di Giovanni Altadonna
[…] erano lontane, onnipotenti e nello stesso tempo tanto docili ai suoi calcoli; proprio il contrario degli uomini, troppo vicini sempre, deboli e pur tanto riottosi. […] Don Fabrizio sospirò. Quando si sarebbe decisa a dargli un appuntamento meno effimero, lontano dai torsoli e dal sangue, nella propria regione di perenne certezza?[1]
La meditazione del Principe di Salina sulla morte riassume in poche battute l’intera sua concezione dell’esistenza. La sua invocazione al pianeta Venere come tentativo estremo di riscatto soteriologico dal dramma della vita e della storia; la maestosità inarrivabile degli astri, docili ai calcoli della scienza, contro la complessa imprevedibilità degli esseri umani, le cui azioni sfuggono a ogni previsione razionale;[2] il tentativo disperato di sopravvivere in un mondo che non è più quello di un tempo, e non è ancora (né mai) il migliore possibile; un mondo “nuovo” solo negli equilibri di potere, ma che del “vecchio” conserva tutti i germi di miseria morale esacerbandoli nel nome dell’arrivismo senza scrupoli dei parvenus. La Weltanschauung di Giuseppe Tomasi di Lampedusa non è (solo) il riflesso letterario di una malinconica nostalgia verso un passato rimpianto e irrimediabilmente perduto, quello delle nobili famiglie feudali della Sicilia; piuttosto è (anche) espressione di una metafisica materialistica, dalle forti implicazioni esistenzialiste, basata su una profonda, rizomatica comprensione della natura delle cose (de rerum natura). Venti secoli prima che lo “scrittore” siciliano (purtroppo le convenzioni del linguaggio comune sono inclementi verso l’acume intellettuale di certi Autori, mescolati sotto un’etichetta dal vago significato operativo) mettesse in bocca a sua eccellenza Fabrizio Corbera un’invocazione commossa al comune riferimento sotto i vari sensi del celebre esempio fregeano, in tutt’altro contesto Tito Lucrezio Caro, poeta latino contemporaneo di Cicerone e Giulio Cesare, invocava la protezione della dea Venere per la sua mente che si accingeva a scrivere quella che è forse la meglio riuscita esposizione divulgativa di filosofia dell’antichità (in un tempo in cui di letteratura divulgativa, peraltro, non si parlava).
Nei mari e sui monti, nei fiumi impetuosi, / nelle fronzule dimore degli uccelli e sulle verdeggianti pianure, / infondendo in tutti i cuori le blandizie dell’amore, / tu ispiri a ogni creatura il desiderio di propagare la sua specie: / tu sola basti a governare la natura, / e senza di te nulla approda alle divine spiagge della luce, / nulla avviene di lieto e amabile, / e io proprio il tuo aiuto voglio sollecitare nel poema / che mi accingo a comporre sulla natura.[3]
Apparentemente, nulla potrebbe essere più distante fra i due passi: un vecchio aristocratico che chiama a sé la morte come liberazione dal peso di una storia che non sente più sua, da un lato; un’esaltazione lirica della forza generatrice della natura, esemplata dalla fertilità delle terre ammantate da vegetazione rigogliosa e dalla potenza erotica della riproduzione, dall’altro. Eppure, entrambi gli autori condividono una convinzione filosofica di fondo, che in questa sede intendiamo definire metafisica materialistica. Se tale binomio sembra contenere un insolubile ossimoro è solo per una distorta, ancorché diffusa, connotazione del termine “metafisica” come qualcosa di irrimediabilmente “altro” dalla e “oltre” la fisicità delle cose. Del resto, lo stesso termine sembra indicarlo. In realtà, è noto che di per sé la parola in questione nasce solo come indicazione, potremmo dire archivistica e prassica, da parte di (pare) Andronico di Rodi intento a riordinare le opere di Aristotele successive ai libri della Fisica.
È pur vero che, ironia della storia, il termine “metafisica”, seppur polisemantico e irriducibile ad una definizione univoca, ha assunto col tempo il significato più specifico di scienza delle strutture ultime della realtà; scienza dell’essere; scienza delle realtà universali, sostanziali e immutabili distinte da quelle particolari, accidentali e contingenti. Volendo proporre una definizione sintetica ma sufficiente ai fini del discorso che intendiamo sviluppare, possiamo dire che “metafisica” è «ogni indagine sull’essere che sia sufficientemente universale, capace di argomentare i propri contenuti e indirizzata a un loro chiarimento radicale»[4]. Da questa definizione è chiaro che una “metafisica” non è tale in quanto rimanda necessariamente a una realtà superiore, a parte dalla quotidianità; a un “iperuranio” (per usare la celebre e spesso fraintesa immagine platonica) concepito come un mondo parallelo a quello effettivo, composto da realtà ideali a fondamento di quelle empiriche. «Μετά può dunque significare – e significa – non la ricerca di un fondamento assoluto o una duplicazione dell’esistente ma un andare oltre la parzialità della materia che pensa, significa l’apertura di tale materiacoscienza a sciogliersi nella materia tutta quanta»[5].
Né tantomeno “metafisica” indica una vaga e vana speculazione fine a sé stessa; piuttosto, è giusto asserire che, «nel suo significato pulsante e non polveroso, la metafisica è vita quotidiana posta al livello nel quale la quotidianità è sospinta verso il fondamento delle cose»[6]. Una “ermeneutica della fatticità”, dunque, per citare il dire heideggeriano; la quale non disconosce la quotidianità ma anzi trae il proprio inizio dalla riflessione su ciò che appare scontato e che improvvisamente mostra di non esserlo affatto. Tale fondamento non necessariamente va ricercato al di là degli enti: può ben essere collocato negli enti stessi. Come aveva ben compreso Aristotele respingendo la dottrina platonica delle idee, la sostanza non è a parte dagli enti materiali, bensì essa è sinolo di materia e forma: caratterizza gli enti singoli in quanto tali. È dunque pienamente legittimo affermare una metafisica che riconosca nella materia stessa il fondamento ultimo degli enti e del divenire, del mutamento e del tempo; senza che ciò equivalga a disconoscere, sulla base di un ingenuo riduzionismo fisicalistico, solo le realtà dotate di esistenza chimico-fisica negando quelle che hanno consistenza semantica e concettuale (secondo la ben nota terminologia di Alexius Meinong). «La metafisica si radica non nella atemporalità identitaria ma nella temporalità della differenza. Il tempo e la materia costituiscono fondamento, forma, struttura e modalità del mondo in ogni sua manifestazione, del reale a ogni suo livello. L’umano esiste, vive e si muove in questo plesso di tempomateria»[7]. Già Lucrezio, nel primo secolo avanti l’era volgare, asseriva e spiegava in questi termini la costitutiva pienezza ontologica della materia che diviene nello spazio:
Non esiste nulla che possa dirsi alieno, / al di fuori sia della materia sia del vuoto: / che si troverebbe, per così dire, a formare un terzo modo di essere. / Tutto quel che esiste dovrà, per ciò stesso, essere in sé qualche cosa. / […] Ogni oggetto esistente in sé o sarà dotato di energia propria / o subirà l’azione di altri corpi / o sarà tale che le cose in esso possano esistere e compiersi. / Essere attivo o passivo non può addirsi che alla materia, / come fornire lo spazio appartiene soltanto al vuoto. / Al di fuori del vuoto e della materia / non può esserci luogo, nella serie delle cose, per un terzo stato / tale da cadere sotto i nostri sensi / o da essere raggiunto dallo spirito col ragionamento.[8]
“Metafisica della materia e del tempo” significa riconoscere la potenza generatrice della “natura”, non intesa banalmente in senso naturalistico bensì nel senso originario della φύσις, «schiudentesi-permanente imporsi»[9], vale a dire l’essere stesso, che include tutti gli enti ma che gli enti tutti non possono esaurire. Dal momento che l’essere è tempo, il divenire della materia è senz’altro segnato dalla irreversibilità, dalla freccia del tempo per cui il disordine di un sistema (che sia la nostra vita, la fisiologia di un organismo, finanche la storia dell’universo) può rimanere immutabile o crescere, ma mai diminuire. Una metafisica materialistica non afferma la staticità monolitica (la quale peraltro appare tale solo per la limitatezza temporale dello sguardo umano) delle rocce e dei pianeti, bensì il magmatico divenire entropico di tutto ciò che esiste. «La natura, in altri termini, non è indifferente alla direzione del tempo ma è, al contrario, temporalmente orientata in ogni sua manifestazione. La materia non è, la materia diviene»[10]. A questo proposito, già Lucrezio affermava: «La materia non forma un blocco strettamente pressato e coerente; / ogni corpo si logora – lo vediamo – / e sembra come svanire nella lontananza del tempo / sottraendo ai nostri occhi il suo invecchiamento»[11].
È la stessa materia in divenire, il mutamento/movimento della materia nel tempo, che genera tutte le cose: nella filosofia epicurea, magistralmente riassunta da Lucrezio, tale processo è spiegato tramite la nozione di clinamen, la deviazione casuale degli atomi dalla loro traiettoria, la quale li porta ad aggregarsi in corpi la cui diversa densità decide il tipo di ente generato.
Tanto più che questo mondo è opera della natura: / da soli, spontaneamente, per la fatalità degli incontri, gli elementi delle cose, / dopo essersi uniti in mille modi, a caso, senza risultato né successo, / giunsero alla fine a formare quelle combinazioni che, appena riunite, / dovevano essere per sempre le origini di questi grandi oggetti: / la terra, il mare, il cielo e le specie viventi.[12]
Ciò accade senza l’intervento di alcuna divinità. La presenza stessa del dolore, nel mondo dei viventi, è un motivo più che sufficiente, per Lucrezio, per dubitare di qualunque provvidenza.
Immaginare che l’interesse dei mortali / abbia guidato gli dei nella creazione del mondo, / sembra, da ogni punto di vista, un allontanarsi ben lontano dalla verità. / Per me, ho un bell’ignorare quali sono i principi delle cose; / oserei tuttavia, e sul semplice studio dei fenomeni celesti, / e su ben altri fatti ancora, sostenere e dimostrare / che il mondo non è stato creato per noi da una volontà divina: / tanto si presenta contaminato da difetti (tanta stat praedita culpa).[13]
Tale divenire costante della materia, in cui tali enti si distruggono e talaltri vedono la luce, in cui taluni muoiono e talaltri nascono, procede senza che la materia in quanto tale si degradi. Sono le diverse aggregazioni di atomi che scompaiono, per poi ricomparire sotto nuove forme, ma la materia in quanto tale è eterna.
Nulla di quel che sembra perire, si distrugge affatto: / la natura riforma i corpi gli uni con l’aiuto degli altri, / e non ne lascia crearsi alcuno senza l’aiuto fornito dalla morte d’un altro.[14]
Le implicazioni esistenzialistiche di una simile posizione metafisica sono rilevanti. Parlare di “metafisica materialistica” significa riconoscere nel corso apparentemente eterno degli astri, nel movimento e nel mutamento della materia inorganica (non vivente, dunque, ma non per questo statica) l’unica condizione di assenza di quel dolore che invece intride l’esistenza degli enti che nascono, vivono e muoiono nel tempo. Essi non sono eterni; contrariamente alla materia cosmica, la materia degli astri, la materia viva in quanto fonte di luce: la quale è potenza assoluta della materia e assenza totale di sofferenza.
Il tempo è il contenuto della metafisica. E ogni possibile metafisica è nel tempo che accade. Sino a che, naturalmente, ci sarà un tempo umano. Poi a rimanere sarà il tempo della materia. La materia che in un suo intervallo sarà stata anche protoplasmatica, vegetale e animale, sarà stata materia artificiale e macchinica. Rimarrà la materia minerale e cosmica, la sua potenza. Rimarrà la materia e basta. Non più gli umani, materia miserrima dentro il cosmo, e neppure soltanto gli altri animali, vertebrati o invertebrati, di terra o di mare, volatili e insetti. Nemmeno le piante, i fiori, il grano. Rimarranno soltanto la materia, le rocce, le lave. E le stelle. La pura luce, la loro luce. Le trasformazioni elettromagnetiche che invadono di fulgore lo spazio silenzioso e perfetto nel quale di tanto in tanto la materia si raggruma in polvere, pianeti, astri. Qui non c’è sofferenza. Non c’è mai stata. Nulla nasce e nulla muore. E il tempo accade senza posa nel movimento degli enti e nella potenza dell’energia.[15]
Fra coloro che vivono (ovvero, nel pensiero delle origini, coloro che sorgono)[16], solo gli dèi non conoscono il dolore, né si curano della sofferenza dei mortali:
È incontestabile che gli dei, per loro stessa natura, / godono l’immortalità nella pace più profonda, / estranei alle nostre faccende, cui sono del tutto alieni. / Libera da ogni dolore, forte di per se stessa / e per le proprie risorse, non bisognosa del nostro aiuto, / la loro natura né è sedotta dai nostri benefici né toccata dalla nostra collera.[17]
Che i mortali soffrano, invece, è un dato esistenziale di cui ciascuno può trovare conferma nella propria vita. Il dolore è proprio non della materia, ma dei corpimente che vivono, e che, vivendo, soffrono.
Luci, musica, colori, caldo, freddo, amaro, dolce, esistono nel corpomente e non nella struttura materica della quale siamo parte. In questa struttura non si dà dolore. Per quale ragione il corpomente abbia inventato a sé stesso anche la sofferenza è questione alla quale sono state date molte e diverse risposte. Si può dire che tutto ciò che definiamo cultura è un tentativo di rispondere a questo enigma: dai miti teogonici a quelli di ogni religione, dalla metafisica di Spinoza alla finitudine heideggeriana, dal materialismo scientista alle utopie politiche. Ma il fatto che “sicuramente, lì fuori non c’è dolore” mentre invece l’intera struttura dei viventi di dolore è intessuta, rimane un enigma. Il più difficile da spiegare, il più complesso da vivere.[18]
Il desiderio di sfuggire al dolore insensato trovando accoglienza nel cosmo eterno che non conosce sofferenza è precisamente ciò che il Principe di Salina esprime nel suo “inno a Venere” post litteram. Ma la morte può accompagnare i viventi mentre questi sono ancora in vita: questa proposizione, che una prospettiva esclusivamente biologica potrebbe ritenere una contraddizione (ma neanche troppo, se si considera il continuo ciclo di morte e nascita delle cellule somatiche), assume tutta la sua valenza filosofica quando si considera la vita come Erlebnisse, ovvero come insieme dei vissuti, e non come mero meccanismo fisiologico. L’accumularsi di tristezza, delusione, dolore è una delle più forti ragioni addotte da Lucrezio per negare l’immortalità dell’anima:
Vediamo che, se il corpo contrae / malattie spaventose, dolori crudeli, / anche l’anima è sede di preoccupazioni cocenti, tristezze, timori; / è quindi naturale ch’essa partecipi ugualmente alla morte.[19]
È proprio un corpo morto, la cui anima è stata infranta (“decomposta” si direbbe, riprendendo l’atomismo epicureo) dalle delusioni amorose, quello di Concetta, figlia del Principe di Salina, che, nell’ultimo capitolo del Gattopardo, è ritratta, ormai anziana, come una donna spenta, priva di qualunque sentore o emozione, indifferente ai ricordi, dopo aver a lungo lottato fra un passato di rimpianti, un presente di solitudine e un futuro su cui incombe una morte del corpo invocata come liberazione da una morte dell’anima che si consuma da decenni. Finanche l’unico fra i ricordi d’infanzia che ancora non le suscitava sentimenti negativi, la pelle polverosa del cane Bendicò (custodita gelosamente nell’illusoria convinzione di poter fossilizzare il passato in un’istantanea di requie fuori dal tempo), sortisce infine in lei sentori di repulsione prima, e poi di distacco anaffettivo.
Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.[20]
Dando ordine di gettare dalla finestra l’ombra di quello che un tempo era il fedele compagno dei giorni felici, ella riconosce l’impossibilità che quei giorni felici possano tornare. Ciò che torna, invece, è la carcassa di Bendicò alla terra: materia alla materia, polvere alla polvere, quia pulvis es et in pulverem reverteris[21].
Foto di Nunzio Giunta
[1] G. Tomasi di Lampedusa [1958], Il Gattopardo, a cura di G. Barbieri, Loescher, Torino 1979, p. 197.
[2] Per una ermeneutica letteraria e psicoanalitica di questi temi del romanzo di Lampedusa cfr. R. Galvagno, Il desiderio stellare del principe di Salina, in «Between», III, 5 (2013), http://www.Between‐journal.it.
[3] Tito Lucrezio Caro [I sec. a.C.], La natura (De rerum natura), I, 17-25, trad. it. di O. Cescatti, Garzanti, Milano 19866, p. 3.
[4] A.G. Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, Villaggio Maori, Catania 2016, p. 97.
[5] Ivi, p. 102.
[6] Ivi, p. 16.
[7] Ibidem.
[8] Tito Lucrezio Caro, La natura, I, 430-433, 440-448, cit., p. 29.
[9] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica[corso del semestre estivo 1935], trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 20183, p. 25. Sul significato greco di φύσις, cfr. anche Id., L’inizio del pensiero occidentale. Eraclito [corso del semestre estivo 1943], in Id., Eraclito, a cura di M.S. Frings, trad. it. di F. Camera, Mursia, Milano 20173, pp. 61-62 e 70.
[10] A.G. Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, cit., p. 50.
[11] Tito Lucrezio Caro, La natura, II, 67-70, cit., p. 79.
[12] Ivi, II, 1058-1063, cit., p. 141.
[13] Ivi, II, 174-181, cit., p. 85.
[14] Ivi, I, 262-264, cit., p. 19.
[15] A.G. Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, cit., p. 101.
[16] Cfr. M. Heidegger, L’inizio del pensiero occidentale. Eraclito, in Id., Eraclito, cit., pp. 65-66.
[17] Tito Lucrezio Caro, La natura, I, 44-49, cit., p. 5.
[18] A.G. Biuso, Aiòn. Teoria generale del tempo, cit., pp. 36-37.
[19] Tito Lucrezio Caro, La natura, III, 459-462, cit., p. 187.
[20] G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 241.
[21] Genesi 3, 19.