di Antonio Sichera
I centenari sono sempre una ricorrenza estrinseca, meramente aritmetica, e infatti se ne susseguono tanti nella storia senza lasciare eco alcuna nei posteri lettori potenziali. La letteratura italiana, quest’anno, ne sta celebrando di importanti: da Pasolini a Fenoglio fino a Verga. Nel contesto della letteratura occidentale, però, non è passato sotto silenzio – e non poteva essere diversamente – il fatto che siano trascorsi esattamente cento anni da quando, nell’ottobre del 1922, esce su «The Criterion» il poemetto di T.S. Eliot intitolato The Waste Land, opera ristampata a novembre su «The Dial» e poi in volume, in America, in dicembre, per i tipi di Boni&Liveright. Nel 1923 i coniugi Woolf ne ospiteranno la prima edizione europea per la loro casa editrice, la Hogarth Press. Anche l’Italia ha partecipato alla festa eliotiana, anzitutto con nuove o rinnovate edizioni del poema eliotiano: dalla traduzione di Carmen Gallo per Il Saggiatore alla proposta monografica di Daniele Gigli (Ares 2021), fino alla ristampa per Internopoesia, a cura di Rossella Pretto, della traduzione di Elio Chinol, impreziosita a suo tempo da undici disegni e da sei acqueforti di Ernesto Treccani e uscita in 75 esemplari numerati nel 1972.
Tralasciando ogni altra considerazione di tipo filologico o critico, chiediamoci semplicemente perché oggi, a cento anni di distanza, abbia ancora senso leggere il poema di Eliot. Ovvero chiediamoci se quel libro ha ancora qualcosa da dirci o se la ricorrenza serva semplicemente a riporlo serenamente nel museo delle cose ormai passate. Dal mio punto di vista la risposta alla prima domanda è certamente positiva, per una serie di motivi che proverò ad esporre brevemente.
Intanto perché sono il soggetto, il poeta della Terra desolata, nonché l’atto della scrittura e il suo contesto, ad essere ancora significativi per noi. Quando scrive The Waste Land Eliot sta male, è un giovane uomo esaurito, in uno stato di instabilità psichica, ricoverato in clinica a Losanna, tra il dicembre del 1921 e il gennaio del 1922. Il corpo da cui nascono queste parole è il corpo di un uomo ferito, che vive una forte frattura esistenziale, come una ferita dell’anima. Un uomo che non ce la fa, che fa fatica a vivere. In questa fragilità, in questa larvata disperazione possiamo rispecchiarci. Il testo forse più emblematico, e certo il più celebre, della poesia modernista, non nasce dall’esperienza di un saggio poeta, di un colto atarassico. È il canto di chi sente nella propria carne la crisi radicale di un mondo e la esprime nella maniera più adeguata possibile, non come una resa ma come una ricerca: ecco il senso del modello della quête, della ricerca del Graal, che attraversa La terra desolata.
Come può esprimerla se non per brandelli e frammenti? La frammentarietà del poema non è un dato estrinseco, non è un esperimento avanguardistico, è l’unico modo in cui il corpo poetante di Eliot poteva dirsi in quel momento, in quei mesi svizzeri di cento anni fa. L’operazione che compie è quella di convocare e di mettere in questione la sua cultura, che è anche la cultura dell’Occidente, i miti dell’Occidente, e chiamarli in causa: per criticarli, per sbeffeggiarli anche, dinanzi al crollo, per interrogarli con ardore, per rovesciarli, per cercarvi dentro frammenti di speranza. È ciò che passerà alla storia come il «metodo mitico» (mythical method), come atto di rivisitazione violenta, di sfondamento del mito, di centrifuga del mythos. È questa natura profonda del gesto poetico di Eliot che Pound, «il miglior fabbro» della dedica, capì istintivamente e che guidò, a mio modo di vedere, la sua revisione del testo, da cui nacque, per parto cesareo, La terra desolata per come noi oggi la leggiamo. La metafora del taglio, «l’operazione cesarea», come la chiamò lo stesso Pound, rimanda certo alla cassatura impietosa di decine di versi del poema originale da parte di Pound, ma anche a un’opera di disarmonizzazione radicale, o meglio ancora di incisione dolorosa nella carne del testo, che è anche la carne del corpo del poeta e che viene ferita perché la poesia possa venir fuori nella sua autenticità.
Se quello che abbiamo appena illustrato è un secondo motivo di rilevanza del poema, ne possiamo individuare sicuramente un altro, mettendo a fuoco il ‘modo’ in cui La terra desolata è venuta al mondo. Mi riferisco alla relazione con Pound e alla relazione con il lettore, elemento coessenziale al metodo mitico. L’opera non può nascere come l’avventura solitaria di un creatore, ma come una cooperazione. Come se per scrivere, per parlare, ma anche per vivere, ci fosse bisogno dell’altro, che è qui il lettore-fratello di Baudelaire. C’è nel dinamismo della Terra desolata un senso di im-proprietà della parola poetica, di crisi del modello del possesso autoriale, di necessità della relazione perché l’essere sia, modello oggi degradato dalle scuole di scrittura creative e dall’editing selvaggio e puramente commerciale delle case editrici, ma che qui assume un valore simbolico profondo. È la memoria della natura condivisa della parola. C’è sempre una conversazione, un Gespräch dietro la poesia, una sacra conversazione dei poeti (Jossua).
Vale la pena poi concentrarsi brevemente sul titolo del libro. Tante sono le traduzioni possibili. «Desolata», che vuol dire la terra abbandonata, disseccata, incolta. Come a dire la Madre Terra di Francesco messa in una condizione di crisi radicale, mortale. «Devastata», parola che rimanda immediatamente alla guerra e alla devastazione del mondo. Sulla Waste Land grava l’ombra della prima guerra mondiale: Il fantasma delle trincee, della vita impossibile tra malattie, ratti e privazioni di ogni tipo, senza dire delle conseguenze terribili, prevedibili, di quella ‘pace cartaginese’ che era stata la pace di Versailles (e qui mi pare pertinente il riferimento di Gallo a Keynes). L’allarme per la Terra e lo spettro della guerra fanno da background al poema. Sono le due facce della temperie contemporanea, del sempre evocato tramonto spengleriano dell’Occidente («Gerusalemme Atene Alessandria / Vienna Londra / Fantasmi» dice Eliot), a cui l’epigrafe cassata ne aggiunge una terza. Mi riferisco al finale di Cuore di tenebra (Hearth of Darkness) di Conrad, all’orrore del neocolonialismo, della devastazione dell’Africa, orrore scolpito nelle ultime parole di Kurtz («Stava forse rivivendo, in quel supremo istante di perfetta conoscenza, l’intera sua vita in tutti i particolari del desiderio, della tentazione, della resa finale? Sussurrando gridò a non so quale immagine, a non so quale visione – due volte gridò, con un grido che era poco più di un sospiro: ‘L’orrore! L’orrore»). Non si tratta di creare facili nessi ermeneutici o di mettere in campo affrettate attualizzazioni, ma semplicemente di constatare come un filo resistente leghi effettivamente il lungo percorso della contemporaneità. Come cioè quell’inaugurazione del «secolo breve» che fu il primo grande conflitto globale, preparato da una forma selvaggia di capitalismo neocolonialista e da un modello di sviluppo che guardava alla Terra come uno spazio neutro da sfruttare in maniera esasperata (e non come un organismo vivente e cordiale) abbia posto le premesse per un crinale della storia che ancora oggi ci tocca. Senza in alcun modo sottacere per questo le opportunità di cambiamento e di resistenza ancora presenti nel tessuto del nostro presente grazie proprio agli orizzonti della cultura odierna (basti pensare, all’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco).
Ma la crisi non ha solo un versante storico. Leggendo La terra desolata si può cogliere a pieno il lato relazionale della deflagrazione contemporanea. La crisi dell’Occidente vi viene rappresentata come crisi del desiderio e dell’amore. Le relazioni tra un uomo e una donna si possono leggere bene attraverso la rivelazione di Tiresia: «Nell’ora violetta…». Il sesso appare qui non come potenza primordiale, maestosa e terribile, ma quale fatto meccanico, seriale, spogliato di ogni passione, divelto dalla radice mitica dell’eros del Simposio. In termini pavesiani diremmo che è il sesso distratto e ininfluente di Tra donne sole e non la potenza rocciosa de I ciechi nei Dialoghi con Leucò. In quest’orbita bisogna intendere le ‘donne lussuriose’ della Terra desolata, da Didone a Cleopatra, a tutte le loro compagne.
Un ultimo rilievo credo si debba fare sull’uso della profezia nel poema e sulla figura del poeta-profeta. Le sue raffigurazioni sono molteplici, a partire dalla Sibilla cumana del Satyricon di Petronio, su cui si apre The Waste Land, adottando la nuova epigrafe poundiana (con il famoso finale: «Voglio morire») e con il conseguente rifiuto della primavera dell’incipit («Aprile è il mese più crudele»). Altra figura profetica è quella di Tiresia, con la sua rivelazione sulla natura del sesso. E poi c’è Madame Sosostris, con i suoi tarocchi. Ma non bisogna trascurare come su questo piano entri in gioco anche la Bibbia. Intanto per il chiaro richiamo al profeta Ezechiele. È lui il figlio dell’uomo a cui Dio mostra l’abbandono di Israele e la pianura delle ossa inaridite (su cui il profeta invocherà lo Spirito vivificatore). Ma c’è anche Mosè. E non è un elemento indifferente, perché il condottiero di Israele viene evocato nel poema con un criptico riferimento a Numeri cap. 20: è il capitolo dell’acqua che sgorga dalla roccia, con cui Dio risponde al lamento del popolo uscito dall’Egitto, convinto che Yahweh lo abbia lasciato solo e voglia farlo morire di sete lungo il viaggio. Mosè tocca la roccia con il suo bastone e dalla roccia scaturisce l’acqua per dissetare il popolo. Ciò significa che nella Terra desolata, grazie a Mosè, c’è certamente l’acqua che uccide, la «morte per acqua», ma si trova anche la figura salvifica della ‘vita per acqua’, proprio in un nesso stringente con quella roccia che è lessema decisivo del libro eliotiano. Non per nulla, nella chiusa ‘orientale’ del poema, dopo le tre massime della sapienza indiana – Datta (dai), Dayadhvam (sii compassionevole), Damyata (controlla te stesso) – l ’acqua arriva. Le parole del primato del dono, della compassione e della misura planano idealmente sul Gange, con le nuvole, il tuono e la pioggia. È questa epifania sottotraccia dell’acqua e della sua potenza ristoratrice forse il momento più emblematico in cui Eliot prova a puntellare le sue rovine con questi frammenti («these fragments I have shored against my ruins»). Sono le parole di una speranza incredibile e dolorosa, riassunta nell’invocazione finale: «Shantih shantih shantih». Secondo lo stesso poeta, questo appello alla pace deve essere inteso sulla scorta del testo di Paolo ai Filippesi: «Non angustiatevi di nulla, ma in ogni cosa fate conoscere le vostre richieste a Dio in preghiere e suppliche, accompagnate da ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù» (Fil 4, 6-7). Su una pace incomprensibile, posta al di là dell’intelligenza e dell’esercizio della pura ratio, tanto sicura quanto misteriosa, si chiude The Waste Land, come la lunga supplica, l’incessante inconsapevole invocazione dell’umanità contemporanea e di tutta la creazione al Dio che ha abbandonato la Terra.