Recensione a:
F.W.J. Schelling
Filosofia dell’Arte
(Philosophie der Kunst, 1859)
Traduzione di A. Klein
Morcelliana, Brescia 2022
Pagine 405
di Stefano Piazzese
Morcelliana pubblica la nuova edizione riveduta di Filosofia dell’Arte (Philosophie der Kunst, 1859) di Schelling, opera che il traduttore Alessandro Klein definisce platonica o, più precisamente, neoplatonica. Una scelta che appare certamente come un azzardo di fronte allo spirito del tempo presente, ma un azzardo ben calcolato; poiché se è un dato di fatto che non vi è nulla di più lontano dalla concezione schellinghiana di arte dell’attuale orientamento estetico, Filosofia dell’Arte costituisce un fecondo approdo teoretico che ha contribuito a plasmare l’edificio di una delle più feconde stagioni culturali dell’Europa.
Un fondamento si ergerà in tutta la sua potenza agli occhi e alla mente del lettore: l’Arte non può essere riducibile alla distrazione o all’intrattenimento, approccio che sembra dominare l’era in cui l’opera d’arte è vissuta anche (e forse soprattutto) nei meandri consumistici della sua riproducibilità tecnica, e quindi plasmata dalle velleità del commercio: dov’è finità la sacra immanenza dell’arte? Il vigore speculativo di Schelling torna oggi più attuale che mai. Gli stimoli e le illuminazioni del suo sistema ci aiutano anche a distinguere il vaniloquio dalla serietà e dal rigore della vera filosofia.
Non è possibile comprendere il sistema di Schelling se non si conosce la sua concezione di filosofia. Essa è «Il fondamento di tutto e abbraccia tutto. Essa estende la propria costruzione a tutte le potenze e a tutti gli oggetti del sapere: solo mediante essa si perviene a ciò che di più alto» (p. 70). In essa «perveniamo alla contemplazione dell’eterna bellezza e degli archetipi di tutto ciò che è bello» (ibidem). Dunque, posto in primo luogo il sistema filosofico schellinghiano, la filosofia dell’arte «non sarà che una sua ripetizione elevata alla massima potenza» (ibidem). Una costruzione del pensiero, dunque, che comprende non solo l’universale, ma pure gli individui che sono rappresentativi di tutto un genere, e cioè gli archetipi. Ecco perché il filosofo, in fase introduttiva, ci tiene a precisare che la scienza dell’arte di cui egli è costruttore non va confusa con tutto ciò che fino a qual momento si presentava con i nomi di Estetica o di Teoria delle belle arti e delle scienze.
L’oggetto principale della costruzione, e dunque della Filosofia dell’Arte, è «unicamente ciò che, in quanto particolare, è capace di accogliere in sé l’infinito» (p. 74). Secondo Schelling l’arte è emanazione dell’assoluto (p. 77) attraverso cui è possibile cogliere le sue relazioni con le determinazioni dell’universo. A scandire la manifestazione dell’arte nella storia non è la casualità ma la necessità assoluta che la lega indissolubilmente al tempo. L’arte contempla il bello originario esclusivamente nelle idee intese come forme particolari. Le idee sono qui concepite come la materia principale, assoluta e universale, dell’arte: «queste idee reali, viventi ed esistenti sono gli dei. […] Di fatto gli dei di ogni mitologia altro non sono se non le idee della filosofia, contemplate però oggettivamente, ossia realmente» (p. 75).
Esiste una filosofia del tragico che non relega il tragico entro i confini dell’indirizzo cosiddetto estetico. Ciò che i tragediografi hanno espresso con la loro parola poetica è una struttura ontologica, una metafisica che indaga ciò che va oltre gli enti, concentrandosi sui processi e sugli eventi, una gnoseologia che ha a suo fondamento il binomio inscindibile dolore-conoscenza.
Per le motivazioni appena esposte bisogna che si parli del tragico sempre in relazione al suo grande spessore speculativo e alla dimensione teoretica che gli compete. La tragedia attica è un’indagine filosofica a tutti gli effetti. Una delle affermazioni più frequenti quando si affronta questo argomento è quella secondo la quale solo a partire da Schelling è possibile rilevare storicamente una filosofia del tragico.
Se per filosofia del tragico s’intende una esplicita trattazione del tema del tragico in relazione al suo carattere filosofico questa prospettiva è comprensibile, certo, però va considerato il fatto che nella storia del pensiero la filosofia del tragico è stata sempre presente, prima ancora di Aristotele, a partire dai cosiddetti pensatori delle origini.
Un esempio di ciò è il celebre frammento anassimandreo, il quale indica espressamente la comprensione che il filosofo ebbe non solo del mondo e della vita ma in essi dell’esistenza umana. Una conoscenza profonda che nasce dall’osservare il mondo attraverso uno sguardo disilluso, disinteressato e per questo autentico. Cogliere l’assenza di senso, di significato interno alle cose e comprendere che un significato è possibile laddove l’essere umano ne elabora uno. Il prospettivismo ermeneutico è il nome postmoderno della filosofia del tragico, la sua attuale trasposizione in ambito scientifico: se i fatti non esistono, ma esistono solo interpretazioni, nell’interpretare si squaderna la tensione che caratterizza il dramma dell’esserci.
Schelling rende ragione, attraverso il suo sistema, del fondamento ontologico e metafisico di tutto ciò che è. Il punto di partenza è la domanda su come la ragione greca potesse sopportare le contraddizioni dello spirito tragico:
«essenza della tragedia è dunque un conflitto reale tra la libertà soggettiva del protagonista e la necessità oggettiva, conflitto che non termina con la sconfitta dell’una o dell’altra, ma col palesarsi della loro perfetta indifferenza, entrambe essendo vittoriose e vinte ad un tempo. Dobbiamo ora definire, in termini ancor più precisi di quanto fatto sinora, in che modo ciò sia possibile. Come abbiamo già osservato, la necessità può apparire realmente in conflitto con la libertà solo là dove infligga un male. Ma la questione è proprio di che genere debba essere questo male per adattarsi alla tragedia» (p. 339).
In questo passo schellinghiano viene enunciato il cuore teoretico del tragico: il fondamento della contraddizione. Ma per comprendere appieno questa prospettiva bisogna porre una domanda fondamentale: come si sviluppa la contraddizione che sta a fondamento del tragico? E come arriva tale contraddizione alla fine della vicenda narrata dalla parola poetica?
Stando a ciò, la tragedia greca onora la libertà umana nelle azioni del protagonista (che qui viene definito eroe), il quale è chiamato a combattere contro una forza superiore: il destino. Dunque, la tragedia lascia soccombere il suo protagonista, ma, per oltrepassare successivamente questa mortificazione della libertà umana, conseguita per mezzo dell’arte, doveva parimenti aprire lo spazio all’espiazione del delitto. Anche nel caso in cui quest’ultimo venisse commesso per opera del destino stesso.
Vi è un’idea grandiosa che secondo Schelling determina la dinamica appena esposta. Essa consiste nella sopportazione volontaria, da parte dell’eroe, della punizione anche nel caso di delitto inevitabile. Il fine supremo sarebbe quello di affermare questa libertà proprio attraverso la sua perdita, e successivamente soccombere per l’affermazione del libero volere.
La punizione diventa uno dei poli della contraddizione, il cui scopo è quello di permettere la libera affermazione della volontà dell’uomo tragico sempre entro i confini di ciò che lo determina. Pertanto, è possibile parlare di un’affermazione del libero volere nella perdita della libertà. Questa, forse, è la formulazione che più rende conto del complesso pensiero di Schelling sul tragico, e che certamente apre la strada alla riflessione ufficiale della filosofia sul tragico.
Il conflitto tra libertà e Necessità
«esiste realmente solo là dove quest’ultima mina la volontà stessa e combatte la libertà sul suo stesso terreno. […] L’effetto di queste contraddizioni non è forse, ci si è chiesti, puramente sconvolgente, e su che cosa si fonda allora la bellezza che, nonostante tutto, i greci hanno raggiunto nelle loro tragedie? La risposta a questo interrogativo è la seguente. Che un conflitto reale di libertà e necessità possa prodursi solo nel caso suddetto, in cui il colpevole è diventato tale ad opera del destino, è ormai dimostrato. Che però il colpevole venga anche punito, nonostante abbia solo ceduto allo strapotere del destino, è necessario per mostrare il trionfo della libertà» (p. 341).
Il fondamento di questa contraddizione, ovvero l’elemento che la rendeva tollerabile agli occhi del greco, si squaderna laddove difficilmente lo si potrebbe cercare o intuire: si trova, infatti, nel conflitto in atto tra la libertà umana e la potenza del mondo obiettivo. In questo scontro l’uomo si ritrova a fare esperienza di una forza superiore (il fato) in forza della quale l’eroe deve necessariamente soccombere e allo stesso tempo pagare una colpa per la propria morte in quanto morto senza aver combattuto.
Il protagonista, affinché abbiano luogo il conflitto e la manifestazione della libertà della tragedia deve lottare contro il fato. Pertanto, egli deve essere sconfitto in ciò che è di dominio della Necessità, ma «per impedire la vittoria della necessità pur senza vincere egli stesso, deve liberamente espiare anche per codesta colpa imposta dal destino» (ibidem).
Per i Greci l’enigmatico e inspiegabile intreccio di Necessità e libertà era funzionale al soddisfacimento del loro senso etico, laddove, infatti, l’effetto tragico non è da intendere per forza o in ogni caso come conclusione infelice – Schelling precisa che il semplice delitto commesso e successivamente punito non ha nulla di tragico. La tragedia può concludersi anche con la conciliazione dell’eroe con il suo destino e con la vita stessa (vedi Oreste nelle Eumenidi). L’epilogo della vicenda del figlio di Agamennone narrata nell’Orestiade mostra che la parità tra libertà e Necessità è sancita anche attraverso il giudizio etico.
L’elemento sublime della tragedia è la vulnerabilità del colpevole-incolpevole di fronte al castigo e all’accettazione di quest’ultimo. Se da un lato la necessità impone il suo stesso estrinsecarsi negli eventi della tragedia, dall’altro l’eroe tragico sente su di sé un peso ulteriore, un’altra forza: quella della propria azione. Ecco perché, stando a Schelling, è impossibile leggere la tragedia attraverso un filtro interpretativo manicheo in virtù del quale è possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra giustizia e ingiustizia. E qui l’elemento che accomuna Eschilo e Sofocle: la compiutezza dell’azione «il cui effetto sull’anima è non già quello di eccitarne le passioni, ma di purificarle, e, lungi dal dilacerarla e dividerla esteriormente, di perfezionarla ed integrarla nel suo intimo» (p. 351).
Ecco che a un’attenta valutazione dei tre tragediografi non può non seguire la scelta di valutare Euripide in modo radicalmente diverso rispetto agli altri due. Il fondamento del tragico eschileo e sofocleo ha come suo nucleo teoretico la superiore eticità costitutiva della πόλις del tempo, di quel tempo. Nello spazio del tragico viene ridefinita ogni nominazione elementare per comprendere il mondo e la vita in quanto la tragedia messa in atto nel θέατρον è un campo di energie (Centanni), luogo in cui i problemi si sviluppano fino a polarizzarsi in forma dialogica; in questa dinamica ha luogo una rigorosa verifica del nucleo delle idee e delle loro rappresentazioni. Ed è proprio la forma dialogica a essere una delle novità introdotte da Eschilo nella tragedia. Forma dialogica che ci permette di respirare nei versi del poeta l’evento del domandare e del rispondere che sta a fondamento della nascita e dello sviluppo di tutto il pensiero cosiddetto occidentale. Forma dialogica nella quale l’Ereignis esistenziale del domandare e del rispondere.
In Eschilo questo Ereignis si sviluppa anche a partire dal germe di eticità che rimane pur sempre inaccessibile e non maturo; maturità che invece, afferma Schelling, sarà raggiunta da Sofocle, la cui immagine del divino unisce bontà etica e bellezza.
Aggiunge il filosofo: «Inoltre mentre Eschilo presenta ciascuna delle sue opere come rigidamente delimitata e in sé conchiusa e in essa a loro volta i suoi personaggi, Sofocle invece non solo distribuisce equamente arte e bellezza in ogni parte delle sue opere, ma, oltre a conferire a ciascuna la sua peculiare e intrinseca assolutezza, le armonizza anche con le altre» (p. 352).
Al di là delle differenze che riguardano ciascuno dei tre tragediografi, il tragico manifesta la consapevolezza della problematicità di questa indagine attraverso la rappresentazione e l’imitazione, poiché la rappresentazione non è mera riproduzione della realtà, ma mezzo per cui il mondo diviene dicibile e pensabile. Il teatro, dunque, ben lontano dalla concezione che l’essere umano postmoderno ne ha, è anche un’esperienza che diventa fondamento – Grund – della teoresi. Non siamo lontani, qui, dalla concezione heideggeriana secondo cui la filosofia riguarda noi uomini nella nostra essenza e ci tocca, e il ‘toccarci’ della filosofia scaturisce dal domandare che investe la poesia tragica.
Quel tragico la cui essenza è conflitto, Πόλεμος, tra libertà soggettiva del protagonista e necessità oggettiva. Uno scontro che non santifica una e ammonisce l’altra, che non elegge una a principium absolutum e annichilisce l’altra. Schelling coglie le vestigia dell’antichità greca, così lontana e, allo stesso modo, vicina grazie ai preziosi diamanti dello spirito a noi pervenuti dai corsi e ricorsi della storia: le fonti scritte. Il tragico testimonia il conflitto più difficile da comprendere. E ancora oggi, grazie alle tragedie greche, le più grandi opere che lo spirito umano abbia mai partorito, è possibile cogliere la struttura metafisica più profonda della vita umana.
Filosofia dell’Arte di Schelling è un sistema determinato dalla tensione che attraversa ogni pensiero umano, il tragico tentativo di rispondere alla domanda perché esiste qualcosa e non il nulla?