(Prove di primavera in disavanzo)
di Pietro Russo
*
Passare sopra le teste con disincanto
come un caccia che sparisce nell’orizzonte del Mediterraneo
è quello che sappiamo fare, lo facciamo
abbastanza bene
Sentiremo parlare di voi
una stella scoppiata sul confine sbagliato
attraverso venti contrari e freddi, milioni
e milioni di anni di vuoto
La guerra però non crede alle iperboli
è l’invidia del sole che ci fa sbranare come cani
*
È la guerra. Sainey impara l’italiano
cioè a sopravvivere senza corazza
con un dito sulla mappa dice Qui hanno ammazzato mio padre
I cieli sullo Jonio non sono mai stati così turbati
il vulcano ha aperto pure un’altra bocca,
non ricordo nulla come questi giorni –
come scende la sera dentro le case degli uomini
e i nostri corpi stanchi e depressi, ora
anche spaventati, che accendono fuochi all’orizzonte
Nelle città degli uomini dove si salta in aria
hanno staccato tutte le luci
ingombrato le carreggiate con sacchi di pietre e sabbia,
nel sottosuolo corpi vivi cercano altri corpi vivi
a cui stringersi
Nelle città degli uomini
dal cielo non è mai caduta una parola
*
Ecco la lunga notte che abbiamo fabbricato,
la famosa solitudine d’Occidente,
benvenuti fratelli di Kiev, di Kharkiv, di Kherson
le parole non sempre schiariscono i cieli
le anime hanno lasciato queste pietre,
benvenuti ai vostri corpi che si prostrano a terra
in ciò che resta di una preghiera
Così abbiamo lasciato lentamente il sole,
smettendo di accordare la voce
*
Stanotte ho bussato al tuo orecchio
non avrei voluto essere al tuo posto
Loro – pensando ai miei figli –
abbiano il disarmo delle nostre viltà
e domeniche di primavera al bar
con il sole che si sposta dai tavolini alla strada
e dalla strada alle auto che lasciano la città
per cercare un sole ancora più alto
Che sia loro questo momento
che da tutte le bocche esca il ringraziamento
anche per me in incognito nell’aria
atomo di luce che si infrange sopra il parabrezza
*
I muri reggono tutti quei fiati?
E le parole hanno aria abbastanza per dire “ti amo”?
Non riesco a pensare a niente che non sia questa notte
lontana da qui come la luce dal bunker
dormire mezz’ora o non dormire
assicurare i sogni a una fortuna migliore
nulla ci divide come un respiro che non ha paura dei radar
nulla ci divide più del ventre della notte, un fiato a perdere
Dio mio, come dobbiamo farti pena
*
In attesa della pioggia alziamo la testa
oggi diciotto marzo duemilaventidue
sarebbe un giorno più vicino di ieri alla primavera
se dalla cronaca arrivasse salvezza
ma qui, cioè da dove scrivo,
sotto il cappello di neve di un vulcano attivo
quasi alla fine di ogni idea di Europa
una terra rossa che viene dal Sahara
stringe un’alleanza con l’acqua piovana
precipitando come un altro primo uomo
che si consegna inerme agli atomi di vento
per capire chi è davvero
*
I segni dei tempi sono inequivocabili:
il dio del dirupo parla con miliardi di mani
ma uno è il silenzio
Dicono: La complessità
Dicono: Guardate un fiore
E la pace che senti nascere è scandalosa
come la memoria piana degli uccelli
che di ritorno non troveranno più i vecchi tempi
(Un poeta anticipando la fine dei suoi giorni
guardava la Terra da al di sopra del bene e del male,
aspettando, ma più con rassegnazione, tempi migliori,
come un’anima)
Ma l’anima è un fatto carnale
domandatelo a un fiore se sa cos’è la guerra e la pace
oppure tacciamo tutti
*
Alithòs anèsti
metro di Kharkiv, tra binari e treni fermi
rimbombano passi da un’altra vita
passi di ballo al piano di sopra
gli incubi dei bambini hanno la forma del sole
da sei settimane nasce e muore
un dio che scende nel sottosuolo
ricoperto di garze, le mani dietro la schiena
legate
dimenticato in una fossa comune
per separare i giusti dai topi e dalle blatte
quindi risalire, ma veramente, sotto il sole
alla vita effimera delle stagioni
Foto di Pietro Russo