La buona guerra. Smarrimento e ragione davanti alla guerra civile

di Francesca Bertino

Il padre non sarà simile ai figli, né a lui i figli; né l’ospite all’ospite o il compagno al compagno né il fratello sarà caro così come prima lo era. […] La giustizia risiederà nella forza delle mani; non vi sarà più pudore: il malvagio, con perfidi detti, danneggerà l’uomo migliore e v’aggiungerà il giuramento. La Gelosia malvagia, maledica e dallo sguardo sinistro, s’accompagnerà con tutti i miseri umani. Allora dalla terra dalle larghe contrade, in bianchi veli, nascondendo il bel corpo e lasciando i mortali, la Coscienza e la Nemesi andranno verso l’Olimpo, al popolo degli Immortali; ma gli affanni luttuosi resteranno ai mortali, né vi sarà difesa contro il male.[1]

Così ne Le opere e i giorni il poeta greco Esiodo traccia i contorni dell’ultima stirpe nella successione delle età del mondo: la stirpe di ferro, una stirpe decadente, madre di uomini che rispettano la sola legge della forza e la elevano al rango di diritto e poi di giustizia. È un clima avvelenato dal sospetto e dall’invidia, la passione che vuole la rovina dell’amico e ha uno sguardo sinistro, bieco, che si nega alla reciprocità, uno sguardo antisociale. Non vi è difesa contro il male: i legami più spontanei si irrigidiscono e perdono di naturalezza, al punto che non ci si può più fidare di nessuno e tutti costituiscono un pericolo per la propria esistenza.

La descrizione, il cui parallelo antropico ritroviamo nel noto racconto tucidideo della guerra civile a Corcira, si attaglia perfettamente a quella fortunata idea di bellum omnium contra omnes, che sarebbe giunta a maturazione alla metà del Seicento nell’opera del filosofo britannico Thomas Hobbes. È la guerra civile frutto della mancanza di un governo e di un demos, dove tutti gli individui tentano di approfittare ognuno per suo conto di questa mancanza e al tempo stesso di difendere ciò che possiedono – la vita su tutto. Ma è anche una guerra latente, una condizione atmosferica, cioè una «disposizione dichiarata verso questo tipo di situazione, in cui per tutto il tempo in cui sussiste non vi è assicurazione del contrario»[2], per usare un’altra metafora hobbesiana.

I Greci la definirono στάσις, dal verbo ἵστημι, che indica lo stare fermi dopo essersi levati ed avere assunto una certa posizione: è una staticità frutto di un «movimento immobilizzato»[3] e, nel caso della guerra civile, di una serie di prese di posizione paralizzanti per laπόλις. Siamo ovviamente distanti dall’immaginario romano del bellum civile[4], che ci ha prestato il concetto di guerra civile, e che implica il duellum, lo scontro regolato tra fazioni di individui appartenenti alla medesima civitas, ovvero titolari di uguali diritti politici. Quello descritto è un conflitto amorfo e privo di quella solennità che si è sempre riservata alla guerra per eccellenza, quella esterna, per distinguerla dalla pura violenza e darle la legittimità di una cerimonia officiata da uno Stato (o da qualunque altra forma politica al potere). Inter bellum et pacem nihil est medium: a meno che non serva allo Stato, la violenza non può essere accettata all’interno dei suoi confini, dev’essere invece canalizzata e reindirizzata su un terreno neutrale dove non sia più una minaccia per nessuno.

Bellum omnium contra omnes, stasi, bellum civile. Di fronte a questi tre immaginari riguardanti la guerra civile ci scopriamo confusi: quale riesce a cogliere meglio l’essenza del nostro oggetto, se un’essenza può essere colta? Nessuno, tutti. Essa è un oggetto resistente ai tentativi di definizione, multiforme, fenomenologicamente complesso, ma le percezioni che ha prodotto e che hanno trovato espressione nel mondo culturale non si escludono a vicenda, bensì illuminano degli aspetti che si possono trovare variamente bilanciati in tutte le guerre civili del passato e anche in quelle che la politologia contemporanea definisce “nuove guerre civili”.

Scrive Platone in Repubblica V, 16 che i barbari sono per gli Elleni dei nemici naturali ed è giusto combatterli attraverso la guerra; sono invece naturalmente amici gli Elleni con gli Elleni e il conflitto tra questi non si può che definire discordia[5]. Platone non dà lo stesso nome all’inimicizia verso l’esterno e all’inimicizia interna all’Ellade, come se la prima fosse giusta perché intrinseca alla natura delle cose, mentre la seconda fosse sì naturale (in fondo viene paragonata a una malattia) ma profondamente dannosa perché responsabile dell’indebolimento del corpo in cui si insinua. Il barbaro è il πολέμιος (lat. hostis), il nemico pubblico, politico, quello che va combattuto per salvaguardare la propria forma di esistenza; il greco può essere, al massimo, un ἐχθρός (lat. inimicus), un nemico privato, colui che si odia per un interesse particolare che per nessun motivo andrebbe elevato a interesse pubblico[6]. Tuttavia, i pochi responsabili del dissenso all’interno di una comunità meritano di essere trattati come nemici pubblici, per aver trascinato degli innocenti nell’auto-dilaniamento del proprio popolo.

Da questo passo del capolavoro filosofico-politico di Platone prenderò le mosse per indagare tre temi fondamentali per l’inquadramento della guerra civile: il problema della distinzione tra interno ed esterno, la questione della costruzione di una comunità politica – parallelamente alla gestione del rischio della sua disgregazione – e, non ultima per importanza, la difficoltà nella gestione del “dopo” e in particolare degli sconfitti interni.

I

Come ho messo in luce appena sopra, il filosofo della Politeia accentua attraverso le parole pronunciate da Socrate la completa estraneità che sussiste tra Greci e barbari e argomenta la necessità di distinguere la relazione di inimicizia, che tra questi popoli naturalmente intercorre, dalla discordia che può occasionalmente sorgere internamente al popolo greco. È una chiara intenzione di delimitare la comunità politica, di distinguere l’interno dall’esterno, ed è interessante che per farlo si usi il concetto di nemico. Mi appoggerò quindi all’analisi schmittiana sulle categorie del politico per ampliare la trattazione su questo punto e renderla più chiara.

Sostiene Schmitt che il criterio di definizione del politico risiede nella coppia concettuale amico-nemico (Freund-Feind), che è «[l]a specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici»[7]. Questi concetti indicano «l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione»[8], il cui contenuto concreto, la sua forza, può consistere nei più svariati motivi psichici, religiosi, economici, morali o che dir si voglia. Quel che conta però è che l’unità politica, a prescindere dai motivi che la animano, deve essere l’unità decisiva, e ciò si dica in senso esistenziale: un’unità politica è un’unione di individui che si riconoscono parte della stessa in primo luogo perché hanno un nemico comune, ovvero qualcuno contro cui sarebbero disposti a combattere per difendere la propria forma di esistenza e indipendenza e a perdere la propria vita per esse[9]. Invero, l’intensità del politico è tanto più forte, quanto più si riferisce alla possibilità reale dell’eliminazione fisica: il politico è un concetto paradossale.

Ora, si tende ad assimilare il concetto di politico a quello di Stato per la pretesa di monopolio sulla violenza legittima e sulla pace che caratterizza questa forma politica sin dalle sue origini nell’età moderna, ma è chiaro che il politico eccede rispetto a questa e a tutte le sue manifestazioni storiche. Questo si mostra con la massima evidenza nella caducità dei poteri politici, che non solo possono finire a causa della sconfitta contro il nemico esterno, ma anche possono essere minacciati e sopraffatti dal nemico interno. Così lo definisce anche Platone che, seppur prudente a chiamare tutti i dissidenti interni nemici, non esita ad affibbiare tale appellativo a coloro, quei pochi, che sono responsabili della polarizzazione della comunità.

Nondimeno, se si accetta come valido il quadro teorico che ho fin qui delineato, bisogna essere cauti nel parlare di colpa e responsabilità in relazione al nemico interno che minaccia l’esistenza di un potere politico. Queste dinamiche sono piuttosto un gioco di forze inevitabile al sorgere di certe condizioni materiali: la loro descrizione attraverso categorie afferenti all’ambito della morale è già una presa di posizione politica. Quando infatti un potere politico non riesce più a imporsi come un tutto, «dettando aspettative sul futuro, trasformando queste aspettative in “diritti” e “doveri” ma, soprattutto, elevando la realtà esistente a orizzonte pratico e teorico di tutti», esso perde la sua forza unificante e non è più in grado di relativizzare le conflittualità interne. Queste ultime vanno quindi acquisendo un’intensità maggiore rispetto alla comune contrapposizione al nemico esterno e aspirano a diventare loro stesse il tutto. La guerra civile, per dirlo altrimenti, sovverte la logica delle relazioni interne a una comunità politica. La sua divisione intestina infatti annulla le relazioni di sovra- e subordinazione tipiche della politica interna e istituisce provvisoriamente l’eguaglianza tra le parti tipica delle relazioni internazionali[10].

Fin qui si è messa in risalto la pars destruens della guerra civile, ovvero il suo essere causa del collasso di un ordine politico. Questo è in fondo anche il suo volto più appariscente, quello del disordine e della violenza irrazionale e smisurata che sazia la nostra sete di notizie e il nostro bisogno di indignazione e che attira la curiosità e suscita l’orrore di chi sta davanti al dolore degli altri ma sempre a debita distanza. Eppure, come Georg Simmel fa notare nella sua analisi sociologica del conflitto contenuta nella grande Sociologia del 1908, la lotta, una volta scoppiata, è già un movimento correttivo, un rimedio (Abhilfsbewegung) al dualismo che ormai divide il corpo sociale. Come i sintomi più terribili di una malattia dimostrano gli sforzi che l’organismo sta compiendo per liberarsi dal suo male, così l’aperto conflitto testimonia la volontà di raggiungere una qualche forma di unità[11]. Sarà dunque bene soffermarsi sull’aspetto costruttivo della guerra civile, ovvero sul suo essere condizione necessaria per l’affermarsi di un nuovo ordine politico.

II

Negli ultimi decenni si è andata formando un’opinione comune secondo la quale la guerra civile è un fenomeno esotico, che appare perlopiù in aree geografiche economicamente, culturalmente e politicamente arretrate. Tuttavia basterebbe guardare alle vicende del nostro continente, e senza nemmeno andare molto addietro nei secoli, per rendersi conto di come le guerre civili costituiscano un’esperienza centrale nella nostra storia e di come, inoltre, i conflitti abbiano plasmato –e continuino a plasmare– l’assetto geopolitico che conosciamo.

Sicuramente sono molteplici i fattori ai quali possiamo imputare tale oblio, uno tra i tanti il fatto di essere stati per qualche decennio tra quei privilegiati che hanno potuto dimenticarsi della guerra (almeno in certe sue forme). Ma se si considera il tutto da un’altra prospettiva, si noterà anche come il nostro autoinganno sia legato a una percezione di eternità dell’ordine politico attuale. Questa percezione non è solamente dovuta a una minaccia sentita come distante, bensì anche a un sentimento sufficientemente diffuso di appartenenza alla comunità politica che ne garantisce la tenuta, un sentimento tutt’altro che naturale, prodotto ai vertici della stessa attraverso mezzi ricorrenti volti a consolidare la rappresentazione condivisa del legame tra i membri. Platone, nel passaggio citato, parla proprio di culti comuni a tutti gli Elleni, come se fossero garanzia della presenza di una connessione interpoleica a livello simbolico. Se infatti la presenza di una minaccia esterna, di un nemico, è un collante tra individui particolarmente potente[12], non è da sottovalutare il fatto che l’unione per mezzo del pericolo è tanto più effettiva quanto più c’è in gioco un’unità già esistente tra gli elementi, benché questi abbiano preferenze e aspirazioni differenti.

Il patrimonio simbolico comune rinsalda il senso di appartenenza, tenendo viva la distinzione tra interno ed esterno, e consta di molti elementi che si insinuano in ogni aspetto della vita quotidiana delle persone e garantiscono un’aderenza totale e perlopiù inconscia all’identità del gruppo. Si possono citare ad esempio la lingua e lo stile (che può spaziare dall’abbigliamento, alla produzione letteraria e artistica, all’architettura…), ma anche simboli politici come insegne, bandiere, inni, uniformi, cerimonie pubbliche e liturgie collettive. Ai fini dell’integrazione politica è poi molto importante la manipolazione del tempo, attraverso la creazione di una memoria collettiva, l’introduzione di un proprio calendario, l’istituzione di luoghi della memoria e la celebrazione di figure esemplari. Il riferimento a un passato mitico comune o a un momento fondativo –molto spesso reso possibile da una guerra, sì, ma l’ultima guerra, elevata per dignità a una guerra giusta e di liberazione– rendono possibile la percezione della continuità di alcuni valori e investono del ruolo di loro custode la comunità attraverso le generazioni. Di pari importanza è inoltre la capacità di sostenere la bontà dello stato di cose presente attraverso la tensione verso un futuro promesso.

Se e quando questo gioco di prestigio dovesse essere smascherato, l’eternità e l’irreversibilità dell’ordine politico, finzioni utili per il mantenimento del potere, si scoprirebbero contingenti e reversibili, frutto di un processo storico mirato alla loro costruzione[13]. A questo punto, è verosimile che l’identità dominante che teneva insieme le parti inizi ad allentare la sua pretesa di globalità: il necessario ha ceduto il passo al possibile, il futuro non è più chiuso in una bolla di coerenza con il presente e il passato, è invece aperto a chi se lo saprà prendere.

Se il processo di smantellamento del patrimonio simbolico e delle pratiche sociali avviene in un clima di crescente aggressività diffusa e anomia, e consiste in un’inclinazione parodistica o persino iconoclasta nei confronti della cultura, dei valori e del sapere dominanti, il momento decisivo nel crollo dell’identità politica è la sua frammentazione in innumerevoli identità, in una somma caotica di individui, frantumi di un tutto che ormai non si può più ricomporre. Tra queste identità, le più forti riescono a sottomettere le altre, offrendo loro protezione in cambio di obbedienza: emergono delle coalizioni animate dai più disparati interessi, che si contrappongono caoticamente l’una all’altra[14]; a questa scena fa da sfondo un «paesaggio di tradimento» e di sospetto: gli elementi di dissonanza all’interno del gruppo sono come i sintomi di una malattia e devono essere trattati con tempestività[15]. L’elasticità nei confronti della devianza individuale rispetto alla coesione del gruppo è ridotta ai minimi termini: mentre, invero, un gruppo forte e di grandi dimensioni può tollerare la presenza di elementi di disturbo ai margini, consapevole del fatto che le periferie mai avranno contatti con il centro, un gruppo instabile e di piccole dimensioni può sperare di sopravvivere solo con la rigidità e il rifiuto dei compromessi, ovvero con l’adesione totale dei membri al suo indirizzo[16].

Affinché si possa però parlare di guerra civile, è necessario che la violenza disordinata della comunità frammentata, quella violenza contagiosa che lambisce ogni spazio e varca ogni soglia, sia nuovamente direzionata verso un polo: questa è la fase della guerra che più si può avvicinare al modello del duello e alla logica della guerra esterna, benché la guerra interna sia un vero e proprio contenitore di conflitti e non si combatta in un hortus clausus[17]. Quel che conta è, comunque, che la contrapposizione politica sia più intensa ed estrema di tutte le altre contrapposizioni concrete: in suo nome la società si polarizza, ognuno decide da che parte stare. È la guerra totale, il momento in cui i fatti del mondo e i destini dei singoli diventano tutt’uno. La distinzione tra combattenti e società civile è superata dialetticamente, nel senso che entrambe le parti si modificano e la guerra viene condotta anche al di fuori del terreno militare, su quello economico, propagandistico, psichico e morale, col risultato di un’intensificazione del conflitto e la rinascita della contrapposizione politica amico-nemico nella sua forma più pura[18].

III

Siamo dunque giunti, a partire dall’analisi della decostruzione dell’identità collettiva come condizione necessaria del manifestarsi del conflitto interno, alla constatazione del fatto che alla frammentazione seguono sempre nuove aggregazioni e identità sostitutive che si contendono l’egemonia sul corpo sociale. Nella guerra civile l’impolitico e il politico coesistono: essa distrugge un ordine esistente per crearne uno nuovo che, comunque vada, non sarà mai come il precedente, anche solo per il banale motivo di dover fare i conti coi vinti, che in una guerra civile –che lascia poco spazio alla zona grigia[19]– non sono una questione marginale per chi si pone alla guida del dopo. Platone se ne rende conto e solleva la questione del trattamento di coloro che si sono schierati dalla parte del dissenso e pone attenzione alla necessità di distinguere, in qualche modo, tra coloro che si possono correggere senza il ricorso a misure estreme e coi quali ci si può riconciliare, e coloro che vanno puniti in quanto veri e propri nemici[20].

Sia che pensiamo, con Clausewitz, che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, sia che pensiamo, con Schmitt, che essa ne sia il presupposto e la manifestazione più cristallina, è indubbio che, anche a guerra finita e nel ritorno a una situazione normale, la politica mantenga, soprattutto nei primi tempi, una tensione polemica piuttosto acuta. Naturalmente, in questo contesto essa assume la forma della vendetta, della resa dei conti variamente declinata in base alla gravità del crimine commesso. La giustizia politica (o di transizione) in fondo non è che una forma di vendetta giustificata ex post, poiché in quanto giustizia si eleva al di sopra delle parti decidendo su chi debba ricadere la colpa, ma in quanto politica, non è affatto indipendente dalla parte vincitrice e anzi «giudica secondo il “sentimento” concreto, condizionato da motivi etici […], politici o politico-sociali»[21]. E questo è totalmente comprensibile nel quadro di una giustizia che non esiste più e che deve essere lentamente ricostruita –il processo di collasso delle istituzioni culmina invero nella politicizzazione dei poteri neutrali, che cessano di presiedere alla pacificazione interna e divengono strumento della contrapposizione. E tuttavia la vendetta è qualcosa di più della mera espressione dell’odio verso il nemico e a suo modo ha già un contenuto morale in quanto pretesa di giustizia, o meglio di risarcimento, da parte di chi ha subito dei torti. Inoltre essa ha un potenziale liberatorio e impedisce, anche se solo unilateralmente, l’accumulo di risentimento che potrebbe avvelenare il clima nella costruzione dell’ordine successivo[22].

L’altra faccia della giustizia politica è, di contro, l’amnistia, che segna la volontà di metter fine alla violenza ancora perpetuata grazie ai mezzi concessi dalla legge. Questa violenza, per quanto tendenzialmente regolata, è ancora una violenza contagiosa, che sposta i paletti di una legittimità non ancora definita, ed è per questo pericolosa anche per coloro che si fanno latori di una domanda di risarcimento. Dare una forma alla vendetta non è sufficiente: a un certo punto è necessario ricorrere alla sua messa al bando, rendendo le memorie di parte una questione privata e decidendo una volta per tutte chi può far parte del popolo reinventato e chi no[23].

Ma il mettere fine agli orrori della guerra è solo il primo passo nel processo di ritorno alla normalità; ad esso deve seguire la riedificazione di uno spazio neutrale e comune. Due strategie di pacificazione sono possibili a tal fine[24]: una pone l’accento sulla precedenza della ricostruzione di un potere centrale che possa garantire la sicurezza, ponendosi come terzo simbolicamente sterile ed estraneo all’intensità della lotta politica. In tal caso, si possono dettare delle condizioni agli sconfitti per la loro riammissione all’interno della comunità o conceder loro degli spazi politici innocui e controllati, che fungano da valvola di sfogo per le loro idee e il loro risentimento. L’altra strategia, più ambiziosa, preferisce il ristabilimento delle relazioni sociali tra le parti che erano in lotta, affinché non persistano strascichi del conflitto anche dopo la sua fine.

Ciò che risulta decisivo infine, perché si possa parlare di ritorno a una situazione normale, è che la legittimità[25] suggelli il processo velando con la garanzia della legge il nuovo ordine. La politica nasconde finalmente, grazie al diritto, il suo legame di sangue con la violenza e il disordine della guerra civile. Tuttavia la volontà generale che sostiene il nuovo ordine non è mai la volontà di tutti, motivo per cui i suoi principi fondanti potrebbero sempre, un giorno, essere la scintilla che farà divampare il fuoco della discordia.

Conclusioni

Io risveglio gli uomini più sprovveduti dalla loro vita inebetita e pecorile; il loro pensiero addormentato si risveglia su di un punto, poi si risveglia su tutti gli altri, come un fuoco che avanza.

Io sono il fuoco che avanza e che brucia, e che bruciando rischiara. Io sono la Guerra civile. Io sono la buona guerra.[26]

In questo lavoro ho cercato di avvicinare il fenomeno complesso della guerra civile soffermandomi in particolare sulla questione dell’identità politica, in quanto grimaldello per la comprensione del perché gli ordini politici di volta in volta finiscano. Si è visto come la condanna etico-giuridica alla guerra privata, ovvero della guerra condotta da consorterie di vario genere e interessi che non possono definirsi politiche per la mancanza di aspirazione alla globalità, sia una prospettiva parziale nella considerazione complessiva del fenomeno. Invero essa risente dell’orrore genuino che si prova dinnanzi all’assurda violenza che accompagna la guerra civile e talvolta è pure utilizzata per legittimare un potere esistente a scapito di chi insorge contro di esso. Con l’aiuto di considerazioni sociologiche, si è messo in luce come la pace all’interno di un gruppo, soprattutto se di grandi dimensioni, sia un’aspirazione utopica volta a «negare un aspetto essenziale (e indistruttibile) dell’obbligazione politica»[27], ma anche, più semplicemente, a negare il naturale antagonismo che regola, come la simpatia, le relazioni umane. Anche tali principi hanno contribuito a dettagliare il quadro nonché a dare alla guerra civile un volto meno mostruoso e più umano, sostenendo una visione d’insieme che rendesse conto anche della sua importante funzione edificante.

[In foto: F. Goya, I disastri della guerra, incisione]


[1] Esiodo, Le opere e i giorni, trad. di L. Magugliani, Rizzoli, Milano 2021, pp. 107-108.

[2] T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 101.

[3] N. Loraux, La città divisa, citato in A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, Laterza, Roma-Bari 2021, p. 18.

[4] Il lessico romano per definire la guerra civile in realtà è molto vario e giuridicamente fine, come la civiltà che l’ha prodotto. Per un’analisi più dettagliata si veda A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., pp. 21 e ssg.

[5] Platone, La Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 184-185.

[6] Ho ripreso qui un’analisi linguistica schmittiana che ben si attaglia al passo platonico (v. C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 2013, p. 111). Va ricordato tuttavia che l’analisi semantica dei termini πολέμιος/ ἐχθρός ha messo in luce come il loro uso più frequente attesti piuttosto due significati non così chiaramente distinguibili. Si veda, per approfondire, M. Morani, Il «nemico» nelle lingue indeuropee, in AA. VV., Amicus (inimicus) hostis. Le radici concettuali della conflittualità “privata” e della conflittualità “politica”, in Arcana Imperii, vol. 25, a cura di G. Miglio, Giuffrè, Milano 1992, pp. 7-83.

[7] C. Schmitt, Le categorie del politico, cit., p. 108.

[8] Ivi,p. 109.

[9] «Pretendere seriamente dagli uomini che essi uccidano altri uomini e che siano pronti a morire essi stessi perché fioriscano i commerci e le industrie dei sopravvissuti o perché prosperi la capacità di consumo dei propri nipoti è pazzesco e insensato», ivi, p. 133.

[10] A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., pp. 111 e ssg.

[11] G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (1908), Duncker & Humblot, München und Leipzig 1922, p. 186. Per Simmel il concetto di unità ha un duplice senso: da una parte l’unità è l’accordo e l’unione di elementi sociali, di contro alla loro divisione, separazione e discordia, dall’altra invece l’unità è la sintesi complessiva di persone, energie e forme di un gruppo, la cui totalità non solo include relazioni uniformi ma anche relazioni antitetiche. Il lavoro del negativo ha un ruolo parimenti importante a quello del positivo nelle relazioni sociali e non è pensabile una società senza antagonismo.

[12] In vista di una durevole alleanza tra le parti, la presenza di un nemico riconosciuto da tutti è l’occasione più favorevole per unire individui che hanno poco in comune. Ivi, p. 243.

[13] A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., pp. 124 e ssg.

[14] Ivi, pp. 143 e ssg.

[15] G. Simmel, Soziologie, cit., pp. 205-206.

[16] Ivi, pp. 236-239.

[17] È naturalmente riduttivo parlare della guerra civile in termini di contrapposizione di due parti. È noto che, nel contesto di un conflitto così endemico, continuano a verificarsi episodi di violenza causati da moventi tutt’altro che politici, che tuttavia sono difficilmente distinguibili dal conflitto politico in quanto, appunto, ogni attore è obbligato a indossare una maschera. D’altronde, questo accade in una situazione nella quale la violenza privata e quella pubblica non sono più distinte, poiché non c’è alcuna autorità preposta a legittimare la violenza in suo nome. A questo si aggiunga l’ingerenza di attori esterni alla comunità politica che hanno interesse a prendere posizione all’interno del conflitto. Si veda A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., pp. 169 e ssg.

[18] C. Schmitt, Le categorie del politico, cit., p. 201.

[19] La neutralità come isolamento si rivela insostenibile durante il conflitto: non avere amici, evitando di prendere posizione, significa avere solo nemici. Di più: non aver deciso da che parte stare può rivelarsi rischioso anche dopo il conflitto, alla resa dei conti, dacché l’indifferenza verso il bene della propria comunità non è bene né dal punto di vista morale né da quello politico (A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., pp. 200-203).

[20] L’argomentazione suona così: se il nuovo stato sarà ellenico e sarà stato pacificato, nessuno tra i suoi cittadini potrà essere chiamato nemico. Difatti, come il cittadino insorto era Elleno prima, lo sarà anche adesso: il suo dissenso muoveva già nella direzione di una riconciliazione (Platone, La Repubblica, cit., p. 185). Questo elemento della riconciliazione fa pensare comunque a un superamento sostanziale dell’ordinamento precedente, nonostante l’insistenza sul permanere dell’identità del popolo.

[21] M. Weber, Economia e società, vol. III, Sociologia del diritto, citato in A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., p. 260.

[22] P.P. Portinaro, I conti con il passato. Vendetta, amnistia, giustizia, Feltrinelli, Milano 2011.

[23] A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., pp. 256 ssg.; P. P. Portinaro, I conti con il passato, cit.

[24] P.P. Portinaro, I conti con il passato, cit.; A. Colombo, Guerra civile e ordine politico, cit., pp. 254-255 e 273.

[25] La legittimità giunge solo alla fine del processo, una volta che si sia definito il monopolio della forza: non c’è legittimità senza effettualità.

[26] H. de Montherlant, La guerre civile (1965), citato in G. Miglio, Le regolarità della politica, Giuffré Editore, Milano 1988, p. 763.

[27] G. Miglio, Guerra, pace, diritto. Un’ipotesi generale sulle regolarità del ciclo politico (1981), in Id., Le regolarità della politica, cit., p. 776.

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