di Antonino Virga
Nella loro Prefazione al volume universitario dell’Oxford Poetry 1926, Charles Plumb e W. H. Auden dichiarano: “Se abitare in una stanza con finestre che si aprono sul Regno delle Fate rappresenta una predilezione naturale, almeno una di esse dovrebbe aprirsi sulla Terra Desolata” (la traduzione è mia). Si potrebbe presumere, leggendo tale citazione concisa, che la poesia di Eliot sia intrisa di caratteristiche soprannaturali e irrealistiche, le quali linguisticamente e tematicamente costruiscono un testo problematico ma molto intrigante. Il titolo, tuttavia, non concede alcun preconcetto euforico, dal momento che al lettore viene istantaneamente veicolata l’immagine di uno scenario arido, che anticipa la condizione putrida di un mondo ridotto a mera terra. Ecco la terra moderna, un universo intricato i cui soggetti e il cui linguaggio sfuggono a qualsiasi ordine o unità formale, componendo un insieme di realtà sparse e frammentarie, ciascuna inserita in una poesia che cela un racconto sostanziale e singolare.
Un racconto che Eliot consacra, sin dal principio, alla propria preoccupazione per la terra, accuratamente perlustrata e delineata in ogni suo specifico aspetto elementare (aria, acqua, terra e fuoco), ma, ahimè, spiritualmente e naturalmente devastata, la quale, insieme alla sua città industrializzata e ‘irreale’, ha ricamato false identità e principi nocivi, che a loro volta hanno sfigurato la facciata ambientale, generando infine uno scenario spettrale, emblema di una natura decaduta e sterile in cui gli individui anonimi e ignavi appaiono chiaramente lontani dall’ottenere una potenziale rigenerazione. Il mondo contemporaneo, nel quale frenetici ritmi urbani e forti rumori umani hanno soppiantato le voci rigogliose e i colori del giardino – ora declassato a landa secca e infertile (“dead land”, v. 2) –, finisce per configurarsi come la vera e propria proiezione di un’umanità spersonalizzata, un universo di identità frammentate e scomposte la cui vita è ridotta a una sequenza inesorabile e ripetitiva.
L’infecondità che contraddistingue il regno moderno, i cui confini antropici e affollati speditamente tendono a offuscarsi, intrecciarsi e confondersi coi tratti taciturni e desolati di un arido deserto, uno spazio angoscioso in cui l’illusione delle tradizionali certezze e codificazioni viene rapidamente sconvolta da un incessante sradicamento esistenziale, incarna una situazione oggettiva per cui una paralisi personale si rispecchia in un paesaggio naturale devastato, ove lo scorcio distante di una provvidenziale primavera si rivela essere il flusso distruttivo di un fiume impetuoso che porta con sé le speranze infrante di soggetti impotenti, un fiume le cui acque non possono che garantire un’unica, triste fatalità, e la cui turpitudine riflette la coscienza corrotta di uomini vuoti, relitti galleggianti e allo stesso tempo sommersi dalle forza eterna della lussuria.
L’infernale covo contemporaneo dell’iniquità, tutto costellato di aspre rocce che, lungi dall’offrire un riparo, esemplificano le anime asettiche di uomini privi di fede, i quali, accecati da un’ombra perenne, sono costretti a vivere in una sospesa e limbica inettitudine, diventa la valle di lacrime per penitenti disperati che necessitano urgentemente un rinnovamento religioso, al fine di essere purificati e poi ricostituire la fragile cornice naturale in cui dimorano, un cosmo in caduta dove ogni armonia è stata drasticamente annientata.
L’inizio del Novecento, insieme alle pressioni percepibili delle nuove tecnologie che rivoluzionarono radicalmente i ritmi e le condizioni di vita, rappresentò un momento di ‘chiassosa’ modernità. La città con i suoi più vari aspetti, la folla e le sue voci assordanti, le rapide trasformazioni economiche e politiche, stavano tutte costituendo un sistema mondiale emergente, un crogiolo cosmopolita in cui stavano originandosi nuove esperienze e forme espressive. In questo scenario caleidoscopico, il flâneur – il distaccato osservatore e cronista della vita urbana – poteva assistere con vivido dettaglio ai numerosi panorami, suoni e odori che la città doveva offrire a un luogo senza confini precisi, ove tradizioni e culture diverse si mescolavano continuamente, vantando una grande varietà di materiali che si fondevano nella grande e moderna metropoli.
Nondimeno, il perenne assorbimento di molteplici realtà, insieme all’incessante rimodellamento del sé, diventava particolarmente problematico nella formazione di identità stabili all’interno di un iperspazio che progressivamente non riusciva a riconoscere un’esteriorità e che stava evolvendosi in un terreno immateriale e trasparente, giacché la vasta città tendeva a ignorare e sconvolgere i confini convenzionali di fisicità e località, tempo e spazio, nazioni e culture.
Il risultato, una crisi delle forme e una perdita irrevocabile di quella completezza che sembrava necessaria a ogni cultura robusta, generò la tragica rottura della continuità e il drammatico sradicamento di una società che gradualmente andava trasformandosi in una congregazione impersonale e anonima, un paesaggio urbano di spettri, di psicologie collettive ontologicamente frammentate, una “Città irreale” (v. 60), precariamente in bilico tra gli estremi della realtà e della fantasmagoria, cessando così di costituire un ambiente meramente sociale.
Una ricognizione dell’irrealtà urbana de La Terra Desolata sembra inevitabile, dal momento che il testo è pervaso da un senso di disumana desolazione che raffigura la City, ossia Londra e l’intera esperienza urbana moderna, come un luogo infestato, un territorio poetico che si affranca da un senso di stabile collocazione, posizionandosi tra una lontana Utopia e un’imminente Apocalisse.
La poesia di Eliot, difatti, tramanda un’atmosfera lugubre, la quale rappresenta in effetti l’aria che ogni grande polis moderna può respirare, una desolazione estetica e spirituale che sprigiona immagini vivide e transitorie, distilla brevi momenti di pura commozione, ma continua a segnalare la presenza di individui senza nome, dotati di piaceri sordidi e deboli, di individui indistinti con ideali falliti, di una falsa realtà priva di coerenza o serietà, in cui gli uomini sono completamente separati dalle proprie vite.
La prima sezione del poema, “La Sepoltura dei Morti”, introduce la civiltà di questa terra, una civiltà che stranamente considera aprile “il mese più crudele”, incapace di gioire della nuova nascita e rigenerazione che la calda primavera porterà, preferendo al contrario la sterilità del morto inverno e la glacialità di un mondo in cui non è possibile generare. Si incrina dunque sin dall’inizio il consueto legame tra aprile e la rinascita della Natura, e lo stesso titolo della sezione sembra evidenziare tale frattura, attraverso i suoi molteplici riferimenti a una triste circostanza: “The Burial of the Dead” indica proprio la funzione commemorativa celebrata secondo il rito anglicano (il cui appellativo è “The Order for The Burial of the Dead”); mitologicamente, evoca anche la sepoltura dell’effigie del dio, che rappresentava un pegno di rinascita nei riti di fertilità; ma in particolare, esso fa riferimento alla sepoltura dei morti nel mondo moderno, una sepoltura metaforica di uomini vuoti che rifiutano di risvegliarsi al dramma della vita.
Nell’atmosfera squallida de La Terra Desolata, la quale palesemente suggerisce che, man mano che la città ha perso il contatto con la terra, con i ritmi e il nutrimento psichico della natura, è andato altresì perduto un significato spirituale, il lettore è quindi indotto ad addentrarsi in un paesaggio desertico che rispecchia lo stato interiore dei suoi abitanti, uomini le cui anime ardono nel fuoco distruttivo della lussuria, un desiderio infecondo e insoddisfacente: è un luogo governato dall’aridità, letterale e simbolica, una siccità perpetua che attende ancora una rigenerazione, quella pioggia d’acqua che, tuttavia, sembra non cadere.
L’acqua è infatti ciò che questi uomini assetati bramano ardentemente, nel loro habitat naturale e secco in cui la pioggia primaverile eccita “spente radici” (v. 4) e la terra è disseminata unicamente di “arida pietra” e non si ode nessun “suono d’acqua” (v. 24). La carenza di radici, che non germogliano e impediscono in tal modo il rinnovamento della vita spirituale e vegetale, provoca la decomposizione di un mondo in cui non è possibile garantire né una concreta guarigione né una risurrezione metafisica. Pare dunque apodittico che quei morti siano una proiezione dei vivi, ‘morti viventi’ fatalmente destinati a un’esistenza larvale, esiliati nella Città infernale, ridotti a meri uomini disossati e vuoti. La vacuità che caratterizza l’essenza stessa di questi individui si estende fino ad abbracciare tutta la loro esperienza, che rimane sospesa nel ricordo per criticare e rendere sterile il mondo di ordinaria emozione: un’esperienza fatta di passioni e desideri spenti, sentimenti inefficaci che vengono ricordati con tenero rammarico ma pure con dolore.
La tempestosa e travolgente lascivia che inevitabilmente corrode gli individui e i loro legami amorosi, è sommersa da un fiume distruttivo, che presenta l’elemento naturale dell’acqua come fattore rovinoso e nocivo, il quale continua a trasportare e sopportare l’enorme danno dell’umanità, ripetutamente battezzata come ‘causa prima della turpitudine esistenziale’. Il “Dolce Tamigi” (v. 176) può sintetizzare tale degrado: è un fiume che proietta e testimonia varie epoche di vizi umani – in primo luogo tra questi la lussuria –, che trasuda “petrolio e catrame” (v. 267), ricolmo dei segni del commercio, del consumo e della deforestazione, uno “spento canale” (v. 189) personificato che traghetta persino l’indifferente violazione e stagnazione della sessualità. Il fiume non può favorire alcun riscatto o rigenerazione, le sue acque esteriorizzano l’intimo inquinamento degli uomini contemporanei che oramai sono abituati a pescare “nello spento canale / Una sera d’inverno dietro il gasometro” (vv. 189-90), cercando la propria retata spirituale in un ambiente contaminato industrialmente.
Invece di assicurare una rinascita, l’acqua garantisce solamente una morte perniciosa e allarmante: “Temi la morte per acqua” (v. 55), lo spaventoso ammonimento di un’ingannevole indovina che ha soppiantato le profezie bibliche, avverte gli illusi credenti circa i pericoli che l’elemento naturale potrebbe dispensare, rivelati nella (s)fortunata carta, quella del “marinaio fenicio annegato” (v. 47), al quale la “corrente sottomarina” (v. 315) ha preparato un sepolcro. Ciononostante, se il mare (e, per analogia, l’acqua) costituisce il ναυηγοῦ τάφος, “la tomba di un naufrago”, il fuoco (e, mutatis mutandis, la terra) rappresenta la promettente speranza di salvezza, dal momento che il suo deserto, ambiente roccioso che paradossalmente è in grado di permettere la mistica Eucaristia e la purificazione biblica, si trova lontano dalla vita illusionistica e profana.
I messaggi di una potenziale catarsi per gli individui corrotti de La Terra Desolata sono, appunto, affidati alle fiamme ardenti di Buddha e al perentorio Tuono delle Upanishad che, in un tempo disperato di angoscia e aridità, quando l’intera natura avidamente “attendeva la pioggia” (v. 396), parla propiziamente, accompagnato da una favorevole precipitazione, nonostante la sua attualizzazione si verifichi “in lontananza, sul Himavant” (v. 397), all’interno di un ecosistema che possa essere al riparo dalla decadenza urbana. Ma, mentre il momento spirituale di dialogo tra gli uomini e Dio, tra la terra e i Cieli, sembra presagire un nuovo inizio, i desolati continuano a vivere in uno spazio liminale, seduti “sulla riva / a pescare” (vv. 423-24), in attesa di essere purificati dai loro peccati nel “foco” (v. 427) purgatoriale che, però, ha abbandonato “l’arida pianura dietro” (v. 424) di loro. La speranza di una potenziale trasformazione dei soggetti, che, “uti chelidon” (“come la rondine”, v. 428), potrebbero rigenerarsi nella primavera di un aprile non crudele, li obbliga tuttavia a “mettere ordine nelle [loro] terre”, anche quando il loro macrocosmo storico “sta cadendo giù” (v. 426): come “la tour abolie” (“la torre abolita”, v. 429), tutta la tradizione invero sta crollando, e gli uomini possono definitivamente prendere atto che la loro esperienza è unicamente “un mucchio di immagini frante” (v. 22), un cumulo di frammenti su cui essi possono a malapena reggersi per ‘puntellare’ le rovine incombenti.
Ecco, quindi, l’Unreal City di Eliot, che accoglie in modo eccezionale il complesso di simulacri e verità contingenti risultanti dalle apparenze virtuali dell’esperienza metropolitana, ove lussuria e desiderio costituiscono l’inevitabile punto di partenza per un ciclo mitico di decadenza. Contemplando sia gli effetti devastanti della prima guerra mondiale sui corpi e sulle menti degli individui, sia il paesaggio soffocante in cui essi risiedono, La Terra Desolata dispiega i danni psicologici di uomini fragili la cui insania spesso si estende a potenziali traumi fisici, che espongono la sofferenza di vittime inconsce la cui miseria non può essere alleviata. In quale luogo, dunque, può essere scoperta o, laddove possibile, ritrovata la vita?
La desertificazione fisica e spirituale evocata e reiterata dal poema, dal titolo iniziale al verso finale, implica logicamente l’inevitabile attesa di un momento salvifico di fertilità, che possa eventualmente consentire l’evasione dai sintomi dannosi del malessere moderno. La dolorosa ricerca di un segno di redenzione e di fecondità che questa terra desolata brama, assetata di quella “pioggia di primavera” (v. 4) che il crudele aprile tarda a concedere, in una Londra devastata, brulicante di vizi umani e di naturale putrescenza, chiaramente non può essere risolta nel mondo moderno decaduto, troppo radicato nella sua dottrina eretica e accidiosa. La ricerca deve quindi discostarsi dalla terra mondana e muoversi verso un regno alternativo, un ambiente irreale in cui l’attuale stato di degenerazione, ostentante egoismo e lussuria, possa essere annientato, dove tutti i frammenti possano ricomporsi per recuperare l’integrità perduta, dove “ci si sent[a] liberi” (v. 17) dai tormenti del mondo terreno.
La risoluzione ideale per far rivivere i pozzi prosciugati del cristianesimo, e dunque della civiltà, occidentale è perciò assegnata all’incantatorio “Shantih” (v. 433) che solennemente conclude il poema: “La pace che supera la comprensione”, la chiusura formale in sanscrito della preghiera delle Upanishad. Nell’arduo tentativo di conciliare l’ineffabile divario dell’interrelazione tra rovine frammentate, la triplice formula finisce per costituire l’unica risposta alla paralizzata condizione contemporanea: una benedizione, l’affermazione e il desiderio di pace, che pure rappresenta l’ultimo appello alla saggezza de La Terra Desolata, mettendo in atto un movimento trascendente che, dalla falsa primavera di un mondo illusorio, progredisce verso l’armonia che preannuncia la liberazione attraverso la rinascita. “La cosa corre da ‘Aprile…’ a ‘shantih’”, come dichiarò l’amico Pound, e la miracolosa rigenerazione degli uomini morti si fa strada attraverso un prossimo cammino purgatoriale, in cui i pellegrini abbandonano la civiltà e la sua storia in cerca di una nuova vita.