di Giovanni Altadonna
Antonio Di Grado, Barbara Distefano
In Sicilia con Leonardo Sciascia. Nel cuore assolato e desolato dell’isola
Giulio Perrone Editore, Roma 2021
Pagine 94
€ 15,00
L’8 gennaio 1921 nasceva, in un villaggio della Sicilia interna che gli Arabi chiamavano “il paese morto”, Leonardo Sciascia. Questa occasione è una ragione più che sufficiente per riflettere, a cent’anni dalla nascita del Maestro di Racalmuto – nel duplice significato di Maestro di scuola elementare e di maître à penser, sebbene sia ragionevole pensare che egli avrebbe respinto il secondo in favore del primo (cfr. pp. 35 e 50), sulle contraddizioni innumerevoli, tragiche e affascinanti che la Sicilia reca in sé, e su come esse sono state raccontate e incarnate dagli illustri letterati siciliani di età contemporanea, da Verga a De Roberto, da Pirandello a Tomasi di Lampedusa, da Vittorini a Consolo, da Quasimodo a Bufalino. Ciò si esprime nel tentativo di rispondere alla domanda: «Cosa diciamo con quel nome che inebria come un effluvio di gelsomini ma stordisce come un colpo di pistola?» (p. 10).
Non solo Sciascia, dunque: questo interessante volumetto si apre infatti con un’indagine, Dall’isola al mondo (e ritorno) di Antonio Di Grado, che mira ad approfondire se e in che misura la letteratura siciliana dell’Otto e Novecento può istruirci circa la semantica della stessa parola “Sicilia”, intorno a cui abbondano i più diversi stereotipi, spesso in contrasto fra loro; e in effetti di questo non c’è da stupirsi, considerando che l’isola più grande del Mediterraneo può essere ben definita «teatro di miserie e splendori» (p. 9). L’attenta ricerca di Di Grado muove da alcuni interrogativi fondamentali, che trovano pregevole sintesi nel quesito sopra citato: cosa significa essere siciliani? «E come fanno le mille facce del prisma che chiamiamo Sicilia a comporsi in una immagine unica, riassuntiva, da amare o da odiare? […] come si può sopportare il peso di tante contraddizioni, arginare il sangue di tante ferite, e per esempio esibire fieri gli allori di una tradizione letteraria che non ha pari in Italia e al tempo stesso subire l’ignominia della piovra mafiosa e d’una “corda civile” a dir poco scordata?» (p. 10). Di Grado ritiene che la chiave interpretativa di tale aporia risieda appunto nella contraddizione «fra il ceto intellettuale più avanzato e sacche di irredimibile indigenza, tra le sottigliezze ineguagliabili dell’intelligenza isolana e i codici brutali del sentire mafioso», la quale spiega altresì la «dialettica di fuga e ritorno, del nec tecum nec sine te che legano alla propria isola chi l’ami tanto da doverla anche detestare, da volerla appassionatamente cambiare» (pp. 10-11).
Sciascia rappresenta un punto d’osservazione privilegiato per interrogarsi su tali questioni. Egli fu uno degli ultimi scrittori siciliani i quali, sebbene mirassero «a tenere in vita l’idea d’una fiera identità e d’una irriducibile alterità isolane» (p. 11), non riuscirono a evitare che quella «diversità antropologica» (ibidem) fosse risucchiata da un ideale di “progresso” la cui fallacia venne da loro più volte, e in modo diverso, evidenziata. E sebbene il loro racconto dei luoghi e delle genti di Sicilia, della miseria dei proletari e del trasformismo politico, della guerra e delle ingiustizie, si configuri come un “paradigma antistorico” (inteso come una critica implacabile a una certa storiografia mainstream dalle tinte oleografiche), una denuncia vox clamantis in deserto che non è riuscita a modificare lo status quo, purtuttavia esso si offre come «un teatro della memoria, e come una trincea, un posto di vedetta da cui fa squillare l’allarme su ogni sorta di mistificazione, di omologazione, di colpevole oblio» (pp. 15-16).
Un altro aspetto dell’analisi di Di Grado che vale la pena evidenziare è quello della vocazione cosmopolita, transnazionale, degli scrittori siciliani moderni: dai Veristi che traspongono in maniera inedita il Realismo e il Positivismo d’oltralpe, alla costante frequentazione dei grandi autori dell’Illuminismo francese da parte di Sciascia; dal soggiorno di Pirandello e Rosso di San Secondo a Berlino all’interesse per gli Stati Uniti da parte di Vittorini: bastano questi pochi esempi (selezionati fra quelli che Di Grado elenca) a smentire ogni eventuale (pre)giudizio di provincialismo sulla letteratura siciliana. Al contrario, gli intellettuali siciliani fra XIX e XX secolo traggono dalla cultura mitteleuropea quegli strumenti concettuali che, applicati all’ambiente umano dell’Isola, genera una scrittura pensata, volta alla critica e al cambiamento di una realtà circa le cui possibilità di redenzione e di miglioramento si è già disillusi. Un paradosso tipicamente siciliano, e non meno drammatico di molti altri. È questa l’antinomia per cui «l’esterofilia e l’apertura al mondo dei nostri scrittori si coniugano con la tensione, all’inverso, centripeta che domina le loro opere, ossessivamente legate al tema dell’isola, e le loro vite, crocifisse a quella terra amata e odiata, o quantomeno condannate a concludervisi, in sconsolati ritorni che hanno talvolta lo stesso senso, di bruciante sconfitta e di astiosa diffidenza, dell’attaccamento delle ostriche verghiane allo scoglio» (p. 21).
Eppure, la Sicilia di Tomasi di Lampedusa non è quella narrata da De Roberto, quella di Consolo non è quella di Pirandello: come scrisse Gesualdo Bufalino, esistono “cento Sicilie”, ritratti poetici e narrazioni in prosa di altrettanti paesaggi umani, storici e naturali. In fondo, la stessa condizione esistenziale di insularità costituisce «l’ultimo d’una serie di felici, e fecondi, paradossi: ai quali dobbiamo l’inattuale modernità della letteratura siciliana» (p. 26).
L’antinomia irriducibile fra partenza e approdo, fra solitudine e scoperta, fra spinta centrifuga dall’isola e forza centripeta di ritorno al paese natìo trova pieno riscontro nell’esperienza biografica e intellettuale di Leonardo Sciascia. Di Grado si sofferma dettagliatamente sul rapporto fra Sciascia e Racalmuto, e fra Racalmuto e Sciascia, in vita e post vita sua. In particolare, esprime un bilancio critico (e autocritico, essendone stato a lungo il Direttore) sul ruolo e sulle attività della Fondazione Sciascia. Ma per Sciascia, Racalmuto fu anzitutto Regalpetra; una scelta stilistica comune ad altri autori come Capuana, Brancati e Camilleri, «come a proteggere un sogno dalle offese di una storia inevitabilmente prevaricatrice e dagli scempi di una geografia violata, degradata, omologata» (pp. 37-38), e che rende mal posto ogni tentativo di identificare rigidamente toponimi letterari e luoghi reali. «Capoluoghi dell’anima ed estri di mitografi, quei nomi di città e di contrade, anche quando sembrerebbero autenticabili; e invece altro non sono, anche se indossano denominazioni familiari, che chimere d’una “fantasticheria”» (p. 38). Ciononostante, continua Di Grado, ciò non ci impedisce di ripercorrere i luoghi dell’opera di Sciascia o di qualsiasi altro grande autore della letteratura siciliana attraverso un itinerario nell’Isola, «ma avendo cura di restituire, alla bellezza apparentemente inerte e inanimata dei paesaggi e dei monumenti, quella vita che il geniale farnetico degli scrittori e i patimenti e gli ardimenti dei popoli fecero scorrere, impetuosa e febbrile, in quelle vene di pietra e d’erba, di marmi e d’acque, in quella luminosa vastità prodiga di incanti e di inganni» (p. 42)
Il contributo di Barbara Distefano – Dai luoghi comuni ai luoghi di Sciascia – risponde, in maniera eccellente, proprio a questa idea. Questa seconda parte del testo offre «un sentiero per lettori stanchi del turismo di massa», a partire da «una selezione di luoghi siciliani che, oltre a caricarsi di senso nella vita e nell’opera di Leonardo Sciascia, ci permettono di riflettere su alcuni dei più resistenti luoghi comuni sulla Sicilia, proprio attraverso le pagine di uno scrittore troppo spesso usato per alimentarli» (p. 47). Dal silenzio per così dire “strutturale” di Racalmuto e dei suoi abitanti ai graffiti recuperati di Palazzo Steri, al torrente Azzalora nella campagna agrigentina, lasceremo al lettore il piacere di approfondire queste storie: in questa sede ci limitiamo a menzionarne solo alcune.
Un luogo comune è lo strano approccio che le popolazioni etnee hanno col vulcano più grande d’Europa; “ma non avete paura?” è la reazione sbigottita che si sente più spesso a riguardo. Distefano esamina nel dettaglio il rapporto di Sciascia con l’Etna, che serve al Maestro di Racalmuto per sottolineare la diversità ambientale e sociale fra Sicilia occidentale e Sicilia orientale. In particolare, secondo Sciascia, l’attaccamento alla roba, tipico dei siciliani per motivi storici, è acuito negli abitanti della zona etnea da motivi ambientali, data la natura del vulcano che può da un momento all’altro distruggere quella ricchezza che pure esso stesso consente di produrre. L’Etna si ritrova direttamente nella saggistica, ma indirettamente anche nella narrativa di Sciascia: dietro l’Hotel di Zafer descritto in Todo modo, infatti, scopriamo l’Hotel Emmaus presso Zafferana Etnea, apprendendo che l’idea stessa del romanzo fu ispirata da un incontro realmente avvenuto fra ex allievi salesiani, divenuti politici democristiani, cui l’autore ebbe modo di assistere.
Un altro pregiudizio è quello per cui i siciliani siano gente oziosa. Esso si coniuga con l’immagine stereotipica per cui la Sicilia sia una terra di eterna vacanza, con il termine “vacanza” che quasi inevitabilmente sollecita ritratti di coste sabbiose e baie a picco sul mare. Nell’immaginario collettivo si ripropone inconsciamente, a proposito della Sicilia, la similitudine con cui Platone, per bocca di Socrate, si riferiva agli insediamenti greci sulle coste: «Abitiamo intorno al mare Mediterraneo come formiche o rane intorno a una palude»[1]. Tuttavia, questo stereotipo esclude una Sicilia dimenticata ma non per questo meno reale, che è la Sicilia delle zolfare, degli altipiani riarsi e dei paesi che al mare danno le spalle. Come Racalmuto, emblema di questa «Sicilia senza mare» (p. 63) è anche Assoro: proprio quest’ultimo borgo della provincia di Enna, ubicato quasi al centro della Sicilia, si lega alla vita di Sciascia in maniera drammatica: in una delle miniere di cui il territorio è crivellato, la zolfara Bambinello, morì suicida il venticinquenne fratello Giuseppe, minatore nella cava, probabilmente per la disperazione di trovare un lavoro che non fosse disumano. Sciascia fu segnato da tale tragedia familiare, e si espresse in più occasioni con durezza sulle condizioni di sfruttamento dei lavoratori più umili, minatori e operai.
Infine, al tema dell’emigrazione dei siciliani all’estero Sciascia dedica non solo dei racconti raccolti in Gli zii di Sicilia e Il mare color del vino, ma anche testi di commento a documentari che affrontano il tema della migrazione dal Mezzogiorno al Nord Italia e quello della crisi economica e demografica della Sicilia interna.
Questa recensione non rende – e anche se fosse più lunga, non renderebbe – giustizia alla quantità di spunti che ogni cultore di Sciascia e della letteratura siciliana potrebbe trarre da esso. Al di là dell’argomento trattato, che di per sé basterebbe a consigliare il testo, ciò che emerge in filigrana dalle pagine del testo è la passione che gli autori esprimono nel ricordare l’impegno civile di Sciascia, tentando di riproporre un messaggio inattuale che è quello di Sciascia politico, inteso in senso etimologico come colui che si occupa della res publica. Questo è, mi sembra, un ulteriore segno di forza dell’eredità di Sciascia e del libro in questione che intende ricordarla.
[1] Platone, Fedone, 109 B, in Id., Fedone. Simposio. Fedro. La Repubblica, trad. it. di M. Valgimigli, RBA, Milano 2017, p. 63.