di Alberto Giovanni Biuso
1. Tracotanza
Il meccanismo che la modernità ha messo a regime sembra non tollerare fermate, sembra la locomotiva della storia lanciata verso l’abisso, della quale parla Benjamin capovolgendo la metafora marxiana. I Greci, lo ha perfettamente compreso Friedrich Nietzsche, erano sottoposti ogni giorno al desiderio del grande e per questo misero in guardia se stessi dalla ὕβϱις; i moderni sono al contrario talmente disincantati e assuefatti da avere bisogno di dosi sempre più massicce di enti, eventi e strutture. È da questa debolezza che nasce la rimozione di «tutti i dispositivi culturali che miravano all’inscrizione simbolica della mancanza in seno al soggetto»[1], la cancellazione della finitudine dall’orizzonte dell’essere, che pure ne ha bisogno come i corpi hanno bisogno della misura di ogni loro parte. Quando una di esse inizia a proliferare a danno delle altre, è la metastasi, è il morire. «In verità, gli Antichi raccomandavano la misura non per stupidità, masochismo, mancanza di immaginazione o di audacia, ma perché conoscevano la vita meglio di noi»[2].
Una delle più tenaci forme contemporanee della ὕβϱις, della dismisura/tracotanza, è il culto per la ‘vita’ a ogni costo, per il prolungamento quantitativo della sua durata, per il processo organico diventato totem al quale sacrificare ogni pietà, ogni buon senso, ogni fermarsi davanti all’enigma della fine.
Espressione di tale eccesso è la frenesia medica che rifiuta il limite del corpo e la sua costitutiva mortalità, attribuendo ogni decesso a una qualche negligenza e colpa. Il risultato è che si muore sempre più soli e sempre più disperati, che si vive male nella rimozione di questo destino e nella certezza che comunque verrà. «L’impresa medica, che si presenta come la punta avanzata e meno contestabile del progresso, è divenuta un fattore di decivilizzazione. Questa era, in ogni caso, la convinzione di Illich, il quale riteneva che i cittadini di un paese non avessero bisogno di una politica ‘sanitaria’ nazionale organizzata per loro, ma piuttosto di ‘fronteggiare con coraggio certe verità:
• non elimineremo mai la sofferenza;
• non guariremo mai tutte le malattie;
• moriremo’»[3].
2. Nemesi
Di tale accecamento sui limiti del vivere che sono intrinseci alla vita, Ivan Illich è stato appunto uno degli analisti più acuti. Leggere oggi Nemesi medica (uscito nel 1976) significa disvelare sotto una luce radente e profonda le radici, le manifestazioni e soprattutto il significato dell’epidemia Sars-Cov2. Che cos’è, infatti, un’epidemia?
Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica tramuta l’indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza. […] L’individuo è subordinato alle superiori ‘esigenze’ del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch’egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d’interventi curativi che sarebbero ancora più costosi[4].
Stanno qui, in una definizione risalente a 46 anni fa, alcune delle radici della vaccinazione obbligatoria in Italia; della discriminazione verso chi intende usufruire di un principio costituzionale e rifiuta di sottostare a Trattamenti Sanitari Obbligatori pur essendo sano; dell’arroganza di troppi medici e dei loro esemplari spettacolari; di una violentissima caccia alle streghe attuata dalle forze dell’ordine, dai Social Network, dalle televisioni.
È dunque accaduto che si sia invertito l’ordine naturale e logico del rapporto tra salute e malattia, è accaduto che si sia diventati tutti pazienti senza essere malati, è accaduto che «il cittadino, finché non si prova che è sano, si presume che sia malato. […] Risultato: una società morbosa che chiede una medicalizzazione universale, e un’istituzione medica che attesta una universale morbosità» (96-97); è accaduta un’aggressione del corpo collettivo verso se stesso, la metastasi di una parte tesa a consumare il tutto; è dilagata una malattia sociale, politica e civile. E questo nonostante il fatto che «studiando l’evoluzione della struttura della morbosità si ha la prova che durante l’ultimo secolo i medici hanno influito sulle epidemie in misura non maggiore di quanto influivano i preti nelle epoche precedenti. Le epidemie venivano e se ne andavano, esorcizzate da entrambi ma non impressionate né dagli uni né dagli altri. Esse non vengono modificate dai riti celebrati nelle cliniche mediche più di quanto lo fossero dai tradizionali scongiuri ai piedi degli altari» (20).
Ciò che sta accadendo da due anni a oggi, soprattutto in Italia, è dunque un esempio del concetto chiave dell’analisi di Illich: iatrogenesi.
La iatrogenesi è clinica quando il dolore, la malattia e la morte sono il frutto di cure mediche; è sociale quando le politiche sanitarie rafforzano un’organizzazione industriale che genera malessere; è culturale e simbolica quando un comportamento e una serie di illusioni promossi dalla medicina restringono l’autonomia vitale degli individui insidiando la loro capacità di crescere, di aver cura l’uno dell’altro e di invecchiare, o quando l’intervento medico mutila le possibilità personali di far fronte al dolore, all’invalidità, all’angoscia e alla morte (281).
La condizione malata frutto delle pratiche mediche – la iatrogenesi appunto – è una condizione complessa, come lo sono tutte le malattie. Una condizione che si oppone in modo palese alla salute, che è invece e «semplicemente una parola del linguaggio quotidiano la quale designa l’intensità con cui gli individui riescono a tener testa ai loro stati interni e alle condizioni ambientali. Nell’Homo sapiens, ‘sano’ è un aggettivo che qualifica azioni etiche e politiche. […] Il livello della salute non può che calare quando la sopravvivenza viene a dipendere oltre una certa misura dalla regolazione eteronoma (cioè diretta da altri) dell’omeostasi dell’organismo» (13-14).
L’attacco è stato e continua a essere furibondo nei confronti dell’immunità naturale, la quale è il fondamento e la condizione che consente alla nostra specie, come alle altre, di non essere spazzata via dalla miriade di agenti patogeni che abitano la Terra. Una medicina sana favorisce e rafforza l’immunità dei corpi, una medicina malata danneggia e indebolisce l’immunità naturale. Infatti, «fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall’immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione» (47), che – come si sa – hanno la tendenza a diventare i suoi incubi. Un esempio meno drammatico, ma altrettanto eloquente, della perdita dell’immunità naturale è data dalla rinuncia da parte di troppe madri all’allattamento naturale a vantaggio del latte in polvere, del biberon, di dispositivi che allontanano il bambino dalla protezione materna: «il danno che questa conversione provoca ai meccanismi immunitari naturali stimolati dal latte materno, e lo stress fisico ed emotivo causato dall’allattamento artificiale» sono troppo spesso misconosciuti e gravi (75).
All’altro capo del filo della vita rispetto alla nascita c’è la morte. Nei confronti del morire è in atto un vero e proprio – e ovviamente insensato – tentativo di distruzione. Che cosa significa un’espressione come questa? Essa indica anche la barbarie del lasciar morire in totale e disperata solitudine le persone ‘positive’, significa la negazione dell’unica consolazione che nel morire è la presenza di coloro che ci amano, le loro mani intrecciate alle nostre. Come se impedire ai padri di morire abbracciati ai figli e ai figli di stringere per un’ultima volta le mani dei padri non producesse un peso di angoscia, di colpa, di annichilimento della sacralità del vivere, e dunque di malattia, che nessuna civiltà conosciuta ha finora vissuto e subìto nei modi in cui accade nel XXI secolo.
«La medicalizzazione della società ha posto fine all’epoca della morte naturale. L’uomo occidentale ha perso il diritto di presiedere all’atto di morire. La salute, cioè il potere di reagire autonomamente, è stata espropriata fino all’ultimo respiro. La morte ha prevalso sul morire. La morte meccanica ha vinto e distrutto tutte le altre morti» (205) e va eliminando la capacità di riconoscere e accettare la fine, va cancellando «la fede nella propria capacità di morire, cioè nella forma estrema che la salute può assumere» (84). In realtà, l’analisi della morbosità, delle sue forme, dei suoi sviluppi «ha dimostrato, per più di un secolo, che è l’ambiente il primo determinante dello stato di salute generale di qualunque popolazione. […] Il ruolo decisivo nel determinare come si sentono gli adulti e in quale età tendono a morire è svolto dal cibo, dall’acqua e dall’aria, in correlazione col livello di uguaglianza sociopolitica e con i meccanismi culturali che permettono di mantenere stabile la popolazione» (21).
E invece la ὕβρις contemporanea ritiene che la vita e la morte stiano – sino a un certo punto ma spesso anche oltre – nelle mani del medico, della disponibilità o meno di macchine terapeutiche, di farmaci. Una dismisura, questa, che produce illusioni, angoscia, profitti. Per millenni e sino alla fine dell’Ottocento il medico, o chi per lui, è stato addestrato e abituato a riconoscere la facies hippocratica, i segni della morte imminente e inevitabile, in base ai quali deve subentrare il rispetto per la persona che nel ciclo naturale e infinito lascerà il posto ad altre forme e ad altre vite. Lasciare andare il morente, accompagnarlo con l’abbraccio dei suoi cari, è stato un preciso dovere, sostituito ora dall’accanimento insensato che fa morire gli umani in una solitudine meccanica e ambientale che è il più atroce esito della nemesi medica.
In generale, il dolore era visto e accolto come una dimensione inevitabile dell’esserci, il rapporto con il quale plasma la persona; persona che è quello che è anche per il modo in cui affronta tale dolore. Elemento di questa relazione è il tentativo di guarire da soli, attingendo alla propria forza, all’appetito e al digiuno, al confronto con chi ha subìto lo stesso male. E questo, semplicemente e saggiamente, perché «il dolore era concepito come il riflesso umano di un universo imperfetto, non come una semplice disfunzione meccanica di qualche suo sottosistema. Il significato del dolore era cosmico e mitico, e non individuale e tecnico» (155). Ecco il punto fondamentale: il trovare o non trovare un significato al proprio stare al mondo e quindi anche al dolore che lo stare al mondo necessariamente comporta.
Di tale saggezza è parte il lasciar andare gli umani nel modo meno doloroso possibile, attraverso l’eutanasia praticata per millenni e nelle più diverse civiltà. Ad esempio, la letteratura medica dei secoli XV e XVI «attribuisce al terapeuta due opposti uffici: aiutare la guarigione o, viceversa, favorire una morte facile e rapida. È suo compito riconoscere la facies hippocratica, cioè quei tratti tipici i quali indicano che il paziente è già preda della morte. Che aiuti a guarire o ad andarsene, il medico si sforza di collaborare strettamente con la natura» (190).
Tutto questo non significa che spesso e in ben precise situazioni la medicina contemporanea non possa alleviare sofferenze e condurre a guarigione. Tuttavia, e ancora una volta, tale risultato non dipende dagli sviluppi tecnici e terapeutici della medicina in sé ma da un contesto sociale e culturale più ampio:
Non c’è dubbio che la mortalità infantile si è ridotta. L’attesa di vita alla nascita, nei Paesi sviluppati, è aumentata da 35 anni nel XVIII secolo a 70 anni oggi. Ciò è dovuto principalmente alla riduzione della mortalità infantile in questi Paesi. […] L’alimentazione, l’antisepsi, i lavori pubblici e, soprattutto, un nuovo diffuso disvalore attribuito alla morte di un bambino, per quanto debole o malformato, sono fattori molto più significativi e rappresentano delle modificazioni che solo in via remota hanno attinenza con l’intervento medico (74).
La nemesi medica porta in realtà non un benessere e una salute più diffusi ma la rinuncia a molti diritti in cambio dell’illusione di non morire: «La salute si presenta sotto due aspetti: libertà e diritti. Innanzi tutto, la salute designa la sfera autonoma entro la quale una persona domina i propri stati biologici e le condizioni del suo ambiente immediato. In questo senso, la salute equivale al grado di libertà vissuta» (243). E, in questo processo, molti medici italiani confermano l’icastica e feroce affermazione da Illich enunciata nel 1976, vale a dire «la servile subordinazione della classe medica italiana nei confronti dell’industria farmaceutica» (p. 111).
Una subordinazione che è data certamente dalla secolare condizione di colonizzazione degli italiani, compresi i loro intellettuali e tecnici, e da un tessuto politico particolarmente corrotto ma che è anche e soprattutto espressione di un radicato e più generale rifiuto del πέρας, del limite, della consapevolezza della finitudine, che è – semplicemente – l’intelligenza del mondo.
I popoli primitivi hanno sempre riconosciuto la potenza della dimensione simbolica: hanno avvertito come una minaccia il tremendo, il terrificante, il misterioso. Questa dimensione poneva limiti non soltanto al potere del re e del mago, ma anche a quello dell’artigiano e del tecnico. Secondo Malinowski, solo la società industriale ha consentito che gli strumenti disponibili venissero utilizzati al massimo della loro efficienza; in tutte le altre società, una base fondamentale dell’etica era il riconoscimento di limiti sacri all’uso della spada e dell’aratro. Ora, dopo parecchie generazioni di tecnologia sfrenata, la finitezza della natura torna a turbare la nostra coscienza. […] La fabbricazione di un’ecoreligione sarebbe la caricatura dell’antica hubris (278).
Con questo accenno, solo un accenno ma quanto mai significativo, all’«ecoreligione» del nostro tempo, Illich conferma di essere stato un filosofo esatto e insieme profetico. E le analisi di Nemesi medica confermano tutta la loro fecondità e necessità terapeutica per il nostro presente.
3. Una conclusione politeistica
L’antropocentrismo biblico e monoteistico ha dato un contributo decisivo alla dismisura umana nel mondo, alla trasformazione soggettivistica della ragione oggettiva dei Greci, al dominio che Jahvé autorizza dell’uomo sul cosmo. Convinzione e atteggiamento ben diversi rispetto a quelli che Rey così efficacemente sintetizza nell’analizzare l’immagine di Atena skeptomene: «Lo sguardo meditativo della dea (definita skeptomene, ‘colei che medita’) è volto verso il cippo dell’agon cui presiede. Ella fissa il limite e al contempo vi si appoggia. Il limite non è soltanto il luogo dove qualcosa si arresta: è ciò che fa avvenire quella cosa, la rende presente»[5]. La nota a questo brano presenta non a caso un commento di Heidegger, vale a dire del filosofo anche gnostico che meglio ha attraversato la questione della tecnica.
Nei politeismi, in realtà, abitare il tempo significa farlo nei modi di un vivere iniziatico eppur misurato. Di questo soggiornare, la filosofia è la forma suprema. Non c’è stata caduta ma il limite fa da sempre parte dell’essere, non esiste colpa se non quella di esistere. Non ci sono peccati al di fuori dell’ignoranza «di chi eravamo, di che cosa siamo diventati, di dove eravamo, di dove siamo stati gettati, del luogo verso cui tendiamo, di che cosa possa liberarci, di che cosa sia davvero stato la nascita, di come possiamo riscattarla e finalmente rinascere»[6]. La conoscenza di tutto questo è la filosofia. Non una fede o un procedimento soltanto logico ma un sapere intuitivo della condizione umana e cosmica; non una teologia ma un’esperienza completa, sofferta e gloriosa dello stare al mondo; non un ripetere formule altrui ma il ripercorrere da sé il cammino di ogni ente dalla Pienezza al Limite. Perché il più pericoloso dei mali è la dismisura.
Foto di Alberto Giovanni Biuso: il Lago di Como visto da Lecco.
[1] O. Rey, Dismisura. La marcia infernale del progresso (Une question de taille, Paris 2014), trad. di G. Giaccio, Controcorrente, Napoli 2016, p. 44.
[2] Ivi, p. 222.
[3] Ivi, p. 52.
[4] I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute (Limits to medicine-Medical Nemesis: the expropriation of health, 1976), trad. di D. Barbone, Red!, Milano 2021, pp. 81-82. I numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro vengono indicati tra parentesi nel testo.
[5] O. Rey, Dismisura, cit., p. 102.
[6] Excerpta ex Theodoto, 78, in Aa. Vv., Testi gnostici in lingua greca e latina, a cura di M. Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1993, pp. 391-393.