Il mito di Tolkien: sul fare e disfare i Misteri

di Luca Dilillo

Iniziamo con un gioco.

Dovendomi disporre all’ingrato lavoro del demistificatore, ho avuto modo di riflettere sull’origine e sul significato di questa parola così austera, mistificare. Attratto dal suo fascino, ne ho subito ricercato l’etimologia, che a prima vista parrebbe latina; ma con mia sorpresa ho scoperto una genesi molto più recente e artificiosa. Alla lettera, il suo significato d’uso corrente non sembra corrispondere a quello originale, dato che mystifier vuol dire mysterium facĕre, fare un mistero. Ora, noi sappiamo che il mistero non è certo un falso o un abbaglio: sebbene talvolta possa esserlo, si tratta in genere di un ambito di pura genuinità, di fede convinta; un terreno sacro e venerabile, da prendere molto sul serio: come spiegare questo scarto semantico? Dobbiamo rivolgerci alla storia.

La parola mystifier nacque per descrivere una serie di burle ai danni di un oscuro drammaturgo francese, tale Antoine-Henri Poinsinet, nato nel 1735 e morto annegato nel fiume Guadalquivir in Spagna, nel 1769. Pare che questo commediografo dalla breve vita e dalla bizzarra morte, per la sua eccessiva credulità, fosse lo sventurato bersaglio di inganni, scherzi e cattiverie; in uno dei peggiori gli si fece credere che il re di Prussia l’avrebbe reso precettore del suo erede se avesse abiurato il cattolicesimo per la confessione luterana… e il disgraziato divenne apostata. Così questo termine si riferisce a quello speciale ordine di misteri che piacciono tanto al Boccaccio, per intenderci: manigoldi creduti santi, donnaioli approfittatori che si spacciano per angeli del Signore, false reliquie, misteri finti, insomma: involucri sulla malizia, scherzose blasfemie. Tutto ciò che circonda questo verbo rimanda allo scherzo e alla levitas che solo con il tempo hanno lasciato spazio a gravitas e serietà. Ma se per un attimo mettiamo da parte l’uso corrente del temine per tornare alla sua fresca origine, forse renderemo onore alle intenzioni originarie della parola giocando con la leggerezza del mystifier primitivo. Giocando sul senso del fare e disfare misteri che non lo sono davvero, che in realtà sono burle.

Dove voglio arrivare? Il fatto è che nella diffusa smania odierna di demistificare luoghi comuni e falsità, desideravo non incappare nella solita foga demolitrice e in quell’eccesso di seriosità che operazioni di tal genere si portano dietro. Senza nessuna pretesa di svelare l’autentico Tolkien, ma solo provando a gettare sull’opera del grande autore inglese uno sguardo diverso e in buona parte personale, vorrei in aggiunta alla pars destruens che sempre accompagna – ahimè – questi tentativi, salvare il senso del mistero di cui è acerrima nemica una demistificazione presa troppo sul serio. Non tutti i mystères sono burle. Quelli che per i beffeggiatori del povero Poinsinet erano solamente vuoti inganni beffardi, per noi possono essere qualcosa di più che miti da sfatare, purificandosi nel fuoco sacro per riprendere la loro essenza di cose celate, che tali devono restare. Per questo motivo non mi basta demistificare, ma voglio ardentemente rimistificare – se mistificare è in fondo “fare misteri” – il mito di uno scrittore immortale, creatore di miti. Demistificare e rimistificare: disfare misteri che non sono veri misteri, ma imbrogli e raggiri; liberare e riabilitare la sacralità del mistero, senza eliminarlo ma anzi rafforzandolo nella sua purezza venerabile. Un nuovo significato – scherzoso – per il contrappunto tra queste due azioni.

Rifacciamo i misteri, ripristiniamoli dunque. O almeno proviamoci.

L’origine di questo articolo risale a diversi mesi fa. Avevo appena concluso la lettura di una delle opere del Professore che a lungo aveva atteso tra gli scaffali della mia libreria. Era La leggenda di Sigurd e Gudrún, una pubblicazione di due poemi originali di Tolkien ispirati alla famosissima leggenda germanica di Sigurd (Sigfrido) e i Volsunghi. Giunto alla postfazione all’edizione italiana di Gianfranco de Turris, mi ritrovo davanti questa frase: «Eppure, come abbiamo avuto occasione di rilevare presentando Il medioevo e il fantastico (Bompiani, 2003)[1], se non si conosce il Tolkien medievista, filologo e mitologo non si potrà mai capire appieno il Tolkien narratore, il “padre” della Middle-earth»[2].  Più avanti nella stessa postfazione si trovano altri riferimenti all’attività filologica e medievistica di Tolkien come “humus”, “preparazione” e “materiale preparatorio” delle sue opere fantasy più conosciute. Questo modo di intendere il lavoro letterario del Professore mi ha fatto pensare ai meccanismi che si innescano quando l’opera di un autore diventa fenomeno di massa. Potremmo definirla la maledizione del capolavoro: è visibile tutte le volte che un’opera specifica si innalza spiccando su tutte le altre, ma ancor di più quando alla fama immortale si aggiunge quella del grande pubblico. Tutte le fatiche dell’autore finiscono inevitabilmente per essere subordinate all’opus magnum, tutto finisce per diventare strumentale alla realizzazione di quell’unica opera catalizzatrice. Tolkien è stato vittima illustre – suo malgrado e per sua fortuna in maniera postuma – di questa maledizione. Come risultato, oggi ci tocca sentire che la sua intera attività di filologo, traduttore e professore di letteratura anglosassone è chiaramente una preparazione o, ancor peggio, l’unico modo per comprendere appieno la creazione del suo romanzo più conosciuto. Come se l’amore per lingue e linguaggi, per l’epica nordica e per le fiabe non avesse valore in sé. Come se tutto questo non avesse altro scopo che servire noi accaniti fans di The Lord of the Rings. Adesso, che per apprezzare un bel romanzo si debbano conoscere a fondo tutti gli interessi e i retroscena del pensiero del suo autore e non basti invece goderselo in santa pace è tutto da dimostrare – probabile che lo stesso Tolkien avrebbe avuto da ridire su questo.

Per quanto mi riguarda, la penso piuttosto diversamente: i multiformi e sfaccettati interessi e studi del Professore, le sue traduzioni, i suoi racconti per i figli, le sue poesie, canzoni e lettere, sono solo l’espressione della sua affascinante personalità; se davvero il loro scopo deve differire dal loro stesso esistere, allora potrà essere quello di farci approfondire la complessa figura dell’uomo Tolkien, non certo di rivelarci il senso di una sola opera. Se ci interessa capire Tolkien – e ciò non è per nulla obbligatorio – possiamo e dobbiamo accostarci alla totalità del suo fare letterario e intellettuale, in cui le lettere di Babbo Natale, l’allegra fiaba del fattore Giles di Ham, le sciocche canzoni di Tom Bombadil, l’edizione adattata in inglese contemporaneo del poema Sir Gawain and the Green Knight e il racconto dei figli di Húrin hanno uguale dignità; in cui nulla è preparatorio per qualcos’altro, ma tutto nasce dalla passione di un uomo, dal piacere dello studio e della creazione artistica. Tolkien ha scritto pagine bellissime di epica cavalleresca e critica letteraria; ha rielaborato la materia mitologica del mondo anglosassone e germanico; ha inventato e raccontato fiabe meravigliose, ironiche e divertenti. Ha fatto tutto questo perché amava farlo e soprattutto perché ne aveva voglia. Perché era un filologo, uno studioso di miti, un lettore, un narratore di fiabe: e amava ciò che faceva. Tolto un mistero fasullo, eccone uno più autentico: parafrasando il linguaggio ecclesiastico, il Mistero del Valore Intrinseco; quello del Puro Piacere del Fare.

Attorno a questa prima riflessione ne sboccia subito una seconda. Tra le mistificazioni più comuni del lavoro di Tolkien c’è quella di separare nettamente le sue tre attività principali: il professore filologo e mitologo, l’amante delle fiabe per bambini e l’autore di letteratura fantasy. Come se rispondessero a interessi differenti e non comunicanti. Come se fiabe e filastrocche non fossero conciliabili con la solenne carica accademica oxoniense e la loro esistenza non si dovesse ad altro che a uno spensierato passatempo – colpa imperdonabile! Come se i romanzi più famosi sulla Middle-earth fossero solo la parte alta di questa produzione da tempo libero. La ricerca spasmodica di significati nascosti e intenzioni superbamente intellettuali nell’opera di Tolkien perlopiù occulta il malcelato disprezzo verso una letteratura nient’altro che fantasy; sembra inconcepibile che uno stimato professore di letteratura anglosassone possa aver scritto per il solo gusto dell’epico e dell’avventuroso, senza avere lo scopo prioritario di mandare messaggi o esprimere una poetica usando il genere fantasy come mero strumento culturale. Non può essere un grande autore chi perde tempo dietro a favolette per bambini e bassa letteratura d’intrattenimento… O forse si è solo incapaci di vedere la perfetta unità dietro interessi esteriormente tanto diversi.

I tre aspetti di Tolkien – l’accademico-intellettuale, l’umoristico-fanciullesco e l’epico-fantastico – sono solo tre facce dello stesso dado: la cultura moderna può sentire realmente differenti una fiaba per bambini, l’epos letterario e un romanzo fantasy solo per un pregiudizio radicato, lo stesso per cui si giudica degno di merito il poema epico-cavalleresco onnipresente nelle antologie scolastiche, su cui si sono pianti fiumi di colto inchiostro, attribuendo minor valore alle fairy stories del folklore popolare; e ancor minore a quei racconti fiabeschi senza nobili natali – com’è il caso delle storie di Tolkien – troppo recenti e non abbastanza tradizionali per essere degni di attenzione letteraria. Ma tra epica e fiaba la differenza è solo apparente: come spiega il Professore, entrambe queste creazioni trovano la loro origine nella feconda attività poietica della fantasia. Questa naturale attività dello spirito umano dà vita e unità a ogni racconto fantastico, antico o moderno, dalla genesi corale o individuale. Perché di figli della fantasia parliamo in tutti i casi, che si tratti di epica, mitologia o fairies. Non dovremmo commettere l’errore di separare la fiaba dal mito, perché ambedue sono miti; la fiaba autentica non è un depotenziato adattamento per bambini, come può vedere chiunque legga le versioni originali di storie popolari come Cappuccetto Rosso e La Bella Addormentata nel Bosco. Ci sono gli archetipi, universali permanenti che parlano all’uomo, alla donna e al bambino di ogni epoca; e ci sono il male, il trauma e l’oscurità, come dev’essere in ogni racconto davvero mitologico.

In Tolkien questa evidenza è perfetta: l’amore viscerale per la fiaba ascoltata da bambino e poi raccontata ai propri figli si connette con naturalezza all’amore per i draghi e per gli eroi. Li unisce l’appartenenza comune al mondo di Faërie[3]: un mondo altro, creato e alimentato dalla fantasia. Non un mondo in cui evadere, ma uno da cui attingere significati sempre vecchi e sempre nuovi per leggere la storia umana e magari provare a cambiarla, o almeno a metterla in crisi; ma innanzitutto un mondo dove rigenerarsi tornando alla propria sorgente giocosa e spontanea – ingiustamente esiliata dal mondo adulto nel regno dell’infanzia.

Perfino gli interessi più strettamente accademici del Professore di Oxford formano un tutt’uno con il mondo del mito e della fiaba. Egli si preoccupa in fondo di una cosa sola, declinata in infinite sfaccettature: è il Mito. Studia i miti antichi del suo universo culturale – le leggende germaniche, scandinave, anglosassoni e finniche – li ama follemente, li traduce, ne cambia la forma, li analizza nelle sue conferenze e lezioni. E poi li fa nuovi, da vero successore di quegli arcaici bardi, di quei redattori e compilatori, bardo egli stesso. La sua opera è interamente una prosecuzione dell’incessante mitopoiesi dell’umanità, per natura creatrice di miti. Dai suoi modelli si stacca e ad essi si riavvicina, li segue alla lettera e integralmente li reinventa: la versione in prosa del Beowulf, i poemi originali in antico inglese basati sulla leggenda di Sigurd e Gudrún, il racconto dei viaggi del cagnolino giocattolo Roverandom e la narrazione dell’Akallabêth sono tutte estrinsecazioni di quest’unica attività mitopoietica, a cui sempre Tolkien rimane fedele nelle sue multiformi variazioni. Non cerchiamo di trovare uno schema, una successione di fasi: è il secondo Mistero: quello dell’Unità nella Molteplicità dell’espressione; il Mistero dell’Unità fondamentale del Mito e della Fantasia.

Vorrei infine spendere qualche parola su The Lord of the Rings. Non sarei riuscito a non parlare di quello che è universalmente considerato il capolavoro del Professore e una delle opere letterarie più conosciute del Novecento. Allo stesso tempo però voglio subito rivelare l’ultima e la maggiore di tutte le mistificazioni: è la centralità di questo grande romanzo e, al suo interno, la centralità dei suoi apparenti protagonisti, gli hobbit. Potrà sembrare un’enormità, ma considero ben fondata l’idea che questo mastodontico romanzo e i popolarissimi esserini che vi svolgono un ruolo decisivo non siano così importanti nell’universo tolkieniano: che anzi, non lo siano per nulla. I motivi sono di due tipi. Inizieremo con le ragioni estrinseche, più immediate. L’abbiamo già detto: l’opera di Tolkien è talmente vasta, composita e priva di un vero e proprio centro, che è quantomeno riduttivo concentrare tutte le attenzioni su The Lord of the Rings. Per giunta quest’ultimo – va aggiunto – nacque come seguito di The Hobbit, pensato e realizzato senza ombra di dubbio come leggera e spensierata fiaba per bambini. Gli hobbit compaiono per la prima volta proprio in questo breve romanzo: quelle buffe e pittoresche creature, amanti del buon cibo e dell’erba-pipa, venivano al mondo in una regione di Faërie all’inizio assai distante dall’Arda del Legendarium. Le cose non dovevano cambiare nella “nuova storia sugli hobbit” che l’editore Stanley Unwin aveva con forza sollecitato a Tolkien, visto il successo delle avventure di Bilbo. I primi capitoli di The Lord of the Rings ne rendono testimonianza con il loro stile bonario e disteso, molto in linea con l’atmosfera del romanzo precedente di cui riprendono le fila. Solo nel corso della lunga e travagliata gestazione Tolkien si accorse di quanto la nuova vicenda stesse trasferendosi sempre più nell’universo del Legendarium, dall’ampio respiro epico, venendone poco a poco fagocitata e finendo per diventarne l’ultimo atto non previsto. È dunque ilLegendariumdi Arda, con i suoi racconti e la grande epopea Elfica del Silmarillion a dover avere, semmai, quella centralità riservata solitamente al grande romanzo del Professore. Era questa l’opera più imponente, protrattasi per tutta la vita e rimasta incompiuta, a cui Tolkien tenne di più. La sua nuova mitologia. Queste le ragioni esterne. Passiamo adesso alle motivazioni intrinseche.

Credo che qui si tocchi il sentire profondo dell’uomo Tolkien, il suo essere cristiano cattolico e il senso dell’umiltà cristiana. La fede del Professore non influenzò le sue storie in modo diretto e didascalico – come avvenne invece per l’amico e collega C. S. Lewis. E tuttavia il suo influsso è profondo perché opera a un livello più essenziale. Non riguarda la dottrina, la morale o le credenze. È il nucleo che soggiace ad una sensibilità potentemente pagana, germanica, intrisa dello spirito eroico del Nord: un nucleo sostanzialmente cattolico. La cattolicità tolkieniana traspare soprattutto nella modalità del pensiero che informa tutte le sue opere ed ha a che fare con il significato letterale del termine greco καθολικóς, universale. Esso dice l’Universus, la Totalità. Il pensiero cattolico ha la pretesa di abbracciare questa totalità, di comprendere tutto senza che nulla resti fuori, e penso che l’umiltà cristiana abbia molto a che fare con questo tutto comprendere che è la cattolicità. Accogliere l’Universus è il massimo dell’umiltà. Abbiamo detto che The Lord of the Rings e i suoi hobbit non sono centrali; ma in un altro senso lo sono e lo sono perché cristiani. Il cristiano sceglie il centro per un atto di estrema umiltà, perché solo dal centro è possibile vedere tutto, non perdersi nulla, dare a ogni cosa l’importanza che merita. Eppure il centro rimanda generalmente al senso della superiorità, alla centralità del più importante: come si può starci senza esserlo o perlomeno diventarlo, il più importante? Per questo il cristiano reinventa il significato dell’essere al centro. Fa di esso il luogo del più misero. Per evitare che una sola di tutte le cose vada al centro, prevalendo sulle altre, occupa lui quel posto: perché sa di essere la cosa che vale meno in assoluto. Solo uno infatti è il centro, mentre l’Universus è infinità. Non è riduttivo pensare che una sola delle infinite bellezze della Totalità abbia il supremo valore? Riduttivo e dispotico, perché quest’unica cosa, scelta arbitrariamente, finirà per ricevere un valore sproporzionato. Per comprendere meglio il paradosso cristiano del centro che non è centrale ci viene in aiuto – guarda caso – un altro grandissimo scrittore inglese cattolico, G. K. Chesterton.

Nel suo meraviglioso Ortodossia c’è un capitolo sui paradossi del cristianesimo, la cui origine viene rintracciata nella risposta cristiana al problema della μεσότης, dell’equilibrio, di cui molto si era occupato il pensiero greco. Il cristiano “risolve” la questione in modo singolare: accoglie il conflitto come costitutivo della realtà e accetta gli estremi in tutta la loro forza, senza miscuglio né compromesso. È falso isolare un estremo, assolutizzandolo. Ma altrettanto falso è conciliare, restare in mezzo. Il cristiano non sta in mezzo, ma sta al centro, dove può lasciar esistere ogni cosa, ogni contraddizione e ogni sentimento, senza che l’uno valga più dell’altro. Tutto abbraccia e nulla lascia fuori: «Ciò che vogliamo non è l’universalità che sta fuori tutti i sentimenti normali: vogliamo l’universalità che sta dentro tutti i sentimenti normali»[4]. C’è posto ugualmente per il più piccolo e il più grande, per l’alto e il basso, per il nobile e il popolare, per la forma e la sostanza, per il principe e il servo; in quanto membri di un Universus comune, non è strano nemmeno che i ruoli possano invertirsi. Farsi da parte, mettendosi al centro, è il sigillo del valore che si dà a ogni singola cosa e al Tutto. Che nulla vada al centro illegittimamente, a insuperbirsi: che ogni cosa brilli dal suo posto. Sarà centrale solo il più insignificante e proprio per la sua insignificanza. L’umiltà che il romanzo dell’Anello rivela nel trionfo dei più deboli è la stessa cattolicità che permette all’infinitamente rozzo e all’infinitamente sublime, al fiabesco giocoso e all’epico tragico di coesistere senza problemi, l’uno accanto all’altro. Questo spirito cattolico ci permette di affermare che l’opera che sta al centro non può essere la più importante, ma quella che vale meno. Gli hobbit, le creature più piccole, più schive e insignificanti, assenti per la maggior parte delle lunghissime ere di Arda, dominate dai possenti Valar, da Elfi e da Uomini valorosissimi, sono solo un punto di vista a misura d’uomo da cui osservare le ultime, grandiose vicende della Storia degli Anelli. Lo hobbit è figura dell’uomo cristiano che si mette al centro, consapevole della sua nullità, per meglio abbracciare la grandezza e la magnificenza di ciò che da ogni lato lo circonda. Centro è solo il luogo da cui osservare ciò che è più grande, più nobile e più bello; non significa essere più forti o migliori né valere di più, bensì l’esatto contrario. È tutto il resto quel che importa davvero. Dare troppo rilievo agli hobbit significherebbe misconoscere la loro autentica natura e il loro ruolo essenziale. Non diventano importanti solo perché narrano la storia e vi prendono parte: fino alla fine restano coloro che umilmente si fanno da parte per lasciare spazio a ciò che conta. Ma chi si umilia verrà esaltato, proprio a motivo della sua umiliazione. Così è l’intero romanzo: potremmo vederlo come un punto da cui osservare il pensiero di Tolkien, le sue passioni, i miti suoi e quelli che ama. È centrale perché conta poco, vale poco: ben altre sono le opere grandiose, remote, piene di canti e poesia, quelle tanto vaste da restare in frammenti, incompiute; quelle della tradizione mitica occidentale: Beowulf, il ciclo arturiano, le leggende di Sigfrido e i Nibelunghi; e quelle del Professore: il Silmarillion, i lai del Beleriand, gli annali di Aman, i grandi racconti della Prima Era, la caduta di Númenor. In mezzo a tali impensabili altezze, The Lord of the Rings è solo un frammento, la parte finale di una storia millenaria; una storia da hobbit, da deboli uomini decaduti, da rimasugli di Alti Elfi in esilio; una storia fatta di gente semplice, che prova a combattere un Male tremendo con forze ridicolmente esigue; le poche battaglie della Guerra dell’Anello, che a noi sembrano così epiche, sono nulla in confronto ai titanici scontri delle Ere passate, scontri tra Eroi invincibili ed Esseri semidivini. Ma è in questo, nella sua piccolezza, nella sua marginalità assoluta, che consiste la sua grandezza: è l’immenso valore dell’insignificanza.

 Giunto alla fine, se volessi racchiudere in un’immagine quanto detto fin qui, ebbene, sarebbe Tom Bombadil che giocherella con l’Anello del Potere. Tolkien ha preso il suo personaggio più sciocco, ridicolo e buffonesco; l’ha messo nel cuore del suo Legendarium, in posizione cristianamente marginale e centrale al contempo: si parla di lui durante il Consiglio di Elrond come potenziale custode dell’Anello, i protagonisti lo incontrano nel corso del loro viaggio, devono a lui la loro salvezza. Egli viene chiamato “il più anziano e senza padre”. Ed ecco il buffo, sciocco e canterino Bombadil: ecco che tiene in mano l’Anello, lo indossa e non ne subisce l’effetto. Il simbolo della fiaba e della filastrocca infantile custodisce l’essenza della mitologia tolkieniana: la resistenza, l’indifferenza verso il Potere.

Così siamo al terzo. L’ultimo. Il Mistero della Centralità del Non Centrale.

Ci siamo riusciti, a rifarli? I misteri? Chissà. Forse no.

Almeno ci abbiamo provato.

[Nell’immagine, un disegno di Luca Dilillo]


[1] In effetti anche nell’introduzione italiana a quel testo – sempre di de Turris – si afferma con forza l’importanza “imprescindibile” del Tolkien filologo, accademico e mitologo per comprendere il Tolkien romanziere fantasy. Certo non aiuta il fatto che la pubblicazione di questi lavori sia stata possibile grazie al successo commerciale della pubblicazione principale – alimentata anche dai film di Peter Jackson. È dunque vero che, almeno in questo senso, il resto della produzione tolkieniana debba moltissimo a The Lord of the Rings.

[2] J.R.R. Tolkien, La leggenda di Sigurd e Gudrún (The Legend of Sigurd and Gudrún, 2009), trad. a cura di R. Valla, Bompiani, Milano 2010, p. 588

[3] Il luogo privilegiato per approfondire la visione di Tolkien su Faërie e fairies è proprio la conferenza On fairy stories (Sulle fiabe), contenuta in The Monsters and the Critics and Other Essays (Il Medioevo e il Fantastico). A questo testo si rimandano tutti coloro che vogliano approfondire le presenti riflessioni. 

[4] G. K. Chesterton, Ortodossia (Orthodoxy, 1908), trad. a cura di R. Asni, Lindau, Torino 2010, p. 136.