Non ti ho promesso un giardino di rose

Recensione a:

Joanne Greenberg
Non ti ho mai promesso un giardino di rose
Prefazione di G. Del Missier
Traduzione e introduzione di Cecilia Iannaco
L’Asino d’oro Edizioni, Roma 2015
«BiosPsychè – La memoria/3»
Pagine 315
€ 18,00

di Enrico Carmelo Tomasello

Furii aprì le braccia in un sospiro: «Oh mio Dio!
Non bastava tu fossi malata, sei pure adolescente!».
«E allora?»
«E allora non ci si può fare niente! Devi comportarti come senti,
con le tue teatrali parodie e tutto il resto! Ma, per favore,
aiutami a capire dov’è la malattia, che cerchiamo di combattere con tutte le nostre forze,
e dove è, invece, l’adolescenza,
segno indiscutibile che appartieni alla Terra
al cento per cento e che presto sarai donna» [1].

Nel profondo dialogo tra la dottoressa Frieda Fromm-Reichmann e la sua giovane paziente Deborah Blau si snoda il testo di J. Greenberg che potremmo collocare a metà tra la produzione letteraria-romanzesca ed il resoconto clinico. In questo tentativo di delinearne i contorni per una lettura comune, s’inserisce una personale riflessione sul romanzo. Senza alcuna pretesa di essere un contributo di carattere specialistico o l’eziopatogenesi della schizofrenia[2] come malattia mentale da imputare all’organo cervello, ma condividendo l’idea secondo la quale è necessario considerare il paziente nella sua interezza come essere umano e non come quel caso di; svincolandosi dal rischio di idealizzare tutto quello che viene detto o scritto dai pazienti che convivono con uno stato patologico.

La storia che l’autrice offre al lettore è autobiografica. Tratteggia la somma di una serie di crisi che affronta la protagonista e che invitano ad una riflessione sul significato della sanità mentale, distinguendo l’elemento patologico che determina un disturbo mentale in una fase difficile della vita umana come l’adolescenza.

Il libro della Greenberg prende le mosse dal giorno in cui i genitori di Deborah, ovvero Jacob e Esther Blau, conducono la ragazza nella clinica psichiatrica di Rockville al Chestunt Lodge (nel Maryland) in cui dovrà iniziare e svolgere il trattamento psicoterapeutico con la dottoressa Frieda (successivamente denominata Furii). Il rapporto con il mondo esterno è problematico per la giovane ragazza che soffre di schizofrenia. Vivendo un disturbo che la paralizza di fronte alla realtà, preferisce rifugiarsi in un mondo da lei inventato, il Mondo di Yr, del quale è sia regina che vittima.

«Un tempo – è strano pensarci adesso – gli dei di Yr erano come degli amici: discreti e generosi, condividevano la sua solitudine. Al campo estivo dove era odiata, a scuola dove la sua stranezza la isolava sempre più nel corso degli anni, Yr diventava più importante tanto più profonda si faceva la sua solitudine. Gli dei allora esseri spensierati ed allegri che a lei piaceva incontrare di quando in quando, come numi tutelari. Ma poi qualcosa cambiò e Yr si trasformò da qualcosa di bello e rassicurante in un senso di panico e dolore. Deborah fu costretta a una lenta sottomissione: dal rango di sovrana dei regni sfavillanti di Yr, si ritrovò prigioniera di oscure galere».[3]

A Yr esistono alcune figure che regolano la convivenza ed i rapporti con l’esterno, come: il Censore, il Coro, Lactamaeon, Anterrabae, Idat. Ognuna di queste ha un ruolo strategico, comunica diversi stati d’animo a Deborah che somatizza tutto ciò che avviene all’interno del suo mondo. Le metafore ed il lessico del Mondo di Yr emergono gradualmente durante i colloqui con la dottoressa Frieda, dato che «nel corso degli anni le era capitato di avere pensieri e vivere situazioni che stentavano a trovare una loro espressione sulla Terra mentre fra gli abissi, le pianure e i picchi di Yr risuonava un lessico che offriva voce alle sue angosce e ai suoi momenti di grandezza»[4]. Persino la scansione temporale subisce dei mutamenti, poiché il tempo viene misurato seguendo il susseguirsi dei processi che hanno luogo all’interno della sua mente. Esiste anche una lingua del tutto differente per il Mondo di Yr: l’yri, una lingua ricca di neologismi e termini derivanti dal latino, francese e tedesco. L’inglese viene invece impiegato solo per il mondo reale. Come dice Deborah Blau: «L’inglese è per il mondo…per ricevere odio e delusione. L’yri per ciò che deve essere detto»[5]. Assistiamo così ad una dicotomia dialogica continua tra i due mondi con cui la protagonista entra in contatto, poiché esistono delle leggi per cui il Mondo di Yr non deve mai contaminare il mondo reale e viceversa. Quando ciò avviene, Deborah viene punita da se stessa attraverso le parole del Censore che limita ogni contatto col mondo esterno. Con le parole dell’autrice: «Non poteva più correre il pericolo che qualcosa di così tremendo potesse essere svelato e fu per questo che quella notte il Coro al gran completo aveva popolato il Mondo di Mezzo: erano giunti gli dei e i demoni di Yr, le ombre e gli spettri della Terra e avevano eletto il Gran Censore che si frapponesse fra le parole e le azioni di Deborah per proteggere il segreto dell’esistenza di Yr»[6].

A ciò andrebbero aggiunti i diversi episodi di autolesionismo, vissuti come atti di appartenenza al mondo dove la sofferenza viene desiderata come mezzo per ottenere la cittadinanza nel mondo reale, e il conseguente trasferimento al reparto “Violenti”. In cui incontrerà Lee una donna psicotica che crede di essere la falsa moglie dell’ex re d’Inghilterra Edoardo VIII (il re che aveva rinunciato al trono) ed altre pazienti della clinica (Miss Coral, Helene, Sylvia, Carla ed altre) le quali generano contemporaneamente ispirazione, angoscia e curiosità. Tra queste il caso rilevante di Doris Rivera una giovane donna che era guarita dalla malattia mentale ed era riuscita a “farsi una vita”, terrorizza Deborah che dissimula a se stessa la paura della verità, la paura di poter guarire. Il “Piccolo Forse” è la chiave di volta per comprendere appieno il significato di queste pagine. Infatti per molte di loro la grande paura non era rivolta alla malattia ma verso l’ansia per la possibilità della guarigione. Come avrebbe vissuto Deborah senza il mondo di Yr? Con chi avrebbe condiviso le sue emozioni? Che fine avrebbero fatto tutti i termini in lingua yri inventati da lei per combattere l’ineffabilità del suo mondo interiore?

La dipendenza dalle proprie paranoie, il nichilismo assoluto ed il terrore reale di fronte alla sensazione di vuoto abissale sono la matrice del romanzo autobiografico di J. Greenberg. La quale descrive alcuni episodi in cui Deborah si trovava di fronte ad un enorme vulcano con una paura paralizzante e con allucinazioni olfattive, uditive e tattili.  Ad esempio le sue bugie erano localizzate in un luogo del Mondo di Yr denominato “la Palude della Paura” nella quale un giorno l’aveva condotta Lactamaeon per farle vedere come i mostri e i corpi dei suoi incubi si erano accumulati lì per anni.

Nel mondo di Yr, che minaccia e procura sofferenza a Deborah, esiste una parola (tankutuku) per indicare quando una persona è esposta agli elementi che la circondano senza protezione; mentre la parola nelaq vuol dire “senza occhi per vedere”. Quando arriva qualcuno di nuovo nella clinica le crisi nelle pazienti si moltiplicano: Deborah (spesso chiamata Uccello-Uno dai personaggi del mondo di Yr) all’arrivo di un nuovo gruppo di tirocinanti crolla in una nuova crisi e diviene una nemica di Yr, una nelaq tankutuku. Questo momento centrale nella storia della sua malattia mentale la induce a parlarne con la dottoressa Frieda durante una delle sedute e la dottoressa le risponde: «Ascolta – disse Furii – non ti ho mai promesso un giardino di rose. Non ti ho mai promesso una giustizia infallibile […] Non ti ho mai promesso né felicità, né tranquillità. Posso però aiutarti a essere libera per poter poi combattere per queste cose. Ciò che posso offrirti è soltanto una sfida e stare bene significa poterla accettare e portarla avanti sfruttando le tue possibilità»[7]. A cui aggiunge: «C’è molto di più – le disse Furii – e noi andremo avanti fino a che non capiremo tutto. Quando avremo finito, se davvero lo vorrai, potrai scegliere se andare a Yr. Ma voglio offrirti la possibilità della scelta, una scelta che sia autentica e consapevole»[8]. La risposta di Deborah la ritroviamo al colloquio successivo nel quale domanda: «“E se invece lotto ancora, per cosa combatto?” “Per niente di facile e gratificante. Te l’ho detto già l’anno passato e anche l’anno precedente. Lotti per poter scegliere, per commettere i tuoi errori e vederne le conseguenze. Lotti per capire da sola cosa siano l’amore e la sanità mentale, per avere un io valido con cui cominciare a vivere”»[9].

Essere guariti dunque significa saper scegliere, essere nelle condizioni di poterlo fare ed avere un io valido. Solamente per mezzo di quest’ultimo è possibile superare lo scontro tra i due mondi in cui avviene un capovolgimento logico per il quale la sanità mentale è l’orizzonte desiderato e contemporaneamente temuto mentre la malattia è fonte di angosciosa sicurezza. Una schiera di contraddizioni ed espressioni ossimoriche controllano la vita psichica di Deborah. Per lei «il suo nefasto destino non era così difficile da sopportare come il piccolo Forse»[10]. Per queste ragioni le pazienti del reparto Violenti riconoscono i punti deboli delle altre persone e sanno quale peso abbia nelle loro vite il dolore che custodiscono.

Esiste un altro termine, la parola “nganon” che in yri significa: l’insieme di cultura e ambiente, specifico di ogni individuo. Il Nganon di ognuno attira a sé altri essere umani con le stesse difficoltà, come se il disturbo mentale cercasse di riprodursi e contaminare l’altro. Quello di Deborah e di alcune delle ragazze ricoverate nella clinica è diverso dal resto della collettività che popola il mondo esterno. Parafrasando un’espressione, che si ripete più volte nel testo, proveniente dal Mondo di Yr, è come se non fosse una di loro, e non appartenesse a quel mondo.

La non appartenenza ad un mondo conduce ognuno di noi a credere di avere il monopolio della sofferenza. Crediamo che nessuno possa realmente comprendere il peso specifico del nostro dolore e che la nostra situazione sia la condizione di sofferenza per eccellenza.

È significativo inoltre che nella lingua yri non esista un termine per dire “grazie”, come se non fosse necessario ringraziare in quel mondo di pressioni, senso di colpa e vittimismi.

Ancora una volta impariamo dal romanzo che guarire da un disturbo psichico significa riuscire a guardare con occhi nuovi la realtà esterna, comprendere la potenza della nostra mente e la misura delle devianze che possono corromperne la visione delle cose.

Per concludere, Non ti ho mai promesso un giardino di rose è un’opera luminosa nei suoi contenuti oscuri perché la demistificazione della realtà fittizia del Mondo di Yr, avviene per mezzo della luce che si propaga durante i colloqui con la dottoressa Fried. Perché comprendiamo che nel delirio schizofrenico di Deborah Blau c’è un latente desiderio di un Voi che rappresenta l’assenza dell’Altro. Che la depressione, oltre ad essere una grave forma di psico-patologia, è una deformazione della nostra visione del reale che svuota tutto ciò che ci circonda e lo priva della sua sacra narrazione. Nella luce dell’altro che si manifesta a noi troviamo la nostra redenzione, nella possibilità di senso abbiamo le epifanie di ogni significato ed alla luce di questi riflette sul nostro volto nuovo e rigenerato. «Fu a quel punto che a Deborah tornò in mente cosa fosse accaduto la sera precedente: rivedeva le forme e i colori che infondevano un nuovo significato, un nuovo senso alla vita»[11].

La grande lezione di questo romanzo risiede nella possibilità di guarigione totale come orizzonte ultimo verso cui tendere, nella ricerca del perfetto equilibrio mentale come costa a cui tendiamo lo sguardo ma che mai arriveremo a lambire. Nelle parole della dottoressa Fried riponiamo il senso ultimo del libro in questo messaggio: «Adesso voglio solo dirti una cosa: misura l’odio e la vergogna che provi adesso. La loro misura corrisponde alla tua possibilità di amare e di stare bene»[12].


[1] J. Greenberg, Non ti ho mai promesso un giardino di rose, L’Asino D’oro, Roma 2015, p. 180.

[2] «Termine psichiatrico coniato da Eugen Bleuler per designare una classe di psicosi endogene funzionali, a decorso lento e progressivo […] Introducendo il termine schizofrenia (dal greco σχίζω “scindo”, e φρήν, “mente”), Bleuler intende mettere l’accento sul tratto considerato tipico della schizofrenia, che è la dissociazione (Spaltung) in parti reciprocamente indipendenti della vita psichica», in U. Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia, Feltrinelli, Milano 2018, p. 1138.

[3] J. Greenberg, Non ti ho mai promesso un giardino di rose, cit., p. 59.

[4] Ivi, p. 51.

[5] Ivi, p. 60.

[6] Ivi, p. 17.

[7] Ivi, p. 120.

[8] Ivi, p. 129.

[9] Ivi, p. 218. Il corsivo è mio.

[10] Ivi, p. 156.

[11] Ivi, p. 226.

[12] Ivi, p. 198.

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