Sogni fatti in Sicilia. Pirandello, Brancati, Sciascia

Recensione a:

Giuseppe Savoca
Sogni fatti in Sicilia. Pirandello, Brancati, Sciascia
Leo S. Olschki Editore, Firenze 2022
Pagine VIII-206
€ 25,00

di Enrico Palma

Quello di Savoca è un vero e proprio percorso narrativo all’interno di alcuni dei maggiori scrittori siciliani del Novecento, che tanto hanno influito nella cultura italiana ed europea. Ogni viaggio, tuttavia, ha bisogno della sua stella, e l’autore sceglie il sogno: attraverso una sapiente ricognizione testuale (incroci, analogie e sovrapponibilità) e il racconto delle opere su cui medita, propone al lettore un progetto critico ed ermeneutico che va ben oltre la parzialità del punto di vista d’elezione, restituendo con ciò un’interpretazione complessiva, soprattutto di Brancati e di Sciascia. Nella geometria del volume, a ogni opera presa in esame corrisponde una diversa articolazione del tema generale, facendo in modo che il risultato diventi un mosaico della vita di cui il sogno, per altro, è per certi aspetti evento sì marginale ma influentissimo. Insieme al respiro del grande critico troviamo allora in questo studio l’esercizio del teoreta, del metafisico, che ai confini della vita cosciente e consapevole di sé si interroga sul destino della vita stessa, laddove l’esistenza si appresta alla sua fine e, come ci insegna il Socrate del Fedone, possono farsi solo congetture oniriche e immaginifiche.

La traccia iniziale è pirandelliana: l’onirismo dell’agrigentino è studiato in alcune, singolari manifestazioni della sua opera a seconda delle posizioni metafisiche declinate al suo interno, ma «in termini generali, la parabola pirandelliana, in relazione all’onirismo, si potrebbe anche rappresentare come un percorso che prende le mosse dal motivo ancora romantico dell’evasione in un “paese dei sogni”, attestata, ad esempio, dalle poesie, per giungere a una sorta di dilatazione onirica in cui lo spazio del sogno tende a interferire in maniera invasiva sulla realtà, confondendosi con essa» (p. 2). Per quanto riguarda Pirandello, non è del tutto esagerato affermare che nel suo caso si tratta di un’epistemologia incerta, che come Savoca riporta va nella direzione di una intercambiabilità assoluta tra realtà e sogno, uno stato di indecidibilità per cui non solo la verità ma anche la realtà da cui essa dovrebbe promanare subiscono un crollo dei riferimenti, ben lungi tuttavia dalla scontata corrispondenza Pirandello-Freud che l’autore respinge senza mezzi termini.

In questo modo, l’analisi di Savoca si fa più densamente filosofica: distanziandosi dalle facili lusinghe del freudismo, emerge l’originalità letteraria e teoretica di Pirandello, il quale impianta questa «ambivalenza ontologica tra lo stato della veglia e quello del sogno» (p. 10) nella sua visione del mondo, della letteratura e della vita: queste ultime sono le istanze metafisiche a cui, seguendo la suggestione di Savoca, si può attribuire un isomorfismo basale di cui il sogno rappresenta l’elemento strutturante. A ciò si unisce l’irrinunciabile frequentazione pascaliana che, oltre ad avere corrispondenze testuali anche per il tema onirico, ha evidentissimi rimandi tematici all’infinito e al nulla.

La più parte del volume è comunque dedicata a uno dei figli illustri della maestria pirandelliana, quel Leonardo Sciascia nei rispetti del quale il sogno viene sezionato da Savoca con una ricognizione quasi integrale della sua opera, mettendo in evidenza per ciascun caso considerato una prospettiva diversa. L’attraversamento dell’opera sciasciana è segnato da una grande vicinanza tematica, che rende le riflessioni più intime e care: voglio dire che se è vero che i grandi filosofi e i grandi scrittori hanno un solo pensiero da pensare, e lo è altrettanto per Sciascia riguardo all’avere (ri)scritto sempre lo stesso romanzo, il tema onirico può costituire un fil rouge, il principio rivelatore che meglio di tutti gli altri può esprimere la poetica disillusa, fatalistica ma mai intellettualmente rinunciataria del racalmutese.

Si può tentare di riassumere la panoramica di Savoca prelevando poche ma significative tappe: il sogno è la rappresentazione dell’evasione, della fuga, come il sogno dell’America e di una vita più giusta; il sogno come desiderio che le promesse politiche e sociali vengano realizzate e non frustrate; il sogno come storia in grado di ricordarsi delle vittime e prefigurare un riscatto nel sapere, nella società, nelle istituzioni (soprattutto quella ecclesiastica di cui Sciascia, com’è noto, non esita a rilevare le storture sia storiche che contemporanee); il sogno come caduta, quella sospensione nell’abisso che era kierkegaardiana ma prima di lui ovviamente post-edenica; il sogno come incantamento ed enigma che prelude alla sfiducia nella scienza e nel progresso a ogni costo; il sogno di una giustizia e di un’equità che hanno la più che probabile sembianza di una visione laica della Gerusalemme celeste.

Tra le tante articolazioni del sogno, così come traspaiono dalla lettura di Savoca, preferisco fare una scelta e cogliere un tema che, retrocedendo a Brancati, permetterà a mio avviso di comprendere perché questo è un libro importante. Credo infatti che nel ragionare critico dell’autore trovi posto una delle riflessioni tra le più alte che si possano formulare sullo statuto della letteratura, a cui i sogni siciliani e dei siciliani contribuiscono ad abbozzare una risposta. Mi riferisco a tre luoghi delle analisi di Savoca, che cito per provare a meditare su di essi: «Il sogno è alimentato dalla letteratura, ed è forse sogno anche la stessa letteratura» (p. 132). Tale è la chiusura del cerchio secondo l’autore in corrispondenza del Candido, il sogno parigino come sineddoche della letteratura in quanto tale, che non è un sogno espatriato in Francia ma un modo di rendere letteraria la vita à la manière di coloro che viaggiando in Sicilia ne hanno fatto un sogno letterario (penso, su tutti, a Maupassant).

Non è con il giardino di Voltaire che Sciascia conclude il suo libro, ma con una città, la quale assurge appunto a vita resasi letteratura tramite un sogno metafisico (e mi riferisco, con un collegamento ovviamente solo analogico, al Kant che conclude il suo Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik proprio con il giardino del Candide), la cui definizione, su uno sfondo barthesiano, rimetto ancora a Savoca: «Nelle opere di Sciascia si registra, come s’è accennato, un duplice progresso, che è quello della parola verso la cosa e l’altro della cosa verso la parola. Al centro di questo percorso si colloca, spesso nei punti più alti delle singole opere, la parola sogno. Tutto il lavoro analitico che si è fatto nelle pagine precedenti potrebbe situarsi all’insegna della prima direzione, e cioè di quella che va dalla parola alla cosa; ma in realtà si tratta in qualche modo di una astrazione analitica che tende a ri-convergere nella sola parola» (p. 185). Al di là di qualunque debito, l’istinto letterario di Sciascia si mostra in questo flusso dalla parola che germina dal sogno alla cosa, che altro non è che solidificazione della realtà in letteratura. Il sogno è la schiuma dell’incontro tra due onde governate dalla stessa marea che è la letteratura, rispettivamente quella della realtà e della parola, che cercano l’una nell’altra di significarsi, pur riconoscendo, in ogni caso, la primazia alla seconda, come l’autore giustamente ricorda.

Ma il sogno è stretto parente della morte, come si evince dalle pagine finali in cui Savoca riporta e commenta il sogno di morte di Sciascia (uno dei pochissimi che abbia mai rivelato pubblicamente): la letteratura che è forse il sommo esercizio con cui cerchiamo di edificare, allitterando, un tempio fuori dal tempo in cui dare corpo a un’idea di resurrezione, come sapeva del resto un altro grande francese, Proust. «Il morire dei sogni comincia col perdere la gioia della vita e delle cose, col sentire i propri passi che vanno verso la morte» (p. 195). Non appena lo scrittore, morendo, si sarà distaccato definitivamente dalla vita, forse i suoi sogni, la sua letteratura, diventeranno finalmente puri: egli sarà divenuto «il cadavere di un sogno» (ibidem. Il verso è tolto da Muerte del sueño di Pedro Salinas, tradotta dallo stesso Sciascia e scelta dall’autore come conclusione del libro), che come aria si librerà sulle sue spoglie. Ancora con Proust, potremmo dire che la letteratura è una questione di dormiveglia: nel celebre incipit della Recherche, il Narratore racconta del suo risveglio, di uno stato liminare e intermedio, alludendo con ciò al fatto che la letteratura è una dimensione ulteriore a cui forse solo con la morte e la trasformazione di noi stessi in scrittura si può accedere completamente.

Mi richiamo allora, in conclusione, agli splendidi rilievi di Savoca sulla luce ne Gli anni perduti di Brancati e nel rapporto dello scrittore con Guglielmino, il poeta in versi vernacolari nonché suo stimato professore: la luce che è gioia della vita in quanto poesia, che può essere di Lisa personaggio (con il cui sogno notturno di Natàca/Catania si conclude il romanzo) e di tutti noi. E anche del bambino a cui questo libro è dedicato e per il quale l’esistenza nell’infanzia è prima di tutto fantasia e immaginazione, ma che in queste considerazioni ultime sulla morte, sul sogno e sulla letteratura, diviene metafora di grande vita. Viene dunque da pensare al Keats del sogno poetico di Sleep and Poetry, che avrebbe potuto ben figurare come epigrafe in qualcuno dei capitoli del volume, di cui riporto, chiudendo, i versi finali: «So that the morning light / Surprised me even from a spleepless night; / And up I rose refresh’d, and glad, and gay, / Resolving to begin that very day / These lines; and howsoever they be done /, I leave them as a father does his son»[1].


[1] J. Keats, Sleep and Poetry, in Poesie, a cura di S. Sabbadini, Mondadori, Milano 2021, vv. 399-404, p. 118. «Così mi sorprese la mattina luminosa / D’una notte insonne: pieno di vita, / Allegro, colmo d’ardente affetto, / Deciso, quel giorno, a dar piglio / A questi versi stessi, che ora congedo, / Comunque sian fatti, come un padre saluta il figlio».

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