Recensione a:
Afshin Kaveh, Alberto Giovanni Biuso, Xenia Chiaramonte, Cristiano Sabino, Nicoletta Poidomani, Elisabetta Teghil
Krisis. Corpi, confino e conflitto
Catartica Edizioni
Sassari 2020
Pagine 120
€ 13,00
di Sarah Dierna
Krisis come capacità di sapere giudicare con razionalità – in un’epoca in cui diventa sempre più difficile farlo – e non come sinonimo di situazione emergenziale è il senso in cui va colto il titolo di questo breve ma vivace volume che raccoglie gli approfondimenti di Afshin Kaveh, Alberto Giovanni Biuso, Xenia Chiaramonte, Cristiano Sabino, Nicoletta Poidomani, Elisabetta Teghil.
Un libro che sul Covid-19 ha da dire poco ma non perché sia stato scritto quando l’epidemia era ancora nella sua prima fase piuttosto perché sin dalla prima fase a questi e a pochi altri studiosi è apparso chiaro come il virus avesse poco a che fare con la sua gestione, che si è rivelata una questione non soltanto sanitaria ma prima di tutto economica e politica, e quindi finanziaria e sociale.
Sono infatti questi – come li ha elencati Kaveh – i contesti di una crisi del capitalismo iniziata molto prima del marzo 2020 e per i quali «lo svilupparsi di un virus, il covid-19, è diventato un’occasione quanto mai ghiotta […] per rompere quei pochi argini rimasti al dilagare della sua ristrutturazione sociale»[1]. Una ristrutturazione – o distruzione – sociale promossa dal neoliberismo e iniziata con «lo smantellamento della sanità pubblica, del sistema pensionistico, la disoccupazione e la precarizzazione di massa e stabile, la riproposizione dei ruoli e delle gerarchie, l’annullamento delle economie marginali, la guerra ai poveri, il controllo sociale»[2]; si tratta di nodi problematici dei quali anche i più distratti e meno addetti ai lavori hanno sentito parlare poiché sono temi al centro di un dibattito avviatosi già da tempo e di cui il Covid-19 non è la causa e il sistema politico il redentore: «la retorica della salute e della difesa e della solidarietà collettiva converge con la lotta a qualsiasi possibile alterità al progetto neoliberista attraverso la formazione della cittadinanza»[3].
Nella limpida disamina di Teghil il neoliberismo, presentando se stesso come corretto e democratico,
assume e strumentalizza i diritti umani, l’antifascismo, l’antirazzismo, le istanze della diversità sociali e sessuali, quelle provenienti dagli ambiti di malessere sociale, perfino quelle antagoniste… Le ingloba, le trita e le risputa a suo uso e consumo traducendole in meccanismi di soggezione e in merce e produce una società che potremmo definire dell’antifascismo fascista, dell’antirazzismo razzista, dell’antisessismo sessista in cui integrazionismo e emancipazionismo di donne e immigrati/e giocano un ruolo fondante nell’inglobare nel sistema di potere le soggettività che in cambio della loro promozione personale sono disposte ad abbracciare la scala di valori dominante propagandando questa come la migliore società possibile[4].
Un antifascismo che tuttavia cancella la differenza anziché tollerarla e rispettarla, rendendosi così simile all’ideologia di cui esso si dice contrario; un antirazzismo che – con logiche senz’altro diverse – continua a poggiarsi su una demarcazione prettamente biologica. Il fascismo negli anni Venti del XX secolo ha distinto tra coloro che possedevano la tessera elettorale del partito e coloro che invece non l’avevano, l’antifascismo degli anni Venti del XXI ha distinto tra chi possiede il Green Pass e chi no.
Le politiche razziali nel secolo scorso hanno tolto la cattedra ad alcuni insegnanti a causa della loro appartenenza, il suo contraltare antirazzista la sottrae oggi a chi ha più di cinquant’anni e non è ancora “adulto e vaccinato”.
Un integrazionismo nei confronti di quegli immigrati che però sono stati costretti a periodi di quarantena nei loro barconi – luoghi non troppo igienici, è evidente – perché potenziali untori dimenticando invece che il virus viaggia in prima classe, su jet privati e non su imbarcazioni prossime alla deriva.
Gli anacronismi non sono possibili per loro stessa natura e riproporli significherebbe avere una lettura della storia troppo riduttiva e manchevole di alcune delle sue parti. Un secolo rappresenta una distanza troppo ampia e attraversata da una molteplicità di eventi complessi nel mezzo e che non possiamo cancellare ma proprio per questo la deriva autoritaria dovrebbe destare oggi preoccupazione e non asservimento, ribellione e non obbedienza, menti deste e non dormienti.
Alcuni di questi eventi complessi sono quelli che il fascismo hanno voluto superarlo, quelli che per farlo hanno redatto la nostra carta costituzionale in materia forense e pagine di libri in materia storica, filosofica e letteraria. Eppure, senza accorgercene sembra che la storia si ripeta ma oggi con maggiore gravità, sia perché il controllo è diventato molto più pervasivo, ma soprattutto perché adesso sappiamo (almeno questa generazione che ha avuto il privilegio – perché di questo si tratta – di avere imparato in aula e non dietro uno schermo).
Tutto questo avviene nel silenzio e nell’assenso – o forse si dovrebbe dire nell’assenza – della sinistra, ampiamente criticata da Sabino, che in questa vicenda gioca il ruolo della rana punta dallo scorpione, come la favola di Esòpo ricorda.
La natura dello scorpione è pungere. La natura della rana è credere che lo scorpione non pungerà. Così l’intellighenzia di buon cuore della sinistra televisiva, i movimentisti che credono che le cose cambieranno con tante assemblee e tante manifestazioni, la sinistra lobbista che si occupa di far passare singole vertenze, continuano in un modo o nell’altro a traghettare scorpioni […]. Il discorso vale anche per la sinistra di base che ogni volta, quando è il momento di organizzarsi per assumersi le proprie responsabilità, fa spallucce […] poi però, puntualmente, in situazioni di emergenza, si lamentano che non esiste una opposizione istituzionale[5].
Verrebbe da domandarsi se l’opposizione esista ancora. Se destra e sinistra siano ancora categorie valide nella politica attuale. Se ci sia ancora una politica che persegua gli interessi dei cittadini e non i propri, che alle vacanze in Sardegna – il cui caso dovrebbe destare i più dormiglioni dal sonno della ragione – antepone gli interessi della regione di cui si è presidente. In questa epidemia invece
si sono affermate – senza quasi nessun contraltare – narrazioni subalterne che scaricavano i costi e la responsabilità del dilagare dell’epidemia sulla poca affezione delle persone a lavarsi le mani, sulla cattiva abitudine di starnutire sui palmi e non entro i gomiti, e soprattutto si è scatenata la caccia all’untore personificato nel runner, nella passeggiata del vecchietto, nella famigliola al mare, nell’attività dell’hobbista ortolano che si recava nella sua tanca per potare gli ulivi e raccogliere le favette[6].
Si sono quindi ridisegnati i comportamenti all’interno della società ma non della società attribuendo così le ragioni del diffondersi di un virus a delle semplici condotte e non al sistema; insomma: si è fatto del mezzo la causa, e della vera causa la soluzione.
Sia chiaro. Il virus come elemento biologico esiste e nessuno degli autori su questo ha alcun dubbio. Esiste però anche un sistema vettore del contagio: «da quanto si sa, il Covid-19 agisce soprattutto dove la concentrazione di umani è alta, nelle città, nelle grandi città – come quelle cinesi – e meno nelle campagne»[7]; esso è riuscito ad arrivare in Italia e in Europa perché il suo viaggio da Wuhan è avvenuto in tempi brevi; come chiarisce lo storico ambientale americano McNeill i vecchi mezzi di trasporto – prevalentemente via terra e via mare – per la loro capienza e i tempi di percorrenza garantivano al virus di trasmettersi e quindi di “sovravvivere” – benché la sua natura resti ancora incerta per parlare di sopravvivenza – per un certo periodo ma, una volta contagiati tutti gli organismi presenti, e in assenza di nuovi su cui attaccarsi, esso sarebbe scomparso. Al contrario, arrivare a destinazione nel giro di poche ore permette non solo il contagio interno al mezzo ma anche quello esterno, nonché la sua trasmissione incontrollata. Se a questo aggiungiamo poi che a viaggiare con maggiore frequenza siano i grandi imprenditori e spesso per conto di grandi industrie il cerchio si chiude proprio da dove siamo partiti.
Per farla breve: la logica del profitto è funzionale al benessere ma disfunzionale alla salute; pertanto, non sono i comportamenti delle classi medie e piccolo borghesi che vanno rivisti, ma quelle dei grandi protagonisti del mercato transnazionale. Detto con il linguaggio della filosofia:
uno dei tanti abitatori dello spaziotempo ha pensato di poter diventare il luogo e la storia nel quale ospitare a suo piacimento gli elementi e gli altri animali. Ospitarli, respingerli, sfruttarli, sterminarli. Uno dei tanti abitanti dell’oikos, della casa che ospita tutti i viventi, si è illuso di poter distruggere l’abitazione che gli dà senso, vita e riparo e poter però ancora vivere.[8]
Se il virus vuole diventare l’occasione per tessere una nuova tela – secondo l’efficace immagine di Chiaramonte che dell’epidemia affronta un aspetto delicato, il pianto per il morente – è dal basso che può avvenire questo cambiamento e non dagli scorpioni che stanno al vertice. È ovvio che questi continueranno ad agire per il loro interesse – basta guardare un’altra grande crisi del secolo, quella ecologica e le loro politiche di (non) intervento.
Finché non vorremo vedere queste trame così complesse e tuttavia così evidenti ha ragione Sabino quando, ricordando Gramsci, constata che c’è un vecchio mondo che sta morendo ma il nuovo tarda ad apparire: «è in questo chiaroscuro che nascono mostri»[9].
[1] E. Teghil, Esondazione…Non bastano i sacchetti di sabbia, in A. Kaveh, A.G. Biuso, X. Chiaramonte, C. Sabino, N. Poidomani, E. Teghil, Krisis. Corpi, confino e conflitto, Catartica Edizioni, Sassari 2020, p. 107.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 110.
[4] Ivi, p. 108.
[5] C. Sabino, La rana e lo scorpione. O della pandemia della subalternità, ivi, p. 80.
[6] Ivi, pp. 80-81.
[7] A.G. Biuso, Vita e salute. Il paradigma Don Abbondio, ivi, p. 53.
[8] Ivi, p. 31.
[9] C. Sabino, La rana e lo scorpione. O della pandemia della subalternità, ivi, p. 78.