di Luca Dilillo
Tutto consiste nel separare Cervantes dal Chisciotte e nel far sì che la piaga dei cervantofili o cervantisti sia sostituita dalla sacra legione dei chisciottisti. Abbiamo bisogno di chisciottismo nella stessa misura in cui dobbiamo sbarazzarci del cervantismo
Miguel de Unamuno[1]
Lo scontro tra i due cavalieri erranti è veramente epico, almeno quant’è secolare: il campo sabbioso delimitato da spalti di legno giace sotto un sole cocente; il paesaggio intorno è desolato e giallognolo; regna un silenzio vibrante; i contendenti si lanciano l’uno contro l’altro, lance in resta, visiere abbassate, mandando al galoppo i loro maestosi destrieri bardati; ma ecco che dopo il contatto, la tenzone subito si rinnova. Ancora e ancora i due cavalieri si affrontano, ora prevale l’uno, ora l’altro. I duellanti, avversari di mille giostre mai risolutive, si somigliano da lontano: due ombre allampanate, non più giovanissime, strette in vecchie e ammaccate armature, in groppa a ronzini scheletrici e fiacchi. Più da vicino affiorano le differenze: il primo sembra venuto fuori letteralmente da un libro di mirabolanti avventure: ha l’aria spavalda, trasognata, ebbra di furore eroico; il suo sguardo è proteso all’orizzonte, vede già fantastici avversari, mostri e draghi sputafuoco pronti ad affrontarlo; la sua mente è tragicamente volta allo scacco e alla sconfitta, vive tutta intera nel regno dell’Ideale. Il secondo, invece, pur quasi identico nell’aspetto esteriore, è chiaramente un uomo diverso: i suoi occhi sono spenti e freddi, duri e rassegnati, non hanno nulla della luce del rivale; lo sguardo è profondamente triste. Ciascuno dei due cavalieri ha al proprio seguito, sugli spalti, una schiera di sostenitori molto agguerriti. Il Cavaliere Con la Luce negli Occhi – lo chiameremo così – è accompagnato da poeti, artisti e scrittori in gran numero: uomini di ingegno e fantasia, ma anche di facili entusiasmi; l’altro, a cui ben s’attaglierà il nome di Cavaliere della Triste Rassegnazione, ha alla sua corte uomini di intelletto altrettanto acuto, ma di un genere ben diverso: sono filologi, eruditi, storici della letteratura, pieni di lucida acribia, benché alle volte un po’ troppo pedanti. I fantasiosi contro gli scienziati, gli uomini dell’Ideale contro quelli del Fatto: una sfida che nel corso della storia ha assunto le forme più diverse, rinnovandosi continuamente, proprio come lo scontro che stiamo descrivendo: il quale altro non è se non una di queste innumerevoli forme.
Ma se pensiamo alla guerra delle interpretazioni, all’eterna lotta tra i romantici del Chisciotte e i realisti di Cervantes, tra chisciottisti infiammati e cervantisti incalliti, proprio considerando quest’opera mirabile ci viene in mente che ancora un terzo schieramento potrebbe occupare il campo di questa fantasmagorica giostra cavalleresca: e sarebbe il gruppo degli spettatori disincantati, la schiera dei sornioni osservatori con il riso sotto i baffi, equidistanti da entrambi i contendenti e consapevoli della vanità di una tale baraonda; tra costoro forse figurerebbe lo stesso Cervantes, il vero – se è lecito il termine – autore del Chisciotte, scritto proprio per burlarsi con ironico distacco di assurde e pompose disfide cavalleresche. A noi certo piacerebbe metterci tra questi; ma, per non apparire presuntuosi, proveremo a motivare il nostro scettico pilatismo, che non ci fa aderire né ai partigiani dell’hidalgo tragicamente incompreso, né a quelli del tragicomico personaggio da burla. Non ci interessa se e quale delle due parti sia la più veritiera, perché è proprio da questa pretesa di ‘verità dei fatti’ che vogliamo allontanarci. Conosciamo bene i limiti dell’interpretazione libera del Chisciotte, il fascino romantico dell’eroe in lotta contro una realtà povera e priva di valore che tanto ha infiammato autori come Victor Hugo e Miguel de Unamuno[2]; ma allo stesso modo sappiamo quanto possano essere limitanti e, francamente, davvero poco interessanti gli eccessi filologici sul tema della ‘stretta aderenza al testo così come concepito dall’autore’… Non per questo ci butteremo a capofitto tra le braccia dei fans del chisciottismo più ingenioso. C’è da vedere se sapremo essere all’altezza del genio di Cervantes, sfuggendo alla trappola del polarismo polemico: anche noi, così, accettiamo il guanto della sfida!
Come, dunque impostare un’interpretazione che non sia un’interpretazione? Una lettura che non spinga a schierarsi, a sovrascrivere il testo del Chisciotte o a restare ancorati al contesto e alla visione di Cervantes? Alla domanda sul perché non limitarsi a prender per buona la prospettiva di realistica restituzione delle originarie intenzioni dell’autore abbiamo già risposto: non possiamo più assumere una posizione oramai compromessa per esser divenuta pars in lotta con un’altra; e certo non possiamo accettare senza discutere lo sguardo di uno scrittore il cui personaggio principale è, fin dalla sua stessa creazione, tanto debordante gli argini di semplicistiche classificazioni: non gli renderebbe affatto merito! Allora, quale via intraprendere? In casi come questi conviene assumere la prima persona – e con essa la responsabilità di ciò che si dice – per portare il discorso sul piano più adeguato possibile ad affrontarlo: quello dell’emotività personale. Pertanto, vi dirò quello che secondo me è il modo migliore per allontanarsi da astratte interpretazioni, una via che un critico accademico probabilmente non vi consiglierebbe mai: lasciarsi guidare dalle prime impressioni. Potrei definirla pascolianamente la ‘via del fanciullino’, quella interiore guida infantile che, attraverso emozioni appena elaborate e stimoli inconsci pressoché animaleschi, apre il nostro mondo interiore alla ricezione dei contenuti esterni, siano essi rudimentali come percezioni ambientali o estremamente complessi come un’opera letteraria: il meccanismo alla base è sempre lo stesso, per quanto ciò possa sembrare controintuitivo al nostro plurisoppalcato cervello da uomini adulti e civilizzati. Sarà dunque cercando di eludere le invadenti sovrastrutture della mia mente che adesso proverò a descrivervi cos’ho provato personalmente leggendo il Don Chisciotte.
Per prima cosa, una sensazione di piacevolezza, ben difficile da descrivere a parole – forse per questo perfettamente adeguata alla mia analisi. Uno stato emotivo che potrei esprimere con tre voci, di cui tutti facciamo esperienza: leggerezza, divertimento, gioia. Non a caso tre emozioni tipiche dell’infanzia. Tre emozioni che indicano ugualmente benessere ma di cui forse l’aggettivo ‘leggero’ è la migliore descrizione: quella sensazione di sospensione, di vacuità positiva, come di un palloncino pieno d’aria che si eleva verso il cielo, dondolando dolcemente nella brezza, senza volontà e senza resistenze. Un abbandono docile che in qualche modo ricorda l’adesione ai fata del pensiero stoico – certo, a ben altri livelli di elaborazione concettuale. Ecco, il Don Chisciotte dal mio punto di vista è prima di tutto questo: un dolce abbandonarsi al piacere della lettura di cose inconsistenti, prive di impatto sulla realtà materiale, come sostiene Ludwig Auerbach a proposito delle avventure dell’hidalgomancego[3], ma non per questo insulse, tutt’altro: è proprio l’ariosità delle vicende di Don Chisciotte, il loro essere forme cavallerescamente elaborate di un contenuto d’aria, che riesce a donare a chi ne fruisce una piacevolezza estremamente bella. Le avventure di Don Chisciotte sono per il nostro spirito come palloncini colorati, anzi, sono effettivamente dei palloncini. La nostra mente si solleva, attaccata a questo grappolo di palloncini che sono le gesta caotiche e destrutturate di Don Chisciotte e Sancho Panza, esattamente come la casetta del signor Fredricksen in Up, l’incantevole film d’animazione Pixar.
Un’aerea leggerezza, fonte di gioia e delizia. Non solo questo la lettura del Don Chisciotte mi ha procurato: vorrei soffermarmi su altre due emozioni, se così vogliamo dire, infantili. La prima è quel sentimento di eccitazione che è più del semplice interesse, quasi un entusiasmo venato di curiosità. Una sensazione che personalmente mi dà un grande piacere, oltre ad essermi particolarmente cara, forse perché mi rimanda con la mente alla prima volta che lessi l’opera alla quale sono più affezionato: Il Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien. Come non apprezzare quel vivo piacere di un viaggio verso l’ignoto, pieno di insidie ed eventi inattesi, che magicamente spezza la monotona routine dell’esistenza a cui siamo abituati! Don Chisciotte è anche questo: un puro racconto d’avventura, fantastico e avvincente. Le mille peripezie dei protagonisti riescono perfettamente a farci appassionare proprio perché trovano il loro scopo in sé stesse; non ci sono morali né significati nascosti che tengano: il povero hidalgo impazzito e il suo fedele scudiero zoticone vivono dentro un mondo totalmente fantastico, le cui regole sono fabbricate dalla mente folle del cavaliere errante. Questo mondo vive di vita propria. Tutto è come un gioco, e ancora una volta ci torna utile quel che dice Auerbach: le azioni di Don Chisciotte e di Sancho Panza non hanno alcun impatto sulla realtà esterna, ma solo su quella allucinata e meravigliosa creata dalla fantasia di Cervantes, filtrata attraverso la pazzia del suo protagonista. La follia è gioco, il gioco è follia: una stravagante verità che solo la via del fanciullino riesce a illuminare. Da questo punto di vista, l’opera di Cervantes, se certamente si presta ad arricchirsi di innumerevoli più o meno profondi significati, può altrettanto bene esser goduta di per sé stessa: come una folle e meravigliosa scoordinata serie di mirabolanti e assurde avventure.
L’ultima emozione su cui mi piacerebbe sostare – ma ce ne sarebbero molte altre e certo ognuno avrà le sue – si discosta un po’ dalle altre due: è quel leggero sentimento di tristezza, quasi di pena, che non si può non provare in certi momenti verso il simpatico ma sfortunatissimo protagonista. Esattamente lo stesso tipo di tristezza che Pirandello associa al suo concetto di Umorismo. Nulla di tragico, dunque, neanche lontanamente. E ha detto bene senza alcun dubbio chi ha parlato del Chisciotte come di un’opera tragicomica[4]; se con questa categoria si intende, ponendosi a uguale distanza dalla pura commedia e dalla pura tragedia, cercare di descrivere quella sensazione di ridicolaggine che suscita divertimento, talvolta anche risate, ma miste a un velo d’amarezza e vicinanza alle disgrazie vissute da quello che non a caso è chiamato il Cavaliere dalla Trista figura. Da questo punto di vista, Don Chisciotte rientra perfettamente nella definizione di tragicomico: soprattutto nel secondo libro delle sue avventure, quando i personaggi esterni con i quali entra in relazione cominciano apertamente a prenderlo in giro sfruttando la sua follia e quando le situazioni avventurose prendono ad esser determinate dall’imbroglio[5] e non dal caso; e finanche il fedele scudiero Sancho Panza arriva a ingannare lo sventurato cavaliere, rendendosi conto del suo stato mentale alienato[6]. Ma il culmine della tristezza, almeno per quanto mi riguarda, si tocca avvicinandosi al finale, quando il povero Don Chisciotte, dopo gli ultimi fallimenti a Barcellona, deve tornare a casa per ritirarsi dalla sua missione di cavaliere errante: è stato infatti battuto in duello da un cavaliere misterioso[7] che gli ha fatto giurare, in caso di sconfitta, di rinunciare alla cavalleria e tornarsene a casa. Vedere Don Chisciotte così triste, privo della sua armatura e sfiduciato, senza più speranza di rivedere la sua amata Dulcinea[8], fa davvero tristezza: è come se qualcuno avesse rotto il giocattolo a un bimbo felice, che un attimo prima saltellava gioioso e adesso se ne sta in un angolino, a testa bassa, scuro in volto e sull’orlo delle lacrime. Don Chisciotte in fondo è solo un bambino che sta giocando; un bambino di cui gli adulti si fanno burla, battendolo al suo stesso gioco e infine levandoglielo dalle mani. La cosa ancor più triste è che a differenza del fanciullo, il folle non può godere di alcuna comprensione ed è fatalmente destinato allo scacco: il suo gioco non potrà mai finire bene. Questa considerazione – sia detto en passant – certo non giustifica, ma almeno supporta la visione del Don Chisciotte tragico.
Leggerezza, gioia, divertimento, eccitazione, curiosità, tristezza. Emozioni giocose, bambinesche, per sfuggire alle maglie dell’ombrosa interpretazione. Siamo partiti da un’immagine. L’immagine di uno scontro, epico quanto futile. Abbiamo voluto distaccarci da un prendere posizione in favore di una parte o dell’altra contro l’eccesso di interpretazione che allontana spontaneità e autenticità. Un pericolo che si presenta soprattutto nel caso dei grandi capolavori della letteratura, del cinema e dell’arte in genere, capolavori che dobbiamo necessariamente interpretare quasi fossero testi sacri e noi solerti teologi. Noi, fini critici di ogni possibile prodotto della cultura e dell’intrattenimento, non siamo poi così diversi dal Chisciotte eroico, dal tragico difensore dell’Irreale: strenui lottatori al servizio della Sacra Interpretazione, gravi sacerdoti di quello che è solo un altro gioco fantastico, preso troppo sul serio. Nel caso del Don Chisciotte poi, la cosa ha assunto dimensioni pressoché inquietanti: le interpretazioni dell’opera di Cervantes non si contano nemmeno. Ecco allora che una prospettiva più spensierata, leggera, infantile – nell’accezione più positiva del termine – può davvero essere una boccata d’aria fresca contro una psicanalisi fin troppo invasiva dell’hidalgo e del suo creatore. Proviamo qualche volta ad accogliere un testo, un’immagine, una serie di fotogrammi, per quello che sono, specialmente per quello che sono per noi: cosa proviamo durante la lettura, durante la visione, al livello più elementare del nostro essere? Cosa prova il fanciullino che scalpita in noi? Questo certo non significa regredire ad uno stato infantile, ma ritrovare il contatto con le nostre emozioni più profonde, che sono sempre anche le meno strutturate. Di ritrovare il contatto con la percezione nella sua omeostatica essenzialità, con il nostro puro, immediato, animale esistere.
Un’ultima riflessione: abbiamo combattuto per tutto il tempo contro l’interpretazione, in particolare contro la foga di interpretare il Chisciotte; c’è un’inquietante similitudine tra questa nostra battaglia e quella del cavaliere errante contro i mulini a vento. Abbiamo intrapreso una battaglia vana: non è stata in fondo la nostra un’approssimativa e abbozzata forma di interpretazione, ma pur sempre un’interpretazione? Non siamo noi in fondo essenzialmente degli animales interpretantes? E non è lo stesso tentativo di descrivere la nostra emotività biologica attraverso il linguaggio, un interpretare? Se davvero è così, siamo davanti ad uno scacco esistenziale. Uno scacco simile a quello del gioco di Don Chisciotte. Siamo personaggi tragicomici proprio come lui. El ingenioso hidalgo de la Mancia ha lottato strenuamente contro l’interpretazione, quella monotona e grave che noi tutti chiamiamo realtà; la sua pazzia è tale per l’intrinseca impossibilità di quell’impresa. Non si può non interpretare: quel mondo bambino e fantastico che per l’adulto solo poesia, arte e follia possono mettere in piedi, ebbene, quel mondo resta pur sempre un tentativo di dire linguisticamente l’origine inattingibile e del tutto alogica, del tutto organica del nostro essere. Un tentativo che è fallito in partenza. Esprimere in parole un terreno di puro istinto e azione immediata è fallimento, errore, per definizione. Ogni costruzione su questo terreno è intrinsecamente fragile, precaria, destinata a sfaldarsi; e, nonostante ciò, ci è inevitabile continuare a edificare e riedificare, vagando sperduti su una terra a noi sostanzialmente ignota, con nulla in mano se non la nostra volontà e i nostri desideri. In un certo senso, tutta la letteratura, e in special modo quella fantastica e per l’infanzia, fa i conti con questo essenziale fallire errando. Cervantes lo ha fronteggiato forse con più ingegno di molti altri, perché anzi, sono proprio l’erranza e il fallĕre, infine, i veri protagonisti dell’opera del grande spagnolo[9]. Abbiamo lanciato una sfida all’inizio, l’abbiamo persa miseramente. E allora il nostro tentativo di non interpretare caduto nell’inevitabilità dell’interpretare non finirà forse anch’esso nell’arena, nella forma di un Terzo Chisciotte, compagno dei due Cavalieri dell’Interpretazione che per sempre si combattono, ma ancor più sciagurato perché convinto della sua fasulla neutralità? Forse abbiamo sbagliato: Cervantes non può stare insieme a coloro che divertiti osservano la tenzone, sciocchi anche loro, pur sempre immersi nell’agone; no, sono Chisciotte anch’essi, stupidi e folli come tutti noi. Il genio del señor de Cervantes è ancor più grande. E ce lo immaginiamo, sorridente, profondamente consapevole di questo grande gioco che è la vita, seduto comodo a osservare i suoi tre Chisciotte che giostrano e si guardano giostrare.
Finché duri l’umanità e con essa le sue follie.
Foto di Luca Dilillo
[1] M. de Unamuno, Vita di Don Chisciotte e Sancio e altri scritti sul Chisciotte, a cura di A. Savignano, Bompiani, Milano 2017, p. 115.
[2] Il quale giunse a mettere lo straordinario personaggio di Don Chisciotte addirittura contro il suo insignificante autore, Miguel de Cervantes. Appunto da questa affascinante contrapposizione prende spunto l’avvio di queste nostre pagine.
[3] Si veda L. Auerbach, Dulcinea incantata, in M. de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Torino, Einaudi, 2015, a cura di V. Bodini (tutti i riferimenti testuali al Don Chisciotte rimandano a questa edizione).
[4] Si veda J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte e altri saggi, Napoli, Guida, 2016, a cura di G. Cacciatore e M. L. Mollo.
[5] Si veda la lunga parte ambientata a casa del Duca e della Duchessa, che architettano i peggiori raggiri per divertirsi alle spalle dell’hidalgo mancego (dal capitolo trentesimo al capitolo cinquantasettesimo del secondo libro).
[6] Si veda il capitolo decimo del secondo libro, sull’inganno di Sancho Panza al suo padrone, quando gli fa credere che una rude contadinotta sia la sua amata Dulcinea: la scena dell’incontro è un vero e proprio capolavoro di tragicommedia!
[7] Costui altri non è che il baccelliere Sansone Carrasco, amico e compaesano del Cavaliere dalla Trista figura, che cerca in tutti i modi di riportarlo a casa per farlo rinsavire, d’accordo con il curato del paese.
[8] Appena rientrato al suo paese, Don Chisciotte riceve – o crede di ricevere – l’infausto presagio che non rivedrà mai più la sua amata Dulcinea (capitolo settantatreesimo, libro secondo). In precedenza, come si è ricordato in nota, Sancho Panza aveva fatto credere al suo padrone che la povera Dulcinea fosse stata tramutata in contadina da malvagi incantatori (capitolo decimo, libro secondo). A questa perfida burla si era aggiunta quella del Duca e della Duchessa, che avevano ideato l’assurdo modo per liberare la donzella dall’incantesimo: il disgraziato Sancho avrebbe dovuto darsi tremila e trecento frustate di sua spontanea volontà (capitolo trentacinquesimo, libro secondo)!
[9] A proposito di questo, vorremmo far notare come nella lettura di Foucault – apparentemente opposta alla nostra – Don Chisciotte rappresenti proprio l’eroe del testo scritto, personaggio che vive solo tra i segni, segno grafico lui stesso, senza alcun rapporto con la realtà. Questo, lungi dal negare quanto abbiamo detto, lo rafforza: è appunto il simbolo più grande di questo esistenziale fallimento la volontà di evadere dall’interpretazione linguistica incarnandosi in figura totalmente letteraria, linguistica in sommo grado. Non ci si sorprenda comunque di letture tanto opposte: del resto, quello di poter essere molte cose diverse, tra loro perfino in contrasto, è il grande fascino del Chisciotte. Si veda M. Foucault, Le Parole e le Cose. Un’archeologia delle scienze umane, a cura di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 2020, pp. 61-65.