di Federico Tinnirello
1. Introduzione: la novità dell’etica di Wittgenstein[1]*
È un’impresa difficile trovare un aggettivo che possa descrivere la posizione ricoperta da Ludwig Wittgenstein nella storia dell’etica filosofica; si potrebbe tentare di definirla inusuale, dal momento che Wittgenstein non considera l’etica come una disciplina filosofica che riflette sull’agire umano oppure che cerca di definire termini quali bene, male o giustizia. Per Wittgenstein, l’etica non è una disciplina che formula teorie su un oggetto specifico, ma è piuttosto un aspetto del sentire (fühlen) umano: infatti non è un caso che una delle proposizioni etiche più famose reciti «noi sentiamo che, anche nel caso in cui tutte le possibili domande scientifiche abbiano ricevuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora minimamente toccati» (T, 6.52)
L’etica sorge quando sentiamo che la spiegazione dominante del mondo – cioè la spiegazione scientifica – è insufficiente di fronte al senso di disarmo e di smarrimento che percepiamo nella nostra vita. Tutti noi, ad un certo punto, sentiamo che la vita ci appare problematica: nel dolore, nell’angoscia o nelle difficoltà, ed è da questa problematizzazione non scientifica della vita che sorge l’etica come spazio della riflessione sul sentire. In questa frattura fra la vita e la sua comprensione risiede l’inseparabilità della riflessione etica da quella filosofica[2], perché entrambe assumono la forma della «chiarificazione dei pensieri», nel senso che lo spazio dell’etica emerge come momento dell’attività filosofica per come Wittgenstein l’ha intesa lungo tutta la sua vita: cioè come terapia linguistica che apre ad un nuovo modo di vedere e di vivere il mondo. Dunque, l’etica e la filosofia hanno entrambi un aspetto prassico, ovvero ci portano ad una trasformazione personale, ad un cambio di rotta che conduce la nostra esistenza verso nuovi sentieri.
All’interno di questo piccolo saggio ripercorreremo la genesi del rapporto fra l’etica e il metodo filosofico, analizzando i Diari segreti[3]e i Quaderni 1914-1916 scritti sul fronte del Primo conflitto mondiale. Il nostro obiettivo sarà quello di sostenere che la riflessione etica – che Wittgenstein inizia intorno al 1914, in piena coincidenza con le riflessioni sulla logica e sull’essenza della proposizione – si articola, in un primo momento, su due piani differenti, per poi ricongiungersi in maniera unitaria nel Tractatus logico-philosophicus[4]. Il primo piano riguarda la difficoltà insita nel filosofare: in cui vediamo un Wittgenstein «[who] struggling with his thoughts»[5], al fine di poter avere «una visione globale» (DS, p. 57) sui problemi della logica, salvo poi accorgersi che «i problemi più ardui devono tutti risolversi dinanzi a noi» (DS, p. 96). Dunque, nei Diari inizia ad emergere, da un lato, l’idea che la filosofia sia «»un lavoro su sé stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose» (PD, pp. 43-44); dall’altro lato, che l’oggetto della filosofia non sono né teorie né dottrine.
Il secondo piano, invece, concerne la riflessione sul «senso (o il valore) del mondo e della vita»[6], che costituisce una definizione di ciò che Wittgenstein chiamava etica[7]. Queste riflessioni si trovano nella parte conclusiva dei Quaderni, nella quale Wittgenstein ritiene che lo scopo principale della vita etica sia «viv[ere] felicemente!» (Q, p. 220), e cioè perseguire una vita che sia quanto più possibile «in armonia con il mondo» (Q, p. 219).
2. Il metodo filosofico nei Diari segreti
I Diari segreti[8] sono un «insieme di annotazioni cifrate […] che contengono […] costanti e quasi quotidiani riferimenti da parte di Wittgenstein alla guerra e alla sua esperienza di soldato»[9]. Tuttavia, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, i Diari non contengono soltanto riflessioni private, ma anche informazioni rilevanti per capire «il Wittgenstein filosofo e il suo Tractatus»[10]. Per comprendere le annotazioni sul metodo filosofico contenute nei diari dobbiamo partire da un precedente scritto che sono le Note sulla logica (1913), nel quale Wittgenstein sostiene che «in filosofia non vi sono deduzioni; essa è puramente descrittiva. La parola “filosofia” deve sempre designare qualcosa sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali» (NL, p. 245). Stando a questa definizione, la filosofia ha il compito di descrivere la realtà senza seguire il metodo della scienza, cioè senza formulare tesi o teorie supportate da evidenze sperimentali. Questa distinzione fra filosofia e scienza è, come l’ha definita Perissinotto, uno dei “pensieri-guida” della riflessione del Tractatus, e anche della seconda fase del suo pensiero.
L’idea di fondo è che la filosofia non ha il compito di trovare delle soluzioni a dei problemi, poiché «la filosofia deve [soltanto] chiarire e delimitare i pensieri» (T, 4.112) al fine di poter riconoscere che «the solution consists in the trasformation of our way of thinking»[11]. Dunque, non ci sono problemi filosofici e neanche proposizioni filosofiche, ma la filosofia è intesa come «un lavoro su sé stessi» (PD, p. 43), nel quale è Wittgenstein stesso e, in questo caso, il Wittgenstein filosofo, ad essere impegnato in prima persona. I Diari segreti ci restituiscono una concezione della filosofia intrecciata con l’esperienza esistenziale di Wittgenstein e, nello specifico, con l’esperienza della Prima guerra mondiale. Dunque, filosofia e vita diventano inseparabili non soltanto nella riflessione concettuale, ma nell’esperienza quotidiana dello stare almondo. Difatti, le annotazioni di Wittgenstein non sono un puro resoconto di guerra, bensì una riflessione sugli aspetti etici ed esistenziali, che hanno influenzato, per l’appunto, la sua concezione della filosofia come «tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta» (RF, § 126).
Nei Diari segreti vi sono una serie di annotazioni che vanno in questa direzione, ad esempio, il 25 agosto del 1914, Wittgenstein scrive che «solo una cosa è necessaria: essere capaci di osservare tutto ciò che ti accade» (DS, p. 47). Questo passo ci dice due cose di grande importanza: da un lato, emerge un’assonanza con la prima proposizione del Tractatus, «il mondo è tutto ciò che accade» (T, 1), con la differenza che qui il mondo «compare […] in un contesto etico-esistenziale»[12]. Con ciò Wittgenstein fa riferimento alle difficoltà che incontriamo durante il nostro percorso di vita e la filosofia sembra assumere il compito di una consolazione, nella quale non bisogna «perder sé stessi!!! […] e lavorare [cioè fare filosofia] non per far passare il tempo, bensì con gioia [-] per vivere» (DS, p. 87). A questo proposito, la filosofia diventa anche un modo per «restare presso di sé» (DS, p. 48) o, come scrive in una lettera a Paul Engelmann, nell’essere «un po’ più degno» (LPE, p. 9). Dunque, la riflessione filosofica riguarda sempre «un nostro cambiamento personale»[13], ovvero una tensione etica che ci permette di «vedere il mondo nella giusta maniera [richtig]» (T, 6.54): nel senso che la filosofia cambia – eticamente – il nostro rapporto con il mondo, trasformandosi in «an attitude to the world and life, can penetrate any thought or talk»[14].
Dall’altro lato, viene fuori una considerazione più strettamente metodologica, in cui «[l’osservare] sarà sempre […] il tratto caratterizzante della filosofia e ciò che solamente le può consentire di non cadere nel dogmatismo»[15]. Dunque, se la filosofia non vuole cadere nel dogmatismo, cioè assumere «che la realtà debba essere come i nostri modelli»[16], allora bisogna sempre tenere presente che la realtà supera le nostre concettualizzazioni perché «tutto è lì in mostra, non c’è nulla […] da spiegare» (RF, § 126); anzi, il compito del filosofo dovrebbe essere quello di «non pensare, ma osserva[re]» (RF, § 66).
Oltre questo passo, Wittgenstein ci restituisce delle annotazioni che contengono altri riferimenti al metodo filosofico: per esempio, troviamo questa importante indicazione: «quando si sente che ci si sta impuntando su un problema, non si dovrebbe continuare a pensarci, altrimenti si rimane insabbiati. Piuttosto, occorrerebbe ricominciare a pensare da un’altra parte, dove ci si possa comodamente attestare» (DS, pp. 95-96). Questo passo prefigura il metodo che Wittgenstein impiegherà durante tutta la sua attività filosofica. Oltre ad osservare e descrivere la vita umana e il mondo, il filosofo deve anche guardare ciò che è osservato da più punti di vista, affinché ciò che si è pensato non diventi un dogma. Questo è confermato in un’annotazione del 1929, quando Wittgenstein afferma che
«il mio modo di filosofare mi è sempre stato e mi è tuttora nuovo, ed è per questo che devo così spesso ripetermi. Un’altra generazione, cui esso sarà entrato nel sangue, troverà noiose queste ripetizioni. Per me sono necessarie» (PD, p. 17).
Il metodo di Wittgenstein consta di ripetizioni, nelle quali è necessario «ritornar sempre a esaminare sotto nuovi profili, come non risolte, questioni che si ritengono risolte» (Q, p. 163), perché solo analizzando una questione o una domanda filosofica da più punti di vista possiamo vedere che quest’ultima – in realtà – si dissolve fra le nostre mani, nel senso che «lo scopo è di mostrare che, se prendiamo sul serio, fino in fondo, le nostre dottrine […] allora arriveremo a vedere che tali dottrine si dissolvono»[17]. La dissoluzione delle dottrine è, dunque, una conseguenza del fatto che un problema non può più essere considerato tale se visto da una prospettiva – come quella filosofica – secondo la quale ciò che è importante e già davanti a noi e non dobbiamo fare altro che descriverlo. Più esattamente, sbagliamo a pensare che nel «filosofare […] la difficoltà consista nel dover descrivere fenomeni difficili da afferrare» (RF, § 436).
Come si è cercato di mostrare, i Diari segreti contengo già, in maniera più o meno determinata, uno dei “pensieri-guida” della filosofia di Wittgenstein, ovvero che il compito della filosofia riguarda, da un lato, un cambiamento personale della nostra esperienza del mondo, e, dall’altro lato, la descrizione della vita così com’è, senza la mediazione di dottrine, poiché «se si desse una ‘soluzione’ dei problemi logici (filosofici), dovremmo tenere a mente che un tempo essi non erano affatto risolti (e anche allora si doveva pur vivere e pensare)» (PD, p. 21).
3. L’etica nei Quaderni 1914-1916
Come abbiamo già detto, l’etica nel primo Wittgenstein si dà su due piani: il primo è quello della riflessione sul metodo filosofico, su cosa significa fare filosofia, mentre il secondo concerne l’etica in senso stretto, e cioè su qual è la vita buona che ogni essere umano dovrebbe perseguire. Su quest’ultimo punto, nei Quaderni 1914-1916 troviamo delle riflessioni – poco sistematiche – che vanno nella direzione che l’unica vita buona sia quella felice.
In primo luogo, bisogna sottolineare che non possiamo trovare indicazioni su quale sia la vita buona nei fatti che accadono nel mondo, nel senso che «[there is not] criterion can be stated with reference to reality that explains what kind of life costitutes a happy or harmonius life on the basis of which such a life could be identifed»[18]. In questo passo, Kuusela vuole affermare che per Wittgenstein è impossibile fondare l’etica sulla base di ciò che accade nel mondo, dal momento che «ethical propositions are not concerned with anything in the world […] Unlike thoughts, ethics has no subject matter in the world»[19]. Le proposizioni dell’etica non sono proposizioni, poiché queste ultime non possono essere né vere né false, in quanto non sono «un’immagine di uno stato di cose» (Q, p. 137). Il fatto che non vi siano proposizioni dell’etica significa che lo spazio dell’etica non è esprimibile con il linguaggio, bensì «l’etica non tratta del mondo. L’etica deve essere una condizione del mondo» (Q, p. 222).
Dunque, fra la sfera dei valori e dell’agire che appartiene all’etica e la sfera dei fatti che appartiene al linguaggio e al mondo non c’è coappartenza; questo implica che non possiamo trovare nei fatti del mondo come dovremmo agire per raggiungere la felicità: «there is no ground for saying about anything in the world that it is as it ought or ought not to be, that it is good or bad»[20]. L’etica, dunque, non può essere fondata guardando al mondo, poiché essa compare come espressione della volontà del «soggetto metafisico» (T, 5.641).
È importante, a questo proposito, fare alcuni chiarimenti: per Wittgenstein la volontà è una condizione tipica del soggetto che rende possibile un’esperienza etica del mondo. Infatti, nei Quaderni è possibile leggere che «se la volontà non fosse, non vi sarebbe nemmeno quel centro del mondo che chiamiamo l’Io e che è il portatore dell’etica» (Q, p. 225). Dunque, la volontà deve essere considerata come «un esercizio attivo della mente»[21] che rende possibile l’accesso alla vita buona e ad un’esperienza del mondo alla luce dei valori. Questo chiarimento della nozione di volontà conduce ad interpretare correttamente questo concetto senza fraintendimenti. Ad esempio, nei Diari segreti Wittgenstein, a seguito del senso di isolamento provato al fronte, è tentato di annullare la sua volontà, al fine di raggiungere una passività completa nei confronti del mondo: «non ho ancora trovato una via d’uscita. Non mi sono ancora deciso per una passività completa. E probabilmente questo è un male, poiché sono impotente» (DS, p. 49).
Tuttavia, questa concezione della volontà, già all’interno dei Quaderni, non verrà perseguita da Wittgenstein, perché l’annullamento della volontà non conduce ad un’armonia con il mondo, ma ad uno scontro sempre più accesso con ciò che è esterno a noi stessi. L’esercizio corretto della volontà ci porta, da un lato, all’agire etico e, dall’altro lato, ad accettare che «il mondo è indipendente dalla mia volontà» (T, 6.373). L’esercizio della volontà, dunque, appartiene soltanto al soggetto che la esercita per trascendere i fatti del mondo e vivere un’esperienza di tipo valoriale. Difatti, scrive Wittgenstein, «il soggetto che pensa è certo vana illusione. Ma il soggetto che vuole c’è» (Q, p. 225).
Riassumendo, possiamo dire che l’etica non può essere fondata sulla base dei fatti presenti nel mondo – posizione usualmente chiamata naturalismo[22] – pertanto l’etica entra nello spazio antropologico attraverso la volontà, la quale è sempre esercitata dal soggetto.
A questo punto, possiamo dire quale dovrebbe essere, secondo Wittgenstein, la vita buona che ogni uomo dovrebbe perseguire. La risposta, di per sé, è molto semplice: «per vivere felice devo essere in armonia con il mondo. E questo vuol dire essere felici» (Q, p. 219). Dunque, la vita buona è la vita felice, e cioè quella vita in cui si vive – o si cerca di vivere – in armonia con il mondo, con tutto ciò che accade. La possibilità di vivere una vita felice è una conseguenza dell’esercizio della volontà: «il soggetto che vuole dovrebbe dunque essere felice o infelice, e felicità e infelicità non possono appartenere al mondo» (Q, pp. 224-225). La felicità e l’infelicità sono, in fin dei conti, quell’esperienza del mondo che caratterizza l’etica, provocando una differenza sulla modalità di stare al mondo del felice e dell’infelice: «il mondo del felice è un altro che quello dell’infelice» (Q, p. 223).
La persona felice – colui che segue la vita buona – vede il mondo in maniera diversa da chi è infelice: la sua esperienza del mondo è radicalmente diversa e questo ha un’influenza su come noi viviamo i fatti che accadono nel mondo. Il felice sarà colui che vivrà in armonia con il mondo, ovvero colui che «accept the outcomes of one’s actions, whatever they are»[23]. L’obiettivo della vita buona è la felicità, ma come giustifichiamo questa prospettiva?
«Sempre torno a pensare: la vita felice è buona; la infelice, cattiva. E se adesso mi domando: ma perché è proprio felicemente che dovrei vivere?, questa si rivela interrogazione retorica: appare che la vita felice si giustifica da sé, che essa è l’unica vita giusta (Q, p. 223)».
Non ci sono giustificazioni o ragionamenti che possono condurci verso il fatto che la vita buona sia la vita felice, al contrario la vita felice si giustifica da sé, dal fatto che non possiamo vivere diversamente che in armonia con il mondo. Su questo punto commenta Perissinotto:
«dire che la vita felice si giustifica da sé non sembra, infatti, dirci nulla sull’etica, così come sembra lasciare del tutto senza risposta la più classica delle domande etiche ‘Che cosa devo…?’. Forse la soluzione consiste proprio nel riconoscere che non c’è nulla da dire o da descrivere, ossia, come abbiamo già visto, che non vi può essere nessun carattere ‘oggettivo’ o ‘fisico’ che distingua una vita felice (buona o giusta) da una vita infelice (cattiva o ingiusta) e che, proprio per questo, è eticamente indifferente che (ci) accada questo piuttosto che quest’altro».[24]
Proprio perché ciò che ci accade non può avere alcuna influenza su ciò che è etico, questo non può essere giustificato tramite i fatti, ma neanche tramite il linguaggio, nel senso che la vita buona si mostra nella vita felice, nel fatto che vivere in armonia con il mondo è la raffigurazione della vita buona. Questa prospettiva etica è corroborata da due passi contenuti sempre nei Quaderni: «che è il carattere obiettivo della vita felice, armonica? Anche qui è chiaro che non può esservi un tale carattere, che si possa descrivere» (Q, p. 224). Non si può, dunque, descrivere linguisticamente cosa sia la vita felice, ma piuttosto essa si mostra nelle nostre azioni e nel fatto che il mondo del felice è completamente diverso da colui che è infelice.
In conclusione, possiamo dire che il legame fra l’etica e il metodo filosofico nei primi scritti di Wittgenstein è fondato sulla distinzione – centrale nel Tractatus logico-philosophicus – fra dire e mostrare, che Wittgenstein ha definito in una lettera a Bertrand Russell, come la «questione cardine della filosofia» (L, 19/08/1919). In sintesi, possiamo affermare che il dire è lo spazio dei fatti, degli stati di cose che accadono nel mondo, i quali possono essere detti e raffigurati tramite le proposizioni, che sono per l’appunto, immagini dei fatti. Lo spazio del dire è quello delle scienze sperimentali, che misurano e quantificano basandosi su ciò che è esprimibile tramite il linguaggio. L’etica, filosofia o la religione appartengono, invece, allo spazio del mostrare, il quale riguarda ciò che non può essere espresso tramite le proposizioni ma che «rende possibile che qualcosa venga detto (pensato; raffigurato)»[25]. Nel Tractatus, infatti, Wittgenstein scrive che «l’etica è trascendentale» (T, 6.421), perché nel sentire etico del soggetto si mostra la nostra esperienza personale del mondo, nel senso che «ethics […] explain the constituition of the world as something valuable or meaningful, i.e. to clarify how it is possible for a subject to experience it as such»[26].
4. Conclusione: etica e immagine scientifica del mondo
La distinzione fra dire e mostrare ci ha condotto all’essenza della riflessione wittgensteiniana sull’etica e la filosofia. Lo spazio del mostrare è quello dell’esistenza concreta, del modo con cui sentiamo il nostro stare al mondo, il quale non può semplicemente limitarsi alla presenza fisica degli oggetti o stati di cose che ci circondano. Un esempio chiaro che può aiutarci a comprendere questo aspetto centrale della filosofia di Wittgenstein è la descrizione di Venezia sentita da Gustav Aschenbach, protagonista del noto romanzo di Thomas Mann:
«cielo e mare rimasero foschi e plumbei, ogni tanto cadeva una pioggerellina nebbiosa, ed egli si rassegnò a raggiungere per via d’acqua una Venezia diversa da quella che aveva trovato giungendovi da terra […] ripeteva fra sé frammenti di quel canto misurato che allora era sorto da devozione, felicità e mestizia e aveva preso forma, commosso e senza fatica, dalle sensazioni».[27]
Arrivare a Venezia dal mare e non dalla terraferma genera in Aschenbach un turbinio di sensazioni che non aveva provato precedentemente, conducendolo a vedere la città sotto un’altra prospettiva. Pertanto, l’attenzione che Wittgenstein dedica all’etica e alla filosofia come chiarificazione dei pensieri va in una direzione precisa: il rapporto fra l’uomo e il mondo non è determinato soltanto dalla conoscenza scientifica; per questo Wittgenstein insiste nel separare filosofia e scienza e nel distinguerle sia a livello metodologico che epistemologico. Questa insistenza ci conduce verso il giudizio di Wittgenstein della scienza e della modernità, un problema delicato sul quale si accennerà soltanto in maniera provvisoria.
Secondo Wittgenstein la modernità filosofica e scientifica ha dato vita alla «moderna concezione del mondo» (T, 6.371), la quale pretende di spiegare la realtà nella sua totalità attraverso le leggi scientifiche; in questo modo la scienza diviene depositaria di una visione riduzionista della realtà e del linguaggio, che diventa lo strumento con cui raffiguriamo gli stati di cose fisici presenti nel mondo. A questo proposito, l’obiettivo della riflessione di Wittgenstein – e del Tractatus in particolare –è sì di affermare che il linguaggio raffigura i fatti, cioè le «proposizioni della scienza naturale» (T, 6.53), ma che non tutto l’uso del nostro linguaggio obbedisce a questo proposito. Da qui la necessità che la filosofia lavori sulla soggettività, sullo sfondo culturale e conoscitivo e sulle pratiche tramite le quali gli individui organizzano – linguisticamente – la realtà in cui vivono. Per questo, secondo Wittgenstein, non bisogna arrendersi al «disincanto del mondo» (Weber), ma bisogna lavorare su sé stessi e sulla potenzialità espressiva del linguaggio conservando una certa libertà di movimento e di pensiero. Pertanto, il compito del filosofo è quello di proporre un’alternativa alla forma[28] dell’immagine scientifica del mondo, e cioè il progresso[29]. La battaglia per la riappropriazione del linguaggio e della comprensione reciproca passa dal riconoscimento di «perdita di un contatto con il linguaggio, con il mondo e con sé stessi»[30], causato dal progresso e dalla moderna civiltà della tecnica.
Tuttavia, la soluzione non è il rifiuto del progresso o della scienza come insieme di conoscenze sul mondo, ma la creazione di uno spazio linguistico e antropologico che vada oltre il mero spazio dei fatti: in questo Wittgenstein ha avuto il merito di recuperare ed attuare un modo di fare filosofia che – ai suoi occhi – si stava sempre di più adeguando alla scienza, come nel neopositivismo logico o nella filosofia russelliana. È in questo quadro culturale che emerge sempre più la necessità dell’etica, quale tendenza «di avventarsi contro i limiti del linguaggio» (CE, p. 18) per cercare di comprendere «qualcosa sul significato ultimo della vita» (CE, p. 18). Per Wittgenstein, infatti, è proprio nella tendenza disperata e paradossale di rompere le maglie del linguaggio dei fatti che è possibile intravedere il coraggio e la profondità del lavoro filosofico, che ci permette di riappropriarci di espressioni linguistiche e culturali che credevamo perdute.
[1] All’interno del saggio verranno usate le seguenti abbreviazioni delle opere di Wittgenstein, di cui indichiamo anche le edizioni di riferimento:
NL: Note sulla logica [settembre 1913], in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914- 1916, a cura di A.G. Conte, Torino, Einaudi 2009, pp. 245-263.
DS: Diari segreti [1914-1916], a cura di L. Perissinotto, Meltemi editore, Milano 2021.
Q: Quaderni 1914-1916 [1914-1917], in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Torino, Einaudi 2009, pp. 129-239.
T: Tractatus logico-philosophicus [1918], a cura di L. Perissinotto e P. Frascolla, Feltrinelli, Milano, 2022.
LPE: Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi a Paul Engelmann [1916-1937], La Nuova Italia, Firenze, 1970.
CE: Conferenza sull’etica [1929], in Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1967, pp. 3-18.
RF: Ricerche filosofiche [1936-1949], a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2009.
PD: Pensieri diversi [1914-1951], a cura di G.H. Von Wright e M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2021.
L: Lettere 1911-1951, a cura di A. Bottini, Adelphi, Milano 2012.
[2] Wittgenstein, per l’appunto, insiste sul fatto che non può esistere una soluzione al problema della vita ma soltanto una sua chiarificazione, poiché vivere non dipende dal trovare una soluzione al modo della scienza. A questo proposito, nei Pensieri diversi afferma che «quando uno crede di aver trovato la soluzione del problema della vita e vorrebbe dire a se stesso: ora è tutto molto facile, costui, per confutare se stesso, dovrebbe solo ricordarsi che vi è stato un tempo in cui questa “soluzione” non era stata trovata; anche a quel tempo però si doveva poter vivere, e in rapporto a esso la soluzione trovata appare come un caso fortuito. Così succede a noi con la logica» (PD, p. 23)
[3] Per un’esposizione generale dei Diari segreti mi permetto di rimandare alla recensione che ho scritto per Il pensiero storico. Rivista internazionale di storia delle idee: https://ilpensierostorico.com/i-segreti-di-wittgenstein/
[4] “I Diari segreti contengono […] indicazioni esplicite sull’intento unitario che guiderà Wittgenstein nella composizione del Tractatus”. (Ivi, p. 28).
[5] N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein: a memoir, Clarendon Press, Oxford, 2001, p. 23.
[6] L. Perissinotto, Introduzione a Wittgenstein, Il Mulino, Bologna, 2018, p. 91
[7] Nella Conferenza sull’etica del 1929, Wittgenstein definisce l’etica come “la ricerca su ciò che ha valore; o su ciò che è realmente importante, o sul significato della vita, o su ciò che fa la vita meritevole di essere vissuta, o sul modo giusto di vivere” (CE, p. 7)
[8] È bene precisare che i Diari segreti e i Quaderni 1914-1916 appartengono allo stesso gruppo di manoscritti wittgensteiniani, che, stando alla classificazione di Von Wright, sono il 101, 102 e 103. Nello specifico, i passi pubblicati nei Diari segreti si trovavano nella pagina sinistra del taccuino scritti in codice cifrato, mentre i passi pubblicati nei Quaderni si trovano nelle pagine destre, non in codice.Tuttavia, le annotazioni cifrate che compongono i Diari segreti non sono state pubblicate subito ma solo successivamente, poiché l’allieva di Wittgenstein, Elizabeth Anscombe, che ha curato la prima edizione dei Quaderni nel 1961, riteneva che queste annotazioni fossero troppo private e non avessero valore «né scientifico né culturale».
[9] L. Perissinotto, “Un filosofo tra cannonate, patate e riflettori: i cosidetti Diari segreti di Wittgenstein”, in L. Wittgenstein, Diari segreti, Meltemi editore, Milano,2021, p. 12.
[10] Ibidem.
[11] O. Kuusela, “Wittgenstein, ethics and philosophical clarification”, in R. Agam-Segal e E. Dain, Wittgenstein moral thought, Routledge, New York, 2018, p. 36.
[12] L. Perissinotto, “Un filosofo tra cannonate, patate e riflettori: i cosidetti Diari segreti di Wittgenstein”, cit., 2021, p. 29.
[13] P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 39.
[14] C. Diamond, “Ethics, imagination and the method of Wittgenstein’s Tractatus”, in The New
Wittgenstein a cura di A. Cray e R. Read, London-New York, Routledge 2000, p. 153.
[15] L. Perissinotto, “Un filosofo tra cannonate, patate e riflettori: i cosidetti Diari segreti di Wittgenstein”, cit., 2021, p. 31.
[16] L. Perissinotto, “Wittgenstein filosofo del linguaggio”, in F. Piazza e F. Cimatti (a cura di), Filosofie del linguaggio. Storie, autori, concetti, Carocci, Roma 2015, p. 249.
[17] P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, cit., 1998, p. 39.
[18] O. Kuusela, “Wittgenstein, ethics and philosophical clarification”, cit., p. 45.
[19] Ivi, p. 43.
[20] Ivi, p. 44.
[21] P. Donatelli, Wittgenstein e l’etica, cit., 1998, p. 114.
[22] Donatelli definisce il naturalismo etico in termini descrittivisti, cioè “gli enunciati etici equivalgono a descrizioni di fatti e sono comprensibili interamente solo se comprendiamo le condizioni di verità di tali enunciati” (Ibidem).
[23] O. Kuusela, “Wittgenstein, ethics and philosophical clarification”, cit., p. 49.
[24] L. Perissinotto, “Un filosofo tra cannonate, patate e riflettori: i cosidetti Diari segreti di Wittgenstein”, cit., pp. 23-24.
[25] L. Perissinotto, Guida a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2019, p. 58.
[26] O. Kuusela, “Wittgenstein, ethics and philosophical clarification”, cit., p. 44.
[27] T. Mann, La morte a Venezia, Newton Compton, Roma 1992, p. 41.
[28] “Essere compreso dal tipico uomo di scienza occidentale non mi importa affatto, perché costui non capisce lo spirito in cui io scrivo. La nostra cultura è caratterizzata dalla parola «progresso». Il progresso è la sua forma, non una delle sue proprietà, quella di progredire […] il mio scopo quindi è diverso da quello dell’uomo di scienza, e il movimento del mio pensiero diverso dal suo” (PD, p. 28).
[29] La posizione di Wittgenstein sul progresso viene descritta da Jacques Bouveresse come una “delle superstizioni più caratteristiche della nostra epoca, in qualche modo costitutiva dello spirito del tempo […] [si crede che il progresso] sia in grado di trovare una soluzione per tutti i problemi fondamentali dell’umanità” (J. Bouveresse, “L’oscurità del tempo presente: Wittgenstein e il mondo moderno” in D. Sparti (a cura di), Wittgenstein politico, Feltrinelli, Milano 2000, p. 62).
[30] P. Donatelli, “Wittgenstein. La filosofia come critica”, in C. Diamond e J. Conant, Rileggere Wittgenstein, Carocci, Roma 2010, p. 33.