di Giovanni Altadonna
Era il 26 giugno del 363, in prossimità del fiume Tigri. L’imperatore Giuliano, ferito in battaglia da un giavellotto persiano, moriva nella sua tenda, circondato dai suoi generali e dai suoi amici e ammiratori: una morte, si racconta, da filosofo e da saggio. Aveva solo 32 anni. Portava nella tomba i fantasmi di tutti gli Dei pagani, che erano state immagini costanti della sua vita e dei suoi sogni.[1]
(Carlo Sini)
In queste righe, evocative di un passato sideralmente distante, Carlo Sini fornisce un esempio suggestivo del fascino di ogni vita umana: declinazione unica della precaria condizione dell’esserci, che agisce, si relaziona e si conserva (per quanto tempo?) tramite il linguaggio; il proprio linguaggio, diverso dai codici semantici precedenti e posteriori. I fantasmi dell’imperatore Giuliano non sono i nostri. L’ultimo imperatore romano non cristiano – il quale, mentre criticava i filosofi cinici del suo tempo, pure condivideva con essi un orizzonte comune (l’amore per la sapienza) – può tuttavia essere posto a pretesto per riflettere su alcuni nostri fantasmi filosofici.
Contro l’essenzialismo, Sini sostiene in maniera opportuna che:
«”Reale” in senso stretto è l’incarnazione di questo corpo, erede di un passato infinito di avventure ed erede di innumerevoli vicende del lavoro comunitario strumentale e sociale, e soprattutto erede di infiniti discorsi concentrantisi in questo qui che accade».[2]
L’individuo non è l’ipostasi di un’essenza, bensì un «fascio di tropi»[3] storici, culturali, esperienziali, psicologici e linguistici, in una combinazione unica e non replicabile. L’imperatore Giuliano è “l’Apostata” per definizione, per ousia; eppure la sua vita non è quella di un’idea incarnata, come se l’epiteto attribuitogli dai cristiani possa bastare a riassumerne la figura. La sua vita è (stata) quella di un individuo particolare, di un accidente storico: in essa si raggruma la contingenza del vissuto, non la necessità dell’eidos.
A proposito del realismo filosofico (la dottrina per cui ad un universale debba corrispondere ipso facto qualcosa di reale) Sini decostruisce, sulla scorta di Nietzsche, «la credenza relativa alla corrispondenza delle cose reali e del mondo intero alle metafore linguistiche: una tipica ipnosi sociale del linguaggio che ancora in larga misura ci accompagna»[4]. Quanto tali parole siano fondate è evidenziato dalle ingenue materializzazioni delle facoltà cognitive ricorrenti nelle affermazioni (o nelle domande mal poste) di taluni scienziati, per cui (ad esempio) la tale area cerebrale è la “sede” della “memoria”. Asserzioni ingenue, in quanto formulate senza soffermarsi sull’elementare necessità di una definizione del termine “memoria” (si rammenti il ti estì socratico) e soprattutto senza la consapevolezza filosofica per cui il linguaggio non è “la realtà” nella sua rappresentazione fedele, ma un’approssimazione alla realtà intrisa di metafore e di significati metamorfici, soggetti a stratificazione storico-culturale e irrevocabile incertezza:
«Infatti le parole continuano a crescere e a mutare di senso, in un recupero appunto di memoria e in una contemporanea perdita o alterazione di senso progressiva. […] E poi però il salto ingenuo e inaccettabile, ovvero l’opinione scontata che le rilevazioni della tecnica sperimentale spieghino la memoria come è intesa dal senso comune e che ne siano anzi “causa”. Quello che, a mio avviso, dovrebbe fare lo scienziato è, molto semplicemente, dichiarare e descrivere ciò che effettivamente ha fatto e i relativi risultati osservativi e strumentali (perché è questo che ha fatto)».[5]
Evidenziando che «tutto il linguaggio è metaforico, è il primo fondamentale trasferimento da ciò che è a che cosa dico che è»[6], Carlo Sini sottolinea la spesso ignorata distinzione fra ciò che è e il discorso che intendiamo fare su ciò che è. Nel mezzo sta una nebulosa semantica, di fronte alla quale l’atteggiamento da assumere non è il relativismo, bensì un avveduto nominalismo:
«certo, in ogni indagine è dalle parole che dobbiamo partire, non però alla ricerca superstiziosa che si proponesse di trovare la cosa esattamente corrispondente alla parola. Si tratta piuttosto di rianimane nella parola e attraverso la parola le pratiche di vita, di esperienza e di espressione che l’hanno via via prodotta e attraversata, modificandone, arricchendone, impoverendone il senso. Anche alle parole accadono “adattamenti” e fenomeni, per così dire, di exaptation (nuovi usi di antichi sensi)».[7]
Qui, sulla nozione di exaptation, si innesta un nesso fra filosofia e storia naturale tale da completare e arricchire il dibattito metafisico sugli universali. Come nell’evoluzione biologica certi organi o comportamenti sono il risultato della cooptazione funzionale di caratteri preesistenti (per ragioni adattative diverse o per meri motivi strutturali), così anche nella storia del linguaggio avvengono rabberciamenti semantici e lessicali imprevedibili e curiosi di parole e di concetti; tali da sconvolgere ogni essenzialismo, tanto biologico quanto metafisico.
L’exaptation di cui è intriso il lessico filosofico è già rintracciabile proprio all’origine della disputa sugli universali: «Platone dice ousia e pensa “idea”; Aristotele pensa anche lui ousia, ma dice “individuo”. Per più di due millenni il gioco del pensiero si è preoccupato di stabilire chi dei due avesse ragione e dicesse la verità»[8].
Ciò mostra le potenzialità ma anche i limiti del linguaggio, soggetto a imperfezioni al pari di qualsiasi altro prodotto dell’evoluzione biologica e culturale:
«Potente e allusivo quanto vogliamo, meraviglioso strumento di capolavori letterari, il linguaggio umano è anche foriero di innumerevoli e sfinenti incomprensioni, di associazioni arbitrarie tra parole e significati, di generalizzazioni vaghe, di ambiguità lessicali e incongruenze semantiche, di irregolarità idiosincratiche di ogni tipo. Dalle sue imperfezioni sono scaturiti divorzi, rotture di amicizie, guerre, e opere teatrali. Infarcito di errori e lacune com’è, vi è persino chi dubita che il linguaggio si sia evoluto “per” farci comunicare. Forse all’inizio ha avuto piuttosto la funzione di mettere in ordine i nostri pensieri, di figurarceli in un ininterrotto dialogo interiore.»[9]
Che il linguaggio stesso, in quanto tale, non sia che un altro esempio di exaptation?
Al problema della vaghezza, linguistica od ontologica (l’ambiguità è del linguaggio? è della realtà? o di entrambi?)[10]; si aggiunge il «paradosso della Matrioska», per cui ogni asserzione sul mondo non può essere definita e definitiva; essendo inserita, al pari di enti, eventi e processi, in un intero in continuo divenire, nel quale «non esiste alcun elemento determinato che non sia quello che è solo in quanto in relazione strutturale e funzionale costante, e insieme provvisoria, col processo complessivo della Matrioska, all’interno del suo sommovimento metamorfico costante»[11].
A fronte dell’entropia della “realtà” fenomenica, così come della trasformazione (non necessariamente progressiva) delle conoscenze che l’uomo ha (o pensa di avere) su di essa, il carattere non definitivo delle “verità” enunciate sul mondo appare un paradosso solo nella misura in cui si individua, magari inconsapevolmente, un’equivalenza fra “realtà” (considerata oggetto di un’analisi obiettiva e valida a prescindere dall’osservatore) e “verità” (assunta a trasparente traduzione linguistica di tale realtà). Sini sostiene correttamente la necessità di affrancarsi da quella
«immagine ingenua e superstiziosa del ricercatore che sta (chissà come) di contro al mondo e ne scandaglia la «realtà vera». Il senso comune e il senso comune scientifico recalcitrano alla riduzione della «verità» del conoscere a un contemporaneo, costitutivo e sopra tutto irresolubile essere in errore in cammino e in transito; soprattutto recalcitrano alla differenza costitutiva tra verità e realtà. Affermare che le verità scientifiche non riguardano un immaginario mondo «reale», poiché camminano nel mondo reale (e solo in questo senso lo riguardano), suona relativistico e nichilistico.»[12]
E invece non vi è nulla di relativistico o nichilistico in questo. Piuttosto, ammessa un’ontologia la quale riconosca che «il tempo è l’altro nome dell’essere»[13], appare nichilistica ogni pretesa di immobilizzare la conoscenza e il divenire.
«La verità, ogni verità, è la figura di un transito o una figura che transita. Questo non la rende meno “vera”: anzi, […] di più»[14]. Su ciò convergono i sentieri della filosofia e della scienza, della storia del pensiero filosofico e scientifico. Di fronte alla finitudine della condizione umana, la stessa conoscenza ha bisogno di un’etica, fondata sulla volontà di sapere mai slegata dalla coscienza della propria ignoranza[15]: «Etica della conoscenza nel destino personale dell’esserci, con le sue figure vitali e i suoi fantasmi moribondi»[16].
Siamo ritornati all’inizio del nostro percorso, ai fantasmi moribondi del moribondo imperatore Giuliano. Ai suoi, uniamo i fantasmi transeunti degli uomini di ogni epoca. Anche i nostri.
Ringrazio di cuore Mattia Spanò e Sara Dell’Albani, cui devo la lettura delle pagine di Sini e Pievani oggetto di questa nota. A loro dedico, con affetto, le riflessioni da essa scaturite.
[In foto: Rovine di Delfi]
[1] C. Sini, Il giavellotto e una vita, «Nóema», 12, 2021, p. 4.
[2] Ibidem.
[3] Cfr. A.C. Varzi, Parole, Oggetti, Eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma 2001, pp. 49-52.
[4] C. Sini, Il giavellotto e una vita, cit., p. 3.
[5] C. Sini, T. Pievani, E avvertirono il cielo. La nascita della cultura, Jaca Book, Milano 2020, pp. 51-52.
[6] Ivi, p. 50.
[7] Ivi, p. 55.
[8] Ivi, p. 73.
[9] T. Pievani, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina, Milano 2019, pp. 149-150.
[10] Cfr. A.C. Varzi, op. cit., pp. 135-161.
[11] C. Sini, Il giavellotto e una vita, cit., p. 2.
[12] Ivi, p. 3.
[13] A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, p. 1.
[14] C. Sini, T. Pievani, E avvertirono il cielo. La nascita della cultura, cit., p. 76.
[15] Cfr. T. Pievani, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina, Milano 2020, pp. 271 sgg.
[16] C. Sini, Il giavellotto e una vita, cit., p. 4.