Recensione a:
Fritjof Capra
Il Tao della fisica
(The Tao of Physics, 1975)
Traduzione di Giovanni Salio
Adelphi, Milano 1982
Pagine 381
di Davide Amato
Nella storiografia filosofica occidentale si è oggi concordi nel riconoscere il debito della filosofia greca verso quella del Vicino Oriente, o persino (verosimilmente per vie più indirette) verso quella dell’Estremo Oriente. In passato una lettura positivista tentava – oggi possiamo dire invano – di misconoscere questo debito, elevando il pensiero greco dell’antichità a prima e lucente espressione del genio occidentale, di tipo matematico e oggettivista. Questa stessa lettura ha spesso portato a considerare la filosofia della scuola ionica – rea di non aver ancora abbracciato tale indirizzo di cui Parmenide fu primo interprete – per molti versi più arretrata e ingenua, in quanto intrisa di “misticismo panteistico”, al pari delle filosofie orientali.
Non c’è dubbio che la filosofia greca, appunto da Parmenide in poi, abbia spesso assunto un atteggiamento lontano dalle filosofie mistiche del Vicino e dell’Estremo Oriente. Un atteggiamento che ha condizionato in modo profondo lo sviluppo del pensiero occidentale fino alla modernità. Basti pensare che filosofi come Pitagora e poi Platone vedevano nella geometria la scienza perfetta che regolava il cosmo, e ciò portava a credere che le sue leggi dovessero essere eterne, oggettive, immutabili, perfette. Una simile concezione (di tipo deduttivo) rimase in Occidente per lo più invariata sino al momento in cui Einstein, mettendo in crisi le credenze fondate sulla fisica newtoniana, capì che la geometria «non è inerente alla natura, ma è imposta a essa dalla nostra mente»[1]. Eppure in Oriente quest’idea era già di senso comune da parecchi millenni. In India e in Cina, dove venivano già nell’antichità costruite opere ingegneristiche all’avanguardia, non si ignoravano la geometria e la matematica: «Essi se ne servivano ampiamente per costruire altari di precise forme geometriche, per misurare i terreni e per tracciare le mappe celesti, ma mai per determinare verità astratte ed eterne»[2]. L’approccio orientale dunque era sostanzialmente empiristico e induttivo: partendo dalla natura determinavano i loro principi.
Alla base del metodo deduttivo della filosofia greca vi era invece la visione parmenidea di una sostanza statica e immutabile, come tali parevano le verità matematiche. Ma le scoperte della fisica del Novecento hanno portato a vedere l’universo in modo del tutto diverso: quella che vediamo oggi è una realtà dinamica, in continuo mutamento, dove la molteplicità e il divenire sono caratteristiche intrinseche di tutto ciò che esiste. Grazie alla fisica moderna ci rendiamo conto che tutto è soggetto a mutamento ed è in interazione dinamica con l’ambiente: a partire dalle minuscole e vibranti particelle fino all’enormità dell’universo in continua espansione. Questa prospettiva dinamica della realtà può essere difficile da comprendere per noi occidentali (abituati come siamo a una visione statica e oggettivista), eppure era già tesoro non solo dei mistici orientali, ma anche degli antichi filosofi della Ionia, i quali cercavano nella materia, e non in una realtà estranea e immutabile, il principio della suprema unità del cosmo.
Dalle poche notizie pervenuteci sul pensiero della scuola nata a Mileto, sappiamo che Talete ritenesse tutta la materia viva grazie a un principio naturale (l’acqua) che univa tutte le cose e le animava. Per Talete come per i suoi successori non vi era alcuna distinzione tra ricerca filosofica e ricerca naturale. Egli fu infatti il primo dei filosofi ilozoisti, così chiamati per il tentativo di spiegare la vita attraverso le strutture che ordinavano il cosmo. Lo stesso Anassimene volle trovare nell’aria un «principio atto a connettere in un unico sistema i fenomeni celesti e quelli vitali […], a far circolare nell’intero universo il principio della vita»[3].
Quest’indirizzo, considerato ingenuo per i suoi legami con la filosofia orientale e il misticismo panteistico, oggi mostra la sua ricchezza proprio alla luce di questo legame, e delle recenti scoperte della fisica moderna. La scuola ionica infatti non faceva alcuna distinzione tra l’umano e l’oggetto naturale studiato, giacché in entrambi si trovava lo stesso principio vivifico che muoveva tutte le cose, dalle più piccole alle più grandi – e le univa, come osservato da Anassimandro, in un costante ciclo di creazione e distruzione, nascita e morte, mutamento dal distinto all’indistinto (àpeiron). Solo con le scuole successive, diceva Geymonat, «ci si libererà dalla pericolosa illusione che la “ragione” delle cose sia immediatamente osservabile nelle cose stesse e nei loro ritmi, e che la verità sia direttamente attingibile entro la spontanea relazione dell’uomo con il mondo che lo attornia»[4].
In altre parole lo sviluppo della filosofia occidentale a partire dai Greci condurrà a cercare altrove, e non più nella physis, i suoi principi guida. Mente e corpo, spirito e materia, razionalità del pensiero e molteplicità dinamica degli enti: questi concetti che nelle filosofie orientali sono indissolubili, verranno posti come contrari inconciliabili, anticipando la separazione tra soggetto e oggetto che fu fondamento della filosofia cartesiana.
Queste teorie giustificarono l’idea di un universo fondato sulla supremazia della ragione sul corpo, della logica sulla materia, dell’umano sulla physis. Secondo Cartesio e Newton nel cosmo non poteva esistere alcuna indeterminazione. Essendo governato da leggi necessarie, vigeva il più rigido meccanicismo fondato su rapporti di causa-effetto: «In linea di principio, si sarebbe potuto prevedere con assoluta certezza il futuro di una parte qualsiasi del sistema se si fosse conosciuto in un qualsiasi istante il suo stato in tutti i suoi particolari»[5].
Dal razionalismo logico derivò dunque il dualismo mente-corpo, con la supremazia della prima rispetto al secondo. A partire da questo dualismo «si riteneva che il mondo potesse essere descritto oggettivamene, cioè senza tener mai conto dell’osservatore umano, e tale descrizione oggettiva del mondo divenne l’ideale di tutta la scienza»[6]. Ma non solo descritto: anche controllato, manipolato, espropriato. La separazione del soggetto dalla Natura ha aperto la strada alla pretesa di controllo assoluto dell’umano sul mondo dei viventi.
La fisica moderna ha però, come è noto, confutato questa pretesa assolutistica del meccanicismo cartesiano/newtoniano. A livello subatomico o nei campi di applicazione della teoria della relatività non è possibile una oggettivazione della realtà di tipo positivistico. I fenomeni con cui si trovano a interagire i fisici moderni non sono statici, meccanici, determinati. Sono invece dinamici, probabilistici, indeterminati. Essi confermano l’origine sostanzialmente olistica della realtà. «Come dice Heisenberg, “ciò che osserviamo non è la natura in se stessa ma la natura esposta ai nostri metodi di indagine”»[7]. Il fisico non è più un mero osservatore. Egli partecipa ai fenomeni che studia, guardandoli attraverso una lente particolare e nient’affatto oggettiva. Ciò che vede non sono entità separate e isolate come nel mondo della meccanica classica, ma eventi dinamici basati su rapporti di probabilità. «Il concetto di una entità fisica distinta quale la particella è un’idealizzazione che non ha alcun significato fondamentale. Essa può essere definita solo in rapporto alle sue connessioni con il tutto, e queste connessioni sono di natura statistica: probabilità invece di certezze»[8].
I limiti della fisica classica applicata al mondo subatomico sono stati espressi in forma matematica attraverso il principio di indeterminazione di Heisenberg. Tale principio dimostra l’impossibilità di conoscere al contempo il moto e la posizione di una particella. E ciò non per una imperfezione delle nostre tecnologie, quanto per motivi strutturali: il mondo subatomico ci è del tutto inaccessibile in senso oggettivo. Esso può essere conosciuto solo attraverso un nuovo modo di guardare la realtà, una prospettiva che rinunci ai pregiudizi fondati sull’esperienza del mondo visibile-sensoriale. Si potrebbe pensare, ad esempio, che le particelle dei corpi di cui facciamo esperienza siano “i mattoni” fondamentali della realtà, ma non è così:
A livello macroscopico, questa nozione di sostanza è un’approssimazione utile, ma a livello atomico essa non ha più senso. Gli atomi sono composti da particelle e queste particelle non sono fatte di un qualche “materiale”. Quando le osserviamo, non vediamo mai nessuna sostanza, ma solo forme dinamiche che si trasformano incessantemente l’una nell’altra, in una continua danza di energia[9].
Le scoperte della fisica moderna ci costringono a rinunciare alla classica opposizione di concetti che siamo abituati a considerare irrimediabilmente contrari, ma che a livello subatomico sono unificati nelle interazioni dinamiche tra particelle:
Forza e materia, particelle e onde, movimento e quiete, esistenza e non-esistenza: questi sono alcuni dei concetti opposti o contraddittori che sono stati superati nella fisica moderna. Di tutte queste coppie di opposti, l’ultima sembra essere la più fondamentale, eppure nella fisica atomica dobbiamo andare addirittura al di là dei concetti di esistenza e di non-esistenza[10].
Il meccanicismo newtoniano si dimostra quindi insufficiente per spiegare questi fenomeni, e ciò diventa chiaro con la scoperta della relatività generale. Einstein, nel formulare questa teoria, contraddice direttamente l’idea di un mondo statico e geometrico fondato sulle osservazioni di Euclide. Certo, quelle osservazioni non sono del tutto sbagliate: restano valide per la nostra esperienza quotidiana e sensoriale, che riguarda solo una piccola parte della realtà niente affatto assoluta. Là dove invece le masse esercitano una forza sufficiente sullo spazio, «il tempo non scorre con la stessa rapidità che avrebbe nello “spazio-tempo piano”»[11]. Quindi chiedersi quanto tempo impiega (in termini assoluti) un determinato fenomeno a realizzarsi è insensato. La durata di ogni fenomeno «è relativa e dipende dal sistema di riferimento dell’osservatore»[12].
Lo spazio è curvo in misura diversa e il tempo scorre diversamente in punti diversi dell’universo. Siamo quindi giunti a comprendere che le idee di spazio euclideo tridimensionale e di tempo che scorre linearmente sono limitate alla nostra esperienza ordinaria del mondo fisico e devono essere completamente abbandonate quando ampliamo questa esperienza[13].
La fisica moderna, allora, ci mostra come le realtà dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande siano inaccessibili in senso oggettivo e dominativo come siamo abituati a credere partendo dalla nostra esperienza visibile e sensoriale della realtà. Il mondo subatomico sfugge a qualsiasi pretesa di controllo assoluto in quanto l’umano è un essere costitutivamente limitato dalle leggi della meccanica classica, insufficienti per spiegare ciò che avviene nello strato più profondo della realtà. E allo stesso tempo una comprensione completa di un universo basato su quattro dimensioni (oggi si pensa possano essere molte più di quattro) è impossibile per esseri tridimensionali quali siamo.
La specie umana si trova dunque costretta ad accettare i propri limiti costitutivi, oltre i quali non si dà dominio: contro ogni pretesa politica, economica, scientifica, filosofica, la realtà ultima dell’universo non sembra piegarsi al volere di Homo sapiens. Egli non può più illudersi di poter imporre la sua intelligenza logico-razionale anche ove essa non è adatta a spiegare i fenomeni. La nostra esperienza dello spazio e del tempo è particolare, non è assoluta: essa è diversa per una particella (che può muoversi avanti e indietro nel tempo come nello spazio) e per un buco nero, nel cui orizzonte degli eventi gli intervalli di tempo sono alterati rispetto ai nostri. Dice Capra:
Spazio e tempo sono del tutto equivalenti, essi sono unificati in un continuo quadridimensionale nel quale le interazioni tra le particelle possono estendersi in qualsiasi direzione. Se vogliamo raffigurare queste interazioni, dobbiamo rappresentarle in una “istantanea quadridimensionale” che copra l’intero intervallo di tempo come pure l’intera regione di spazio. Per ottenere la sensazione esatta del mondo relativistico delle particelle, dobbiamo “dimenticare il trascorrere del tempo”, come dice Chuang-tzu; ed è per questo che i diagrammi spazio-tempo della teoria dei campi possono essere un’analogia utile per capire l’esperienza dello spazio-tempo dei mistici orientali[14].
In altre parole ciò che la fisica oggi dimostra con la matematica e il metodo scientifico, i mistici orientali affermano da millenni di poterlo esperire attraverso la pratica della meditazione, in cui «il tempo non fluisce più»[15], e che dimostra come la tendenza a frammentare spazio e tempo in una sequenza statica di luoghi e momenti è un’illusione del nostro intelletto. Essi sono invece un tutto unificato, percepibile attraverso quella che i mistici chiamano ‘illuminazione’. Per gli orientali l’illuminazione non è altro che la comprensione dell’unità integrale del cosmo, della dinamicità dei suoi processi e della molteplicità delle sue manifestazioni. Tramite l’illuminazione il mistico cessa di percepirsi come individuo isolato e distinto dal tutto, e arriva ad accettare l’unità dinamica di tutte le cose. Infatti: «La meccanica quantistica ci costringe a vedere l’universo non come una collezione di oggetti fisici separati, bensì come una complicata rete di relazioni tra le varie parti di un tutto unificato. Questo, peraltro, è anche il tipo di esperienza che i mistici orientali hanno del mondo»[16].
Si può constatare dunque una particolare coincidenza tra il pensiero di matrice orientale (sia esso cinese, indiano o giapponese) e la realtà oggi guardata dai fisici. Una coincidenza che può mostrare la sua fertilità anche per la filosofia occidentale, ancora in parte vincolata da giudizi fondati su un modo limitato di guardare alla realtà.
La caratteristica più importante della concezione del mondo orientale – si potrebbe quasi dire la sua essenza – è la consapevolezza dell’unità e della mutua interrelazione di tutte le cose e di tutti gli eventi, la constatazione che tutti i fenomeni nel mondo sono manifestazione di una fondamentale unicità. Tutte le cose sono viste come parti interdipendenti e inseparabili di questo tutto cosmico, come differenti manifestazioni della stessa realtà ultima. Le tradizioni orientali si riferiscono costantemente a questa realtà ultima, indivisibile, che si manifesta in tutte le cose e della quale tutte le cose sono parte. Essa è chiamata Brahman nell’Induismo, Dharmakāya nel Buddhismo, Tao nel Taoismo. […] Nella vita ordinaria, non siamo consapevoli di questa unità di tutte le cose, ma dividiamo il mondo in oggetti ed eventi separati. Naturalmente, questa divisione è utile e necessaria per muoverci nel nostro ambiente quotidiano, ma non è un aspetto fondamentale della realtà. È un’astrazione ideata dal nostro intelletto che distingue e classifica […]. Lo scopo principale delle tradizioni mistiche orientali è perciò di rimettere ordine nella mente guarendola e acquietandola attraverso la meditazione. Il termine sanscrito per meditazione – samādhi – significa letteralmente “equilibrio mentale”, che allude allo stato mentale equilibrato e tranquillo nel quale si sperimenta l’unità fondamentale dell’universo[17].
Da queste osservazioni della fisica e della mistica orientale noi moderni possiamo trarre l’origine del limite che ci costituisce, e che pure viene ignorato nella fondazione dei nostri apparati politici, economici, sociali, ma anche scientifici, tecnologici e filosofici.
Accettare l’insegnamento delle filosofie orientali non significa oggi rinunciare alle conquiste della modernità quali il benessere, lo sviluppo, la prosperità, ma significa accettare che le nostre azioni – come individui e come specie – hanno delle conseguenze che si ripercuotono sullo spazio in cui siamo immersi e dal quale siamo condizionati. L’idea di un mondo composto da monadi separate e contrapposte (individuo-società, umano-natura…) è infatti all’origine di molti problemi sociali e ambientali, e continua ancora oggi a giustificare l’atteggiamento predatorio che le economie capitalistiche assumono verso gli ecosistemi naturali ma anche verso gli umani. Così come la fisica moderna e la fisica classica sono entrambe valide in campi di applicazione diversi, allo stesso modo non si dovrebbe guardare alle filosofie orientali per negare la modernità e le conquiste tecnologiche ottenute sin qui.
Accogliere la loro eredità oggi significa invece capire che, come insegnano i Taoisti, la realtà ultima è un tutto unificato in permanente cambiamento, ove il ciclo degli enti e degli eventi si alterna all’infinito, in un permanente movimento che unisce gli opposti yin e yang, nascita e morte, felicità e dolore, vittoria e sconfitta – e questa è l’essenza del Tao. Significa capire che, come insegnano i Buddhisti, la vita individuale non rappresenta una monade separata dal tutto, ma è invece una manifestazione temporanea e transitoria dell’unità cosmica (Dharmakāya); unità che si manifesta nella finitudine dei singoli enti, nati dal tutto e che nella morte torneranno al tutto da cui sono venuti. Significa capire che, come insegnano gli Induisti, la nostra realtà è il risultato di una «danza cosmica» – impersonificata dal dio-danzatore Śiva – che unisce in movimento dinamico le anime individuali (Ātman) a quella universale (Brahman).
Questi sono quindi i principi chiave per le filosofie orientali, per la fisica moderna, e un tempo anche il fondamento filosofico di un pensatore a noi geograficamente più vicino: Eraclito, che vedeva la sostanza del mondo non nella staticità di verità estranee alla Natura, ma nell’eterno fluire di tutte le cose e nella originaria unità nel molteplice. Per questo Geymonat gli attribuisce «la concezione che l’unità dell’essere scaturisca dalla sua stessa molteplicità. Per unità, infatti, egli intendeva il divenire, e questo deriva dall’esistenza degli opposti, in quanto è il loro fondersi, è lo svilupparsi dell’uno e dell’altro, è l’unità dei contrari»[18].
Tornare al pensiero di Eraclito e dei filosofi orientali può aiutare il pensiero occidentale a comprendere una dimensione più profonda della nostra realtà, che non si dà in modo immediato e che la mera sensorialità non ci consente di percepire. Una dimensione entrati in contatto con la quale ci renda consapevoli del nostro statuto ontologico ultimo. «L’universo diviene, si trasforma, scorre», e noi con esso; «ma questo trasformarsi, questo variare, non è segno di irrazionalità: anzi, è l’attuazione della sua più profonda razionalità (logos)»[19].
[1] F. Capra, Il Tao della fisica (The Tao of Physics), trad. di G. Salio, Adelphi, Milano 1988, p. 188.
[2] Ibidem.
[3] L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico. Volume primo. L’antichità – Il medioevo, Garzanti, Milano 1981, p. 38.
[4] Ivi, p. 39.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, p. 160.
[8] Ivi, pp. 183-184.
[9] Ivi, p. 235.
[10] Ivi, p. 177.
[11] Ivi, p. 206.
[12] Ivi, p. 208.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 216.
[15] Ivi, p. 217.
[16] Ivi, p. 157.
[17] Ivi, pp. 147-148.
[18] L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, cit., p. 56.
[19] Ibidem.