di Giovanni Altadonna
Taormina è in una pozione magica, in un angolo di paradiso che può dare l’illusione che la vita non sia morte in divenire, e che la morte non sia che un’altra vita. Una dimensione onirica in cui, nondimeno, la creatività e la fantasia sono cooptate per realizzare un evento estremamente concreto: ogni anno, con il contributo di artisti e studiosi fra i più noti del panorama nazionale, un festival letterario offre occasioni di incontro, di dialogo, di scambi di idee e di immagini, facendo della perla dello Jonio una perla culturale. Questo è TaoBuk, giunto nel 2022 alla dodicesima edizione, il cui tema è la “Verità”, percorsa nelle sue problematiche implicazioni fra letteratura, arte, scienza. Una parola filosofica, innanzitutto, la quale invita a riflettere sul ruolo della comunicazione, sulla natura della conoscenza, sulla funzione del dubbio.
Data questa premessa, riteniamo che nessuno meglio del filosofo della biologia Telmo Pievani avrebbe potuto illustrare i complicati intrecci fra scienza e filosofia in relazione al tema del Festival. La verità nella scienza (con la “v” minuscola, come ricorda il relatore) è stata oggetto della conferenza dal titolo “Verità prêt-a-porter. Il senso del vero e la pratica del dubbio”, una lectio magistralis professata presso l’Hotel Villa Diodoro di Taormina il 18 giugno 2022 di fronte a un numeroso uditorio composto in gran parte da giovani studenti con i loro insegnanti. Il Prof. Pievani ha tracciato un itinerario attraverso l’epistemologia, la storia della biologia, la sociologia della scienza, la storia dell’ambiente mostrando le complesse relazioni fra scienziati, dati, evidenze; riuscendo nella non facile impresa di coinvolgere appassionatamente un pubblico di non specialisti in argomenti, di certo, non semplici da comunicare e piuttosto complessi (in una temperie politica e culturale che rigetta la complessità, ad essa preferendo piuttosto la polarizzazione dei “dibattiti” fra scelte di campo ideologiche). A conferma di ciò, alla dissertazione è seguito un momento di confronto sui temi affrontati, con diverse domande da parte degli astanti.
L’intervento di Pievani si è appunto concentrato sulle difficoltà nella comunicazione della scienza, prendendo a pretesto un celebre scambio epistolare fra un ottimista e rampante Thomas Henry Huxley e un cauto e prudente Charles Darwin: mentre il primo rassicurava il secondo circa il successo della sua ultima apologia della teoria evoluzionistica, Darwin ammoniva il collega circa la tenacia con cui la mente umana si ostina a respingerla. Darwin effettivamente aveva ragione, perché oggi abbiamo nuovi dati a supporto di ciò che egli un secolo e mezzo fa aveva correttamente intuito: ovvero che la teoria dell’evoluzione è controintuitiva, in quanto rifiuta le spiegazioni teleologiche. D’altra parte, noi esseri umani siamo spontaneamente condotti a ragionare in modo teleologico, attribuendo intenzioni e finalità anche a scenari contingenti e oggetti inanimati. Nell’evoluzione del cervello umano il ragionamento teleologico è stato infatti premiato dalla selezione naturale, in quanto attribuire un rumore sinistro a un predatore in avvicinamento piuttosto che a una folata di vento poteva significare la differenza fra la vita e la morte. E pazienza se molte volte si trattava invece di un semplice fruscìo dei rami: ragionare in modo teleologico e animistico[1] in passato si è rivelata una strategia adattativa vincente.
Il risultato di questo processo sta nella naturale predisposizione, nell’era dell’ipertrofia comunicativa, a credere alle fake news e a ogni sorta di ipotesi complottiste. Il paradosso dell’evoluzione (per cui un processo evolutivo ci ha condotto a essere altamente diffidenti verso la stessa teoria dell’evoluzione) ha conseguenze di lunga gittata nel mondo di oggi: tali per cui la nostra mente è molto suscettibile a narrazioni in cui l’intenzione, la fatalità, la necessità hanno un ruolo determinante, rispetto a narrazioni dove dominano la causalità materiale, la contingenza e la casualità. La diffusione esponenziale delle false notizie e l’estrema capacità di persuasione che le accompagna provocano, fra gli effetti più vistosi: l’appiattimento della complessità delle questioni in dicotomie quali vero/falso e giusto/ingiusto; la crescita dei gruppi social quali “casse di risonanza” dell’unica presunta “Verità”; una sfiducia nelle istituzioni e verso le fonti ufficiali di comunicazione. Tutto questo invita a ripensare le strategie di comunicazione della scienza, la quale, pur con tutti i limiti propri di ogni impresa collettiva umana, è uno degli strumenti intellettuali più importanti di cui disponiamo.
La prima strategia è il cosiddetto debunking, ovvero l’impegno a smentire sistematicamente le informazioni sbagliate. Tuttavia, ciò non è sufficiente: occorre infatti non solo spiegare che una certa notizia è falsa, ma anche spiegare perché. Smentire senza smontare una fake news può comportare una polarizzazione del dissenso. Bisogna che gli scienziati stessi facciano autocritica circa la propria responsabilità nella comunicazione della loro opera: impegnandosi nella presentazione non solo dei risultati delle ricerche, ma anche del processo (spesso costellato di insuccessi, false piste, battute d’arresto, serendipità inaspettate) che li ha condotti ad essi. È necessario rammentare che la scienza è un’impresa polifonica, è un lavoro collettivo fatto di dibattiti interni e fondato sul dubbio metodico e costruttivo. Nella comunicazione della scienza al grande pubblico, occorre che ogni scienziato sia portavoce della comunità scientifica, affinché il sano esercizio dei dibattiti accademici non venga percepito come sintomo di relativismo, con specialisti che propugnano a titolo individuale la propria “Verità”. Soprattutto, occorre ricordare che la scienza è il regno del possibile, della probabilità, non della certezza e della Verità con la “V” maiuscola. Financo i modelli non sono previsioni esatte del futuro, bensì approssimazioni della realtà; che pure, talvolta, possono fornirne un’immagine piuttosto attendibile. Un’immagine, a volte, sorprendentemente inquietante: e allora i modelli vengono ignorati, considerati troppo “pessimisti” o “catastrofisti”; per poi arrendersi all’evidenza quando è ormai troppo tardi. Basti pensare ai modelli di evoluzione climatica degli ultimi decenni, a proposito dei quali la voce della comunità scientifica è stata quella di una Cassandra inascoltata.
In una congiuntura storica che non abbonda in certezze, alla scienza si chiedono consolazioni, risposte definitive. Un passo importante nella comprensione di cosa è la scienza risiede nel comprendere che essa si fonda sulla consapevolezza socratica del sapere di non sapere; e, ancor più, nel non sapere di non sapere che sorge di fronte a scoperte totalmente inaspettate e non ricercate. La finitudine della conoscenza rispetto alla complessità del reale mostra una volta di più l’inquietante meraviglia dello stare al mondo.
[1] Questo termine è impiegato da Jacques Monod ne Il caso e la necessità per indicare l’«ipotesi secondo cui i fenomeni naturali possono e devono essere interpretati in definitiva nello stesso modo, con le stesse leggi, dell’attività umana soggettiva, cosciente e proiettiva» (J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea [1970], trad. di A. Busi, Mondadori, Milano 1974, p. 40).