salvezza, l’aspirazione pavesiana è molto diversa, certamente individuale e cosmica come quella proustiana ma di tutt’altro genere, la quale, avendo comunque di mira ciò che è eterno e ideale, tende verso una verità che è inscritta nella carne, nel sangue, nei terreni arati e poi in fiore, che è tramandata in ciascuno di noi e che rivive pienamente soltanto quando ci si mette in ascolto del suo rimbombo con l’udito del ricordo, quando insomma la parola narrante la resuscita e le dà tempo, un gioco di destino e libertà che credo sia condensato in questa affermazione, per me misteriosa ma tutta da indagare: «Un destino non è altro che un ritmo, una cadenza di ritorni previsti nel gioco di una libertà tutta tesa»[34].

Oppure, per concludere con un Proust adolescente, anche per riannodarci con quel ragazzo così importante per la poetica pavesiana, direi che si possa aggiungere questo ulteriore rilievo:

 

E quel fanciullo che gioca così in me sulle rovine non ha bisogno di nessun nutrimento: si nutre semplicemente del piacere procuratogli dalla scoperta di un’idea. Egli la crea, essa lo crea; egli muore, ma un’idea lo fa risuscitare, come quei semi che cessano di germinare in una atmosfera troppo secca, che sono morti, ma cui basta un po’ di umidità e di calore per rinascere. / E io ritengo che il fanciullo che in me si diverte a questo gioco dev’essere il medesimo che ha un orecchio abbastanza fine e giusto per avvertire tra due impressioni, tra due idee, un’armonia assai tenue, impercettibile agli altri. Che cosa sia quest’essere, non lo so.[35]

 

Quest’essere sconosciuto, tale esperienza ineffabile, questa forza che ricava la propria energia da ben precise condizioni predisposte dal convergere di mondo e soggetto intercettando una vibrazione comune, in ultima analisi, possono dirsi nella spirale degli anni ritrovamento. Possono dirsi mito.



[1] F.W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1874), trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano 2009, p. 24.

[2] O. Mandel´štam, Io la luce aborrisco, in Ottanta poesie, a cura di R. Faccani, Einaudi, Torino 2009, vv. 13-16, p. 25.

[3] Sebbene si parli di una voce autorevole, mi sembra che l’opinione per cui Pavese adoperi ne La casa in collina una prosa di tipo per lo più cronachistico sia troppo riduttiva e ben lontana dalla realtà, essendo ai miei occhi le pagine pavesiane molto di più anche di una cronaca appassionata ed emotivamente partecipe. A questo riguardo cfr. comunque A.M. Mutterle, L’immagine arguta: lingua, stile, retorica di Pavese, Einaudi, Torino 1977.

[4] C. Pavese, La casa in collina, Einaudi, Torino 1990, p. 3. 

[5] Ivi, p. 5.

[6] Id., Il diavolo sulle colline, in La bella estate, Einaudi, Torino 1995, p. 114.

[7] Nella grande letteratura del Novecento questa immagine ha più di un riverbero, per esempio nel giovanile Tonio Kröger manniano. Mi riferisco al brano in cui Tonio, dopo tredici anni, ritorna al suo luogo natale. Passeggiando per le vie della città sul far della sera, con una sapiente immagine, Mann accende le luci dei lampioni proprio come quelle dei ricordi del suo protagonista. Cfr. T. Mann, Tonio Kröger (1903), trad. di E. Castellani, Mondadori, Milano 2005, pp. 170-171 (l’edizione include anche La morte a Venezia Tristano). In ogni caso, per un’analisi strutturale del viaggio, anche di ritorno, nel romanzo pavesiano cfr. G. Bàrberi Squarotti, Il viaggio come struttura del romanzo pavesiano, in «Bollettino del Centro Studi Cesare Pavese», I, 1993.

[8] M. Proust, Le Temps retrouvé, a cura di P.E. Robert e B. Rogers, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Gallimard, Parigi 2019, p. 2124. «Ero desolato nel constatare quanto poco rivivessi i miei anni d’allora», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 2012, p. 20.

[9] Ibidem. «Quella contiguità da cui nasce, anche prima che ci se ne renda conto, l’immediata, deliziosa, totale deflagrazione del ricordo», trad. ibidem. A questo episodio è stata data l’opportuna enfasi da Eleonora Sparvoli, la quale sottolinea appunto che tra la Combray dell’infanzia del Narratore e quella attuale non poteva esserci nessun rapporto di contiguità, poiché la Combray più antica era stata completamente trasformata in sostanza immateriale dalla memoria, e dunque incommensurabile con quella in cui egli si trova adesso a passeggiare tristemente. Potrebbe risiedere anche in ciò la ragione per cui tale ritorno del Narratore non può essere un autentico ritrovamento, poiché la percezione di quel mondo con i sensi corporei non poteva risvegliarli alcunché dell’essenza immateriale che giaceva in lui ancora inattiva. Cfr. allora E. Sparvoli, Contro il corpo. Proust e il romanzo immateriale, FrancoAngeli, Milano 1997, pp. 26-27. 

[10] Cfr. M. Proust, Le Temps retrouvé, cit., pp. 2176-2177.

[11] C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 62.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 80.

[14] A. Sichera, Pavese. Libri sacri, misteri, riscritture, Olschki, Firenze 2015, p. 237.

[15] C. Pavese, La casa in collina, cit., p. 81.

[16] Ivi, p. 91.

[17] Ivi, p. 98.

[18] Ivi, p. 109.

[19] «Paris était, au moins dans certains quartiers, encore plus noir que n’était le Combray de mon enfance», in M. Proust, Le Temps retrouvé, cit., p. 2161. «Parigi era, almeno in certi quartieri, ancora più buia di quanto non lo fosse la Combray della mia infanzia», trad. p. 76.

[20] Un pensiero forse di poco anteriore alla radicalità del male di vivere come durare a vivere, in riferimento alla conclusione della Casa in collina, è di Sichera: «In guerra accade allora, solo esponenzialmente aumentato in qualità e quantità, ciò che avviene nel quotidiano di ognuno, spesso nell’indifferenza e nell’apatia. È la vita, insomma, ad essere come la guerra, ed è la guerra a rivelarci l’essenza della vita», in Id., Pavese. Libri sacri, misteri, riscritture, cit., p. 246. 

Ricordo anche un passo di Lucrezio tematicamente convergente con il romanzo pavesiano: «“Tu certamente, come ti sei assopito nella morte / così sarai per tutto il tempo che resta, esente da tutti i dolori penosi. / Ma noi insaziabilmente abbiamo pianto te ridotto / in cenere sull’orribile rogo lì vicino, e nessun giorno / ci leverà dal petto l’eterna tristezza”», in Lucrezio, La natura (De rerum natura), III, vv. 904-908, a cura di F. Giancotti, Garzanti, Milano 2012, p. 179.

[21] A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, p. 22.

[22] E. Mazzarella, L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo, Quodlibet Studio, Macerata 2017, pp. 60-61.

[23] W. Benjamin, Le affinità elettive (Goethes Wahlverwandtschaften), in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2014, p. 170.

[24] C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2014, p. 6.

[25] Ivi, p. 15.

[26] «Car les vrais paradis sont les paradis qu’on a perdus», in M. Proust, Le Temps retrouvé, a cura di P.E. Robert e B. Rogers, in À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, Gallimard, Parigi 2019, p. 2265. «Perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduto», trad. di M.T. Nessi Somaini, Rizzoli, Milano 2012, p. 249.

[27] Ivi, p. 2270. «Io sapevo che la bellezza di Balbec non l’avevo colta quando c’ero stato, e nemmeno quella che essa mi aveva lasciato, quella cioè del ricordo, non era più la stessa che avevo ritrovato nel secondo soggiorno. Avevo fin troppo sperimentato l’impossibilità di attingere nella realtà quella che c’era nel fondo di me stesso; che non sarebbe stato nella piazza di San Marco più di quanto fosse stato nel mio secondo viaggio a Balbec o al mio ritorno a Tansonville per vedere Gilberte, che avrei ritrovato il Tempo perduto, e che il viaggio, che non faceva che ripropormi una volta di più l’illusione che quelle antiche impressioni esistessero fuori di me, all’angolo di una certa piazza, non poteva essere il mezzo che io andavo cercando», trad. p. 257.

[28] C. Pavese, Paesaggio VI, in Lavorare stanca 1936-1943, in Le poesie, Einaudi, Torino 1998, v. 29, p. 63.

[29] Id., La luna e i falò, cit., p. 42.

[30] Id., L’isola, in Dialoghi con Leucò, Mondadori, Milano 2021, p. 103.

[31] Id., La luna e i falò, cit., p. 91.

[32] Sembra che proprio nella conclusione venga descritta la situazione ben espressa da Elio Gioanola, per cui «il mito del silenzio ha incrociato il silenzio del mito», in Id., Cesare Pavese. La realtà, l’altro, il silenzio, Jaca Book, Milano 2003, p. 177.

[33] M. Luzi, Padri dei padri, in Per il battesimo dei nostri frammenti, in Le poesie, Garzanti, Milano 2020, vv. 87-94, p. 701.

[34] C. Pavese, La poetica del destino, in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962, p. 343. Può sciogliere la nostra perplessità una bella affermazione in forma di domanda di Mondo: «Cos’è infatti il destino se non il mito stesso con le sue insopprimibili cadenze?», in L. Mondo, Cesare Pavese, Ugo Mursia Editore, Milano 1965, p. 73.

[35] M. Proust, Note sulla letteratura e la critica, in Saggi, a cura di M. Bongiovanni Bertini e M. Piazza, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 158-159.

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