J. Derrida e la decostruzione del ‘pharmakon’ di Platone: verso una nuova alleanza tra filosofia e politica

di Maria Teresa Pacilè

 

1. La “tentazione di Siracusa” e la fraterna inimicizia tra logos e kratos

Perché un filosofo di professione si sente sempre accusato, denunciato, pieno di vergogna, politicamente colpevole? Ebbene, ecco la mia ipotesi: tra le altre ragioni, da sempre (e sempre, per la filosofia, significa da Platone in poi), da sempre lo si accusa di amare il potere e di non confessare il gusto del potere che lo rode in segreto e anche di questa forma particolarmente potente e perversa del potere che consiste nel non esercitarlo direttamente ma nel manipolarlo, delegandovi gli imperatori (nudi o meno), i sovrani, i re, i potenti, cioè i tiranni di questo mondo. Noi, i filosofi, comanderemmo tutti questi sovrani attraverso i nostri consigli, le nostre teorie politiche, i nostri progetti di costituzione, la nostra saggezza e il sapere che si presuppone noi abbiamo circa le leggi, la storia, la destinazione e persino la felicità degli uomini[1].

 

Quando nel 2001 Jacques Derrida giunge in Sicilia dall’Algeria – dall’altra sponda del Mediterraneo[2] – confessa di esser ossessionato dallo «spettro» di Platone e dal suo viaggio a Siracusa[3]. Quasi a volerlo immediatamente “esorcizzare”, il filosofo proclama dalle prime battute della sua Lectio la propria innocenza – «Giuro che sono innocente!»[4] – come se fosse un imputato costretto a difendersi da un’ingiusta condanna. Egli si sente infatti minacciato da un’accusa che – come denuncia – “grava” su tutti i filosofi, da Platone, che mise a repentaglio la propria vita durante la traversata in Sicilia, a Heidegger che, pur per un breve periodo, si presentò come esponente dell’ideologia nazionalsocialista nel tentativo di imprimerle il proprio orientamento[5].

Derrida si scopre così accusato da quella che lui definisce la «tentazione di Siracusa»: l’«inconfessabile gusto del potere»[6] che in segreto ogni filosofo coltiva in sé, sedotto dalle vesti del sovrano, aspirando a diventarne il consigliere, convinto di esser qualificato per poterlo illuminare sull’arte del “buon governo”. Proprio l’esperienza siciliana di Platone, in dialogo polemico con Dionigi e Dione, costituisce secondo il filosofo algerino l’origine e la futura identitàdella filosofia politica – secondo l’itinerario prioritario che si è sviluppato carsicamente in tutta la tradizione occidentale. Pur nelle sue diverse articolazioni, è infatti possibile intercettare una «tentazione basileica della filosofia»[7] che, nella ricerca di una Verità Universale sotto cui sussumere ogni particolare, ha modellato quello che Gadamer ha definito un «archetipo in cielo», un ideale regolativo – dunque un modello teorico – su cui plasmare il reale per conferire alla prassi stabilità e sicurezza[8].

Tale «fraterna inimicizia» tra politica e filosofia, potere e sapere, sovrano e filosofo costituisce il fondo originario dell’idea di filosofia politica così come si è sviluppata storicamente, che trova in Siracusa la propria massima evocazione mitico-simbolica. La città siciliana rappresenta infatti il topos per eccellenza del «dilemmatico dissidio» tra filosofia e polis, nella sfida per la fondazione di un potere politico legittimo[9]. L’intera ontologia dell’Occidente è stata segnata da questo imprescindibile legame tra logos e kratos, da una tensione arcontica della filosofia sul reale – e soprattutto sul politico – nella convinzione che Bene e potere, verità filosofica e autorità sovrana potessero coincidere in modo fusionale. Contro tale tentazione – che «la teoria possa valere come guida, governo, costituzione della città, in altri termini che il proprio linguaggio critico possa di per sé trasformarsi in progetto politico»[10] scrive Cacciari – la filosofia deve costantemente vigilare, come testimonia lo sforzo critico e decostruttivo dell’opera di Jacques Derrida, che nella Sicilia trova non solo la minaccia da scongiurare ma anche la promessa di una pace la cui vocazione guiderà la sua intera riflessione filosofica e politica. Così infatti dice nel Palazzo del Senato a Ortigia, riconoscente per il conferimento della cittadinanza onoraria:

 

Perché contrariamente a ciò che alcuni di voi potrebbero pensare, non vengo dal Nord. Non vengo da Parigi, ma dal sud della Sicilia. Vengo da Algeri dove sono nato e che non avevo ancora lasciato (lo feci solo o sei anni dopo) quando sentii parlare di Siracusa per la prima volta in vita mia. Era un momento storico, un evento già o ancora storico, perché è nei pressi di Siracusa che la pace si annunciò, nel settembre del 1943 quando proprio qui venne firmato il primo armistizio che preparava la fine della seconda guerra mondiale. Non posso più, da quella data, separare il nome di Siracusa da ciò che somiglierà sempre a una promessa di pace. Siracusa è finalmente la pace! Siracusa, la terra promessa della pace![11]

 

Di fronte alle nuove guerre che mettono in crisi il politico – i suoi confini, i suoi spazi, le sue forme di espressione – la riflessione del filosofo algerino, la sua aspirazione a «pensare, interpretare, mettere in opera, un’altra politica, un’altra democrazia»[12], si rivela particolarmente significativa per l’interpretazione delle questioni etico-politiche contemporanee. L’attuale spoliticizzazione in corso, pur spaventosa poiché mette in discussione tutti i concetti tradizionali, deve esser pensata secondo Derrida come la chance per una nuova pensabilità dell’ordine internazionale, per «una nuova politica», per un «nuovo pensiero del politico»[13]. Tutto ciò deve indurre ad «abbandonare l’orbita della filosofia politica di tradizione platonica»[14]. Ma come fare a oltrepassare Platone e – dovremmo chiederci – è veramente possibile?

 

Ora, di quest’eredità platonica mi sento innocente grazie a voi, grazie alla vostra ospitalità. Vengo a Siracusa senza una tale tentazione. Rendo omaggio alla memoria filosofica di questa grande città senza gustare il veleno platonico. Di questo pharmakon ambiguo, di questo rimedio che può sempre corrompersi in veleno. Platone non c’è più, i tiranni sono partiti. Ecco perché sono già sicuro che, altra differenza con il grande Platone, non maledirò mai il mio viaggio in Sicilia. Lo benedirò piuttosto[15].

 

Oltre «l’erranza o l’errore» siciliano di Platone, bisogna prendere atto che il tempo del filosofo-re è finito, che «il filosofo non deve più sognare di divenire il consigliere di un imperatore nudo, del sovrano, del principe o del tiranno». Tuttavia ciò «non significa che […] la filosofia politica è morta o inutile»[16], ma che bisogna pensare in modo radicale ciò che accade al politico, sollecitato da una deterritorializzazione che lo mette radicalmente in discussione. Questa è la scommessa rischiosa – promessa e al tempo stesso minaccia – di una nuova filosofia del politico. Aldilà di ogni concettualità tradizionale, è necessario immaginare un’«altra figura di un’alleanza tra la filosofia e la politica»[17]. Su tale «amicizia polemica» bisogna continuare ad interrogarsi, per comprenderne le origini e delinearne una nuovapossibilità di realizzazione. Eppure è proprio da Platone che occorre ripartire, poiché dal suo «ambiguo pharmakon» ha origine l’intera metafisica occidentale – che bisogna prima comprendere, per tentare poi di superare.

2. L’invenzione della scrittura: una rilettura del Mito di Theuth

 

“Ecco, o Re, disse Theuth, una conoscenza che avrà l’effetto di rendere gli Egiziani più istruiti e più capaci di rammentarsi: memoria e istruzione hanno trovato il loro rimedio [pharmakon]”

E il re a replicare: “incomparabile maestro delle arti, o Theuth, altri è l’uomo che è capace di dare alla luce l’istituzione di un’arte; altri è colui che è capace di apprezzare ciò che quest’arte comporta di pregiudizio o di utilità per gli uomini che dovranno farne uso. A questo punto, ecco che nella tua qualità di padre dei caratteri della scrittura hai attribuito loro, per compiacenza verso di essi, tutto il contrario dei loro veri effetti”[18].

 

Ne La Pharmacie de Platon (1968) Derrida istituisce un’analisi serrata con uno degli snodi fondamentali della riflessione platonica, così come si sviluppa nel Fedro: la posta in gioco che il mito sul dono della scrittura intende perseguire non è una semplice contrapposizione – e successiva gerarchizzazione – tra l’oralità e la scrittura, ma in modo molto più radicale, come Derrida mette brillantemente in luce, all’interno dello scambio di battute tra il re Thamus e il dio Theuth ne va dell’istituzione del pensiero occidentale nelle sue strutture fondative[19].

All’interno del mito viene infatti intentato un «processo alla scrittura» – alla grammé –, celebrato in nome della purezza del logos rispetto al quale i caratteri grafici, che dovrebbero costituire un pharmakon per la memoria, dunque, un incentivo al sapere, rappresenterebbero invece una contaminazione, una “patologia” in grado di condurlo alla morte[20]. L’esito distruttivo che la scrittura avrebbe nei confronti della vitalità del pensiero è strategicamente segnalato dalla breve evocazione di Farmacea all’inizio dell’opera. Davanti allo spettacolo dell’Ilisso, Fedro si domanda se non fu proprio in quei luoghi che Borea rapì Orizia, mentre giocava con Farmacea, sospingendola nell’abisso: «con il suo gioco – scrive Derrida – Farmacea ha trascinato alla morte una purezza verginale e un’interiorità intatta»[21], alludendo dunque sin da subito all’ambiguità di quel pharmakon – la scrittura – che promettendo di curare, in realtà distrugge.

Sembra così che la scrittura e i valori che essa veicola – materialità, esteriorità, alterità, assenza, segno, traccia – siano posti da Platone fuori dall’autentico sapere: come il pharmakos, vengono espulsi dalla città, “sacrificati”, affinché l’unità vivente del logos possa essere ricomposta. Scrive Derrida:

 

Si è paragonato il personaggio del pharmakos ad un capro espiatorio. Il male e il fuori, l’espulsione del male, la sua esclusione fuori dal corpo (e fuori) dalla città, ecco i due significati principali del personaggio e della pratica rituale. […] Il corpo proprio della città ricostituisce quindi la sua unità, si richiude sulla sicurezza del suo intimo, si ridà la parola che la lega a se stessa nei limiti dell’agorà escludendo violentemente dal suo territorio il rappresentante della minaccia o dell’aggressione esterna. II rappresentante rappresenta certo l’alterità del male che viene a rendere affetto e infetto il dentro, facendovi imprevedibilmente irruzione. Ma il rappresentante dell’esterno è lo stesso costituito regolarmente, messo in piedi dalla comunità, scelto, se così si può dire, nel suo seno, trattenuto, nutrito da essa[22].

 

Destinando la scrittura a ricoprire il ruolo di capro espiatorio, la sentenza del re Thamus sembra chiudere il processo, senza possibilità di appello. La violenza contro la scrittura dovrebbe fondare quella politica del logos e quel logos politico che Platone intende costruire attraverso il Dialogo proposto. Eppure – come scrive Derrida – «solo una lettura cieca o grossolana ha potuto infatti lasciar correre la voce che Platone condannasse semplicemente l’attività dello scrittore. […] il Fedro, nella sua scrittura, gioca anche a salvare – che è nello stesso tempo perdere – la scrittura come il migliore, il più nobile dei giochi»[23]. Essa, come un pharmakon, è «medicina» e «veleno»: se da una parte Theuth presenta il proprio dono come un “beneficio”, Platone intende presentare invece la potenza occulta – dunque “velenosa” – della scrittura, che aggrava il male anziché porvi rimedio e, attraverso l’autorità politica del re Thamus, condannare il «sopruso di Theuth», astuto ed usurpatore:

 

Scienza e magia, passaggio tra vita e morte, supplemento del male e della mancanza: la medicina doveva costituire l’ambito privilegiato di Thot. […] Il dio della scrittura, che sa porre fine alla vita, guarisce anche i malati. […] Il dio della scrittura è dunque un dio della medicina, insieme scienza e droga occulta. Del rimedio e del veleno. Il dio della scrittura è il dio del pharmakon. Ed è la scrittura come pharmakon che egli presenta al re nel Fedro, con una umiltà inquietante come la sfida[24].

 

Scrive ancora Derrida:

 

Ora Platone, per bocca del re, vuole padroneggiare tale ambiguità, dominarne la definizione nell’opposizione semplice e netta: del bene e del male, del dentro e del fuori, del vero e del falso, dell’essenza e dell’apparenza. Si rileggano gli atti del giudizio reale, vi si troverà questa serie di opposizioni. Per di più disposta in modo tale che il pharmakon, o, se si preferisce, la scrittura, non possa che girarvi in tondo: solo in apparenza la scrittura è benefica per la memoria, in quanto la aiuta all’interno col proprio movimento a conoscere il vero. Ma in verità la scrittura è essenzialmente cattiva, esterna alla memoria, produttrice non di scienza ma di opinione, non di verità ma di apparenza Platone la pensa, e tenta di capirla, di dominarla a partire dall’opposizione stessa. Affinché questi valori contrari (bene/male, vero/falso, essenza/apparenza, dentro/fuori, ecc.), possano opporsi, bisogna che ciascuno dei termini sia semplicemente esterno all’altro, cioè che una delle opposizioni (dentro/ fuori) sia già accreditata come la matrice di ogni opposizione possibile[25].

 

Scindendo attraverso una logica binaria il “rimedio” dal “veleno”, violentando la strutturale indecidibilità del pharmakon – un “miscuglio” mai del tutto benefico, mai del tutto malefico – costringendolo nelle stringenti maglie del concetto, il pensiero occidentale si afferma nella sua struttura fondamentale: «questa opposizione, lo vedremo – scrive Derrida – fa sistema con tutte le grandi opposizioni strutturali del platonismo. Ciò che è in gioco al limite tra questi due concetti è quindi qualcosa come la decisione maggiore della filosofia, quella attraverso cui si istituisce, si mantiene e contiene il suo fondo avverso»[26]. Il pensiero occidentale si afferma così come «logocentrismo»: ponendo al centro della propria struttura la purezza del logos, scarta da esso tutto ciò che potrebbe essergli nemico – in questo caso la scrittura, che costituisce il tentativo di effrazione ed aggressione ad una pretesa purezza originaria.

 

Platone mantiene sia l’esteriorità della scrittura sia il suo potere di penetrazione malefica, capace di colpire e infettare il più profondo. Il pharmakon è questo supplemento pericoloso che penetra violentemente in ciò che avrebbe dovuto poterne fare a meno e che si lascia ad un tempo frequentare, violentare, colmare e sostituire[27].

 

La scrittura, così posta all’esterno del logos – come ciò da cui esso deve “immunizzarsi” se vuole continuare a vivere – è essenziale alla sua stessa costituzione. Proprio come un pharmakos rivela la propria ambiguità e, “spostata”dall’interno verso l’esterno della “città del logos” ha un potere salvifico: dopo esser stata “sacrificata” dà solide basi alla ragione architettonica occidentale e al suo stile di pensiero fondativo[28].

L’ordine filosofico del logos si afferma così – attraverso un paradossale rovesciamento – come l’autentico antidoto contro il “sortilegio” melefico del pharmakon: la scrittura viene denunciata come sostanza malefica; inversamente la cicuta – la pozione che nel Fedone è sempre nominata come «pharmakon» – si trasforma grazie al logos platonico in uno strumento di salvezza per Socrate e deve esser mantenuta nella propria universalità incontaminata se vuole continuare a custodire la propria funzione salvifica per l’anima.

 

Il recupero della purezza interiore deve quindi ricostruire, recitare – ed è il mito stesso, la mitologia per esempio di un logos che racconta la propria origine e che risale alla vigilia di una aggressione farmacografica – ciò a cui il pharmakon non avrebbe dovuto aggiungersi, arrivando così a parassitaria letteralmente: lettera che si installa all’interno di un organismo vivente per prendergli il nutrimento e per confondere la pura udibilità di una voce. Tali sono i rapporti tra il supplemento di scrittura e il logos-zoòn. Per guarire quest’ultimo dal pharmakon e per cacciare il parassita, bisogna quindi rimettere al suo posto il fuori. Tenere fuori il fuori. Che è il gesto inaugurale della «logica» stessa, del buon «senso» quale si accorda con l’identità se stesso di ciò che è: l’ente è ciò che è, il fuori è di fuori e il dentro è di dentro. La scrittura deve quindi ridiventare ciò che non avrebbe mai dovuto cessare di essere: un accessorio, un accidente, un eccedente[29].

 

Il logos filosofico compie questa “metamorfosi” della droga in rimedio, del veleno in contravveleno: la «cura» della ragione, in quanto catarsi dal negativo, deve scacciare il negativo e, al contempo, anche il ricordo di tale operazione farmaceutica. Ecco sorgere allora la «farmacia» di Platone che, nella «cerimonia del pharmakos» – la scrittura – inaugura l’intero paradigma logocentrico e immunitario occidentale. La filosofia sorge dunque in questo gesto di «immunizzazione» dal negativo, in questa costruzione logico-razionale di un sistema che per far sopravvivere il positivo (la presenza piena, l’universalità, la razionalità chiara e distinta appartenenti al logos), espelle il negativo (l’assenza, lo scarto, l’irrazionale, legati invece alla grammè). Ma, come accade con ogni farmaco, tale spostamento non può in realtà che moltiplicare gli effetti del negativo. Scrive Derrida:

 

La cerimonia del pharmakos si svolge quindi al limite del dentro e del fuori che essa deve tracciare e rintracciare continuamente Intra muros/extra muros. Origine della differenza e della divisione, il pharmakos rappresenta il male introiettato e progettato. Benefico in quanto guarisce di conseguenza venerato, circondato di cure – malefico in quanto incarna la potenza del male – e di conseguenza temuto, circondato da precauzioni. Fonte di ansia e di tranquillità. Sacro e maledetto. La congiunzione, la coincidentia oppositorum si disfa continuamente col passaggio, la decisione, la crisi. L’espulsione del male e della follia riporta la sophrosýne.[30]

 

La farmacia di Platone, allora, è l’organizzazione sapiente di un «teatro» in cui Logos e Grammè – il positivo e il negativo, all’origine di tutte le altre opposizioni del platonismo – si scontrano. Eppure essi non sono i soli protagonisti della scena, vi è Altro, sempre assente-presente, a renderla ancor più problematica. Quella che Derrida definisce «la scena di famiglia» è composta da un Padre – l’Origine, il Sole, l’Essere – scomparso e due figli, legittimo e illegittimo, chiamati a sostituirlo, il logos e la scrittura[31].

Il logos infatti, in quanto “discorso sull’Essere”, non è l’Essere, non coincide con la sua Presenza piena ma vi introduce una mediazione: il pensiero logico infatti, non coglie immediatamente l’Essere – che è sempre epekeina tes ousias, «aldilà della sostanza»– ma si dà solo come sintesi, intreccio, mescolanza di categorie e di concetti. Come ricorda la Repubblica, non si può guardare direttamente il Sole; e commenta Derrida:

 

Il Bene (il padre, il sole, il capitale) è dunque la fonte nascosta, illuminante e accecante, del logos. […]. Questo ricorso al logos, per paura di essere accecato dall’intuizione diretta della faccia del padre, del bene, del capitale, dell’origine dell’essere in sé, della forma delle forme, ecc., questo ricorso al logos come a ciò che ci tiene al riparo dal sole, al riparo sotto di lui e da lui, Socrate lo propone altrove, nell’ordine analogo del sensibile o del visibile […]. Il logos è dunque la risorsa, bisogna volgersi verso di esso, e non solo quando la sorgente solare è presente e rischia di bruciarci gli occhi se li fissiamo in essa; bisogna rivolgersi verso il logos anche quando il sole sembra assentarsi nella sua eclisse. Morto, spento o nascosto, quell’astro è più pericoloso che mai[32].

 

Logos e Grammè sono, dunque, entrambe «figure della differenza»[33]: in assenza del Padre, essi si scoprono fratelli e nemici. Bisognerà allora saper distinguere tra il figliol prodigo e il bastardo, tra il figlio che “testimonia” la viva voce del Padre – il logos che è «un figlio e si distruggerebbe da sé senza la presenza, senza l’assistenza presente del padre. Del padre che risponde. Per lui e di lui»[34] – e il figlio che ne prende le distanze – la scrittura. Scrive Derrida: «dalla posizione di chi detiene lo scettro, il desiderio della scrittura è indicato, designato, denunciato come desiderio di essere orfani e come sovversione parricida. Questo pharmakon non è forse criminale, non è un regalo avvelenato?»[35]. Il logos, infatti, è un’espressione di un linguaggio “puro”, incontaminato – senza segni e senza mediazioni – da accostare alla phoné più che all’opacità della grammè. La scrittura, in modo differente, ponendosi come “simulacro”della parola, snatura ciò che pretende di imitare, oscura il pensiero vivente e rischia sempre di ingannarne l’autenticità[36]. A differenza del logos ordinato, la scrittura:

 

Vaga qua e là come uno che non sa dove va, avendo perduto la retta via, la buona direzione, la regola della rettitudine, la norma; ma anche come uno che ha perduto i propri diritti, come un fuorilegge, un traviato, un cattivo ragazzo. un mascalzone o un avventuriero. Percorrendo le strade, non sa nemmeno chi sia, quale sia la sua identità, se ne ha una, o un nome, quello di suo padre. Ripete la stessa cosa quando viene interrogato agli angoli delle strade, ma non sa più ripetere la propria origine. “Non sapere da dove si viene e dove si va, per un discorso senza chi ne risponda, vuol dire non saper parlare, è lo stato d’infanzia. Lui stesso spaesato, anonimo, senza legame con il suo paese e la sua casa[37].

 

La scrittura è allora il «figlio miserabile», un avventuriero, un traviato, un ribelle: un orfano, un «figlio perduto»[38]. Eppure, presentando la scrittura come un “fratellastro”, un traditore, Platone è portato per la prima volta a considerare il fratello di questo fratello – il legittimo, stavolta – come un’altra forma di scrittura, non solo un discorso sapiente e vivo, ma un’«iscrizione della verità nell’anima»[39]. Si veda il passaggio del Fedro:

 

SOCRATE: Che significa? Dobbiamo esaminare, per un altro discorso, fratello del precedente (il discorso scritto) e legittimo (adelphón gnésion), in quali condizioni avvenga e di quanto superi l’altro per la qualità e la potenza della sua linfa?

FEDRO: Qual è questo discorso di cui parli e in quali condizioni si attua secondo te?

SOCRATE: È quello che, accompagnato dal sapere, si scrive nell’anima dell’uomo che apprende, quello che è capace di difendersi da solo e sa parlare e tacere quando è necessario.

FEDRO: Vuoi dire il discorso di colui che sa, discorso vivente e animato del quale si potrebbe dire con piena giustizia che il discorso scritto è un simulacro?

SOCRATE: Eh sì! assolutamente[40].

 

La «scena di famiglia» proposta da Derrida nella rilettura del testo platonico rievoca la scena primordiale dell’orda primitiva freudiana. Il Padre – il Sole, l’Essere – è definitivamente ucciso: il fratello “maggiore” che assume il potere – «colui che prende il posto del Padre senza esserlo» – sarà sempre abitato da un Angstsignal, si sentirà “usurpatore”[41]. Rileggendo attraverso tale schema interpretativo il testo platonico, si può affermare – in assoluta continuità con le tesi di Derrida – che il Logos che si impone come sovrano – il fratello “legittimo” – sarà inquietato dalla presenza spettrale della scrittura. Eppure l’ordine della kallipolis platonica – metafora di ogni futuro spazio politico – è protetto attraverso l’espulsione di tutto ciò che potrebbe corromperlo. Affinché tale ordine si mantenga, è necessario però decidere –con un gesto “sovrano” simile a quello del re Thamus – il Bene dal Male, il vitale dal mortale, la buona scrittura – la filosofia intesa come dialettica, da preservare come sapere eminente all’interno della città, in vista del suo buon governo – dalla cattiva scrittura – la sofistica, da espellere all’esterno della città, perché corruttrice dei suoi costumi. In ultima analisi, il logos dalla grammè. Scrive il filosofo:

 

Secondo uno schema che dominerà tutta la filosofia occidentale, una buona scrittura (naturale, viva, sapiente, intelligibile, interiore, parlante) viene opposta ad una cattiva scrittura (artificiosa, moribonda, ignorante, sensibile, esteriore, muta). E quella buona non può essere designata che nella metafora di quella cattiva. La metaforicità è la logica della contaminazione e la contaminazione della logica. La cattiva scrittura è, per quella buona, come un modello di designazione linguistica ed un simulacro di essenza. E se la rete delle opposizioni di predicati che mettono in rapporto una scrittura con l’altra contiene nelle sue maglie tutte le opposizioni concettuali del platonismo – considerato qui come la struttura dominante della storia della metafisica – si potrà dire che la filosofia ha avuto gioco nel gioco di due scritture. Proprio mentre voleva distinguere solo tra parola e scrittura. Si conferma poi che la conclusione del Fedro, più che una condanna della scrittura in nome della parola presente, è la preferenza per una scrittura piuttosto che per un’altra, per una traccia feconda piuttosto che per una traccia sterile, per un seme generatore, perché deposto al di dentro, piuttosto che per un seme disperso al di fuori senza profitto: con il rischio della disseminazione[42].

 

L’ambiguità dell’atteggiamento platonico nei confronti della grammè diviene per Derrida l’immagine di tutta l’ulteriore storia della metafisica, che condanna la scrittura come “tradimento” della presenza, ma al contempo non può non assegnare il pensiero alla traccia grafica. Tale posizione teoretica non è mai neutrale: scegliere il logos anziché la scrittura è per Derrida un’operazione che ha immediate conseguenze etiche e politiche: significa decidere – in realtà “costruire” a partire da un fondo ambiguo e ultimamente indecidibile, come quello di cui il pharmakon è simbolo – la chiusura, anziché l’apertura; l’autonomia, anziché l’eteronomia; la sicurezza, anziché la violenza indiscriminata. In tale decisione platonica, in tale subordinazione della complessità del reale a un «binarismo ordinatore» – che per proteggere dalla violenza diventa anch’esso violento, seppur in modo legittimo – ne va della filosofia e della politica occidentale[43]. Pur riconoscendo l’ambiguità che intacca la pretesa purezza del logos – che non è mai stato “puro”, se non in una ricostruzione razionale di sè, che ha espulso l’elemento inquietante della traccia – Platone tenta di affermare un “controllo”, di imporre un ordine e una regola, di separare e distinguere. A partire dall’indistinto, ottiene così – come un buon farmaceuta – le classiche coppie oppositive: vero/falso dentro/fuori, amico/nemico, stasis/polemos, filosofia/sofistica. Esse sono tutte incardinate sulla prima distinzione fondamentale, quella tra la purezza del logos e la contaminazione della scrittura.

 

Unità della metafisica, della tecnica, del binarismo ordinatore. Questa padronanza filosofica e dialettica dei pharmaka, che ci si dovrebbe trasmettere di padre legittimo in figlio bennato, è rimessa continuamente in questione da una scena di famiglia che costituisce e apre al tempo stesso il passaggio che collega la farmacia alla casa. Il platonismo è al tempo stesso la ripetizione generale di questa scena di famiglia e lo sforzo più potente per dominarla, per soffocarne il rumore, per dissimularla tirando il sipario al mattino dell’Occidente[44].

 

L’operazione platonica iniziata col Fedro prosegue poi nel Sofista[45]: condannando la scrittura come un figlio parricida, Platone scrive in realtà questa condanna, riparando e allo stesso tempo confermando la morte di Socrate[46]. Secondo Derrida, infatti, Platone compie un gesto parricida nei confronti dell’oralità socratica, quello stesso parricidio che nelle pagine del Sofista è assegnato alla suggestiva figura dello Straniero di Elea:

 

Senza la violenta irruzione contro la venerabile e paterna figura di Parmenide, contro la sua tesi dell’unità dell’Essere, senza l’intrusione irrompente dell’Altro nell’unità dell’Essere, la scrittura e il suo gioco non sarebbero stati necessari. La scrittura è parricida. […] È un caso ancora se, per lo Straniero del Sofista, la necessità, la fatalità del parricidio […] è la condizione di possibilità della scrittura?[47].

 

Questo parricidio – di uno straniero che decostruisce la pretesa compattezza della “ben rotonda Verità” parmenidea per aprirla a una différance interna – costituisce la condizione di pensabilità del logos, così come si è strutturato nel corso della tradizione occidentale: è una «decisione spaventosa», «un colpo demoniaco», eppure necessario[48]. «Bisognar rischiare la follia o passare per pazzi» – scrive Derrida reinterpretando l’originalità del gesto parricida platonico – per costruire «la società saggia e sensata dei figli riconoscenti»[49]. Seguendo ancora la metafora del Padre e dei figli, è la morte del Padre ad aprire il regno della violenza: «Scegliendo la violenza – commenta il filosofo, mostrando nuovamente la necessità di una certa contaminazione del logos col kratos – […] il figlio, o la scrittura parricida, non può evitare di esporsi alla violenza»[50].

 

L’invisibilità assoluta dell’origine del visibile, del bene-sole-padre-capitale, il sottrarsi alla forma della presenza e dell’entità, tutto quell’eccesso che Platone designa come epékeina tès usìas (al di là dell’entità e della presenza) dà luogo, se così si può dire, ad una struttura di supplenza tale che tutte le presenze saranno supplementi sostituiti all’origine assente […]. La dialettica supplice la noesis impossibile, l’intuizione proibita della faccia del padre. […] La sparizione della faccia è il movimento della dif-ferenza che apre violentemente la scrittura o, se si vuole, che si apre alla scrittura e che la scrittura si apre[51].

 

È infatti essenziale alla natura del segno – dunque non solo alla scrittura, ma anche al logos in quanto “scrittura” regolata, “ordinata”– una certa contaminazione tra bene e male, un’impossibilità di distinguerli nettamente. Come scrive Derrida, tale minaccia è da sempre interna al logos – che, è bene ricordarlo con la metafora platonica, non è il Padre, ma è la mediazione che porta al Padre. Essa contamina dunque «l’interiorità domestica e gerarchizzata della farmacia, il buon ordine e la buona circolazione, la buona ordinazione dei suoi prodotti controllati, classificati, dosati, etichettati, rigorosamente distinti in rimedi e veleni, semi di vita e semi di morte, tracce buone e cattive»[52].

Proprio il concetto platonico di logos, in ultima analisi secondo Derrida, fa fallire il processo intentato dal re Thamus alla scrittura, poiché è la struttura del logos –inteso come symploké di essere e non-essere, dunque già da sempre linguaggio, mediazione e scrittura – a “far ricorso” contro la sentenza che vorrebbe condannare la scrittura in modo definitivo. In un certo senso l’intera opera di Derrida può esser riletta proprio come il tentativo di «porre rimedio (pharmakon) al sopruso platonico contro la scrittura»[53].

 

Se avesse voluto dir qualcosa, questo sarebbe stato il discorso di Theuth, che fa della scrittura come pharmakon un regalo al re.

Ma Theuth, soprattutto, non ha ripreso la parola.

La sentenza del grande Dio fu lasciata senza risposta[54].

 

Come un “novello” Theuth, il filosofo cerca dunque di “rispondere” all’ingiunzione sovrana, scardinandola. Tenta di “riparare” l’usurpazione originaria del logos, facendo emergere altro – da sempre occultato dalla logica universale del concetto – dando voce alla diffèrance. Così infatti scrive:

 

E se si venisse a pensare che qualcosa come il pharmakon – o la scrittura – lungi dall’essere dominato da queste opposizioni, ne apre la possibilità soltanto a partire da qualcosa come la scrittura – o il pharmakon – può annunciarsi la strana differenza tra il dentro e il fuori; se di conseguenza si venisse a pensare che la scrittura come pharmakon non si lascia assegnare semplicemente un sito in ciò che essa situa, né si lascia sussumere sotto i concetti che a partire da essa si decidono, ma abbandona soltanto il proprio fantasma alla logica che può volerla dominare soltanto con il procedere ancora da se stessa, bisognerebbe allora piegare a strani movimenti ciò che non si potrebbe neppure più chiamare semplicemente la logica o il discorso[55].

 

La scrittura, per Derrida, è innanzitutto «segno», «incisione», istituzione durevole ma non eterna, in cui si riafferma il limite, la contingenza e la storicità dell’esistenza che, – contro la pretesa purezza del Logos sovrano e ordinatore – è per essenza finita e mortale. La scrittura non è semplice segno, ma – prima e oltre la distinzione oralità/scrittura – è la più intima possibilità del linguaggio, la sua stessa origine[56]. Per questo il filosofo parla di «archi-scrittura» per evocare il carattere istitutivo dell’iscrizione grafica: essa deve esser intesa come l’«aver luogo del luogo»[57], come la delimitazione di un orizzonte di esperienza fatto di segni e di tracce, in cui il soggetto si riscopre già da sempre gettato.

Rompendo con ogni contesto dato – accogliendo anche la possibilità di una deriva definitiva – la scrittura sfugge alla “presa” del soggetto: è “seme”, inoggettivabile e non-programmabile per eccellenza, ma ricca di infinite possibili realizzazioni future. Essa dunque apre una scena di alterità che tutta la storia della metafisica occidentale ha tentato di chiudere con violenza, nel sogno illusorio di una presenza compiuta e perfetta, di una Totalità filosofica e politica. Il pensiero logocentrico infatti ha costantemente rimosso l’importanza del segno, espellendo da sé – come un pharmakos – quei caratteri di assenza, esteriorità e corporeità di cui la scrittura è simbolo. Esso non è mai riducibile ad una posizione solamente teoretica, poiché è sempre solidale con una volontà politica di dominio sulla totalità degli enti. Al contempo Derrida afferma l’impossibilità di poterne superare definitivamente gli assunti. Le idealità e le strutture conquistate attraverso la storia non possono essere semplicemente “superate”: l’idea di un’«evasione» dall’Essere e dai suoi vincoli è infatti irrealizzabile.

Se la filosofia non può coltivare un’«uscita dall’Essere» e dalle sue strutture fondative, è però chiamata a riconoscere una “sfasatura” che sfugge alla presa del soggetto e del pensiero logocentrico. Solo elaborando un «dispositivo aperto sul proprio abisso»[58] – la decostruzione – essa potrà costituire un’indagine chiarificatrice delle strutture su cui si articolano il pensiero e la storia della tradizione occidentale per comprenderne le rimozioni, criticarne le polarità oppositive, nel tentativo di far riemergere ciò che vi è da sempre misconosciuto: la différance, il fondo occultato dell’esperienza.

 

Forse bisogna tentare di pensare questo pensiero in-audito, questo tracciamento silenzioso: che la storia dell’essere, il cui pensiero coinvolge il logos greco-occidentale, non è essa stessa, così come si produce attraverso la differenza ontologica, che un’epoca del diaphrein […] poiché l’essere non ha mai avuto senso, non è mai stato pensato o detto come tale se non dissimulandosi nell’ente, la dif-ferenza, in una certa e assai strana maniera è più vecchia della differenza ontologica o della verità dell’essere[59].

 

La decostruzione – che prima di essere una pratica filosofica è ciò che accade, «ce qui arrive» scrive Derrida, dunque, l’evento della Différance intesa come differimento continuo – non giunge mai a soluzioni ultime. Essa è allora il nome che nella filosofia derridiana assume la radicale critica al logocentrismo: essa non intende ripudiare ogni forma di logos – ogni rinvio al concetto, ogni rigore nel pensare o un elogio dell’irrazionalità – quanto piuttosto prendere le distanze da un logos pensato unicamente sul modello del centro, inteso come “luogo” di fondazione rassicurante. Essa propone di pensare altrimenti. Come scrive Dalmasso: «Decostruire infatti – aldilà dei fraintendimenti in senso nichilistico, ludico o ironico –, riguarda un gesto originario di accoglimento e comprensione dell’alterità: dell’alterità dell’altro, del suo pensiero, del suo giudizio, del suo movente»[60]. La scrittura, allora, è il luogo dell’istituzione della differenza e il logos, secondo Derridaè, originariamente una pratica della differenza – che è già destinazione all’Altro, che è già risposta responsabile, in un movimento che, oltre la chiusura, pratica l’apertura poiché

 

l’apertura dell’avvenire è meglio, ecco l’assioma della decostruzione, ciò a partire da cui essa si è sempre messa in movimento e che la collega, come l’avvenire stesso, all’alterità, alla dignità senza prezzo dell’alterità, ossia alla Giustizia[61].

 

La scrittura di Derrida, infatti, decostruisce, apre le barriere per prepararsi ad accogliere, nella consapevolezza che l’ospitalità deve essere poetica, prima che politica. Tutta la riflessione del filosofo – come risposta responsabile al logocentrismo platonico – non è che il tentativo di un parricidio ancor più radicale di quello dello Straniero di Elea, in nome di un’estraneità condannata a non diventare mai “di casa”, ma ad ossessionare i confini di ogni pensiero – e di ogni politica – rimettendoli in discussione, contro ogni chiusura disumana.

Non si tratterebbe dunque di elaborare una nuova filosofia politica, ma di ripensare il nesso profondo che, sin dall’origine in culla greca, coniuga la filosofia e la politica nell’«invenzione della democrazia»[62]. Si domanda Derrida nella Farmacia di Platone: «Disponibile per tutti e per ognuno, offerta sui marciapiedi, la scrittura non è forse essenzialmente democratica[63]. Una «nuova alleanza» tra filosofia e politica – come quella auspicata da Derrida contro la “vecchia” alleanza logocentrica – non può che avvenire nel segno della decostruzione e di un rilancio iperbolico di ciò che il vecchio nome – sempre nuovo – di democrazia ha ancora da dire, poiché «non c’è decostruzione senza democrazia, non c’è democrazia senza decostruzione»[64]. Una «promessa» sempre a-venire, ma la cui urgenza è improcrastinabile.


[1] J. Derrida, Tentazione di Siracusa, a cura di C. Resta, postfazione di E. Cappuccio e R. Fai, Mimesis, Milano 2018, pp. 22-23, cors. mio.

[2] Per un interessante approfondimento sulla centralità che nella riflessione del filosofo algerino assumono l’origine ebrea sefardita e la provenienza mediterranea, si veda S. Geraci, Tra una riva e l’altra. Jacques Derrida e il Mediterraneo, Mesogea, Messina 2019.

[3] Cfr. Platone, Lettera VII, Carocci, Milano 2020, pp. 324-330.

[4] J. Derrida, Tentazione di Siracusa, cit., pp. 19-20.

[5] Interessante mettere a confronto – come propone Roberto Fai – due citazioni che costituiscono l’alfa e l’omega, l’origine e il compimento della lunga parabola che ha scandito dal V secolo a.C. alla prima metà del Novecento la filosofia politica. La prima di Diogene Laerzio: «Ma quando Platone conversando sulla tirannide affermò che il diritto del più forte aveva validità solo se fosse preminente anche in virtù, allora il tiranno si sentì offeso e, adirato, disse: “Le tue parole sanno di rimbambimento senile” e Platone: “Ma le tue sanno di tirannide”» (D. Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, Roma 2010, III, 18). La seconda di Gadamer: «Vedendo di lontano, con angoscia, Heidegger che si lasciava fuorviare in questo modo nella politica culturale del III Reich, abbiamo pensato qualche volta a quanto era accaduto a Platone a Siracusa. Uno dei suoi amici di Friburgo, incontrandolo sul tram dopo la sua dimissione dal rettorato, gli chiese: “Di ritorno da Siracusa?”» (H.G. Gadamer, Wie Plato in Syrakus [1988] in J. Derrida, H.G. Gadamer, PH. Lacoue-Labarthe, La Conférence de Heildeberg: Heidegger: portée philosophique et politique de sa pensée, tr. it. a cura di S. Facioni, Il caso Heidegger. Una filosofia nazista?, Mimesis, Milano 2015). Cfr. sul tema R. FAI, La “fraterna inimicizia” tra filosofia e politica, in J. DERRIDA, Tentazione di Siracusa, cit., pp. 47-74.

[6] Cfr. C. Resta, Il gusto del potere, in ivi, pp. 7-16.

[7] Cfr. E. Cappuccio, Il “viaggio a Siracusa” da Platone a Derrida, in ivi, pp. 29- 46, in part. p. 29.

[8] Cfr. sul tema H.G. Gadamer, Platos dialektische Ethik und andere Studien zur platonischen Philosophie [1967], tr. it, Studi platonici, Marietti, Genova 1983, Vol. I, p. 95.

[9] Cfr. il già citato R. Fai, La “fraterna inimicizia” tra filosofia e politica, cit., pp. 49-50.

[10] M. Cacciari, Etica del sapere, in «Micromega», 1, 1997, p. 69.

[11] J. Derrida, Tentazione di Siracusa, cit., p. 21.

[12] Cfr. J. Derrida, Politiques de l’amitié [1994], tr. it. Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995, pp. 129-130.

[13] J. Derrida, L’université sans condition, [2001], tr. it. L’università senza condizione, con P.A. Rovatti, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 44.

[14] Id., Tentazione di Siracusa, cit., p. 25.

[15] Ivi, pp. 25-26.

[16] Cfr. ibidem.

[17] Cfr. ivi, p. 27.

[18] Platone, Fedro, in Id., Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani 2000, 274 e-275b;

[19] Per un approfondimento sul tema si veda S. Petrosino, Ancora su il pharmakon di Derrida, introduzione a J. Derrida, La Pharmacie de Platon [1968], tr. it. La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 2021, pp. 7-47.

[20] Si confronti cosa scrive Petrosino: «Secondo la logica che già queste prime distinzioni con esattezza rivelano, la scrittura si trova così inserita all’interno di una struttura binaria in cui viene ad occupare, in cui le viene fatto occupare, inevitabilmente, il posto del valore negativo: laddove la phonè è vita, espressione della presenza della vita, la grammè è morte, un corpo disarticolato che deve essere di continuo vivificato; laddove la phonè è un organismo vivente, soffio vitale, quasi un’appendice vivente del corpo da cui emana, la grammè è una traccia statica, senza una propria identità, irriconoscibile e lontana dall’interiorità di cui è stata segno; laddove la phonè è contemporanea al suo artefice, le è propria, è sempre in presenza del soggetto da cui emana e che può quindi soccorrerla, precisarla, correggerla, modificarla, la grammè è impropria, fuori tempo, in ritardo, sempre più sfasata rispetto al momento in cui è nata, soggetta quindi all’equivoco, all’errore che non può essere corretto, ad un’imprecisione senza riscatto; laddove la phonè è conforme all’interiorità e alla spiritualità del logos, la grammè è la possibilità stessa del deforme, è inevitabilmente connessa ad una materialità che può essere deformata e in fondo persino distrutta; ed ultimamente, laddove la phonè è segno del logos, significante estremamente discreto, trasparente, quasi inesistente, vicino ed adeguato alla natura libera e vivente del significato che è il logos, la grammè è segno di segno, segno della phonè, significante di un significante, senza quasi più nessun legame con il significato, troppo distante dal fondamento» (ivi, p. 13).

[21] J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 57.

[22] Ivi, pp. 125-128.

[23] Ivi, p. 54.

[24] Ivi, pp. 84-85.

[25] Ivi, p. 94.

[26] Ivi, p. 103.

[27] Ivi, p. 102.

[28] Cfr. ivi, p. 57.

[29] Ivi, p. 122.

[30] Ivi, p. 128.

[31] Cfr. J. Derrida, L’eredità del pharmakon: la scena di famiglia, in ivi, pp. 138-152.

[32] Ivi, pp. 71-73.

[33] Cfr. S. Petrosino, Ancora su il pharmakon di Derrida, cit.,p. 20.

[34] J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 65.

[35] Ibidem.

[36] Si confronti come prosegue l’argomentazione del re Thamus nel Fedro: «Poiché questa conoscenza [la scrittura] avrà, come risultato, presso coloro che la hanno acquisita, quello di rendere le loro anime smemorate, perché cesseranno di esercitare la memoria. Ponendo in effetti la loro fiducia nello scritto, è dal di fuori, grazie a delle impronte estranee, non dal di dentro e grazie a loro stessi che si ricorderanno le cose» (Platone, Fedro, cit., 275 a-b).

[37] J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., pp. 139-140.

[38] Cfr. ivi, p. 141.

[39] Cfr. ivi, pp. 144-145.

[40] Platone, Fedro, cit., 275a – 276 a, cors. mio.

[41] Cfr. sul tema D. Mazzù, Il complesso dell’usurpatore, Giappichelli Editore, Torino 2013.

[42] J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 146.

[43] Scrive Derrida: «Platone, tenendo il pharmakon con una mano, il calamo con l’altra, trascrive il gioco delle formule mormorando. Lo spazio chiuso della farmacia amplifica smisuratamente la risonanza del monologo. La parola murata si urta negli angoli, delle parole si staccano, i frammenti di frasi si separano, […]. Tutta una storia. Tutta la filosofia.» (Ivi, p. 168).

[44] Ivi, p. 165.

[45] Cfr. Platone, Sofista, BUR, Milano 2007;

[46] Socrate nei dialoghi platonici, rappresenta sempre il Padre, o il fratello maggiore e tutta la scrittura platonica deve esser letta come la «riparazione del padre contro la graphè che decise della sua morte» (Cfr. J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 144). Si veda a tal proposito quanto scrive il filosofo in La carte postale commentando il frontespizio della Prognostica Socratis basilet, XIII sec., in cui sono raffigurati Socrate seduto nell’atto di scrivere, e Platone, alle spalle di Socrate, nell’atto di dettare: «Ora questa scena d’eredità, in altro modo ripetuta in La farmacia di Platone, interessa Platone e Socrate nella posizione stessa in cui li vedi in questa figura. L’erede che si dice abbia scritto, non ha mai scritto, egli riceve l’eredità, ma è in quanto destinatario legittimo che l’ha dettata, l’ha fatta scrivere e la ha inviata […]. Il sogno di Platone: fare scrivere Socrate, e fargli scrivere ciò che vuole, le sue ultime volontà, his will. Farlo scrivere ciò che vuole lasciandolo [lassen] scrivere ciò che vuole. Diventare così Socrate e suo padre, dunque il suo proprio nonno e ucciderlo. Gli insegna a scrivere. Socrate ist Thot. Gli insegna a vivere. È il loro contratto. Socrate firma un contratto o il documento diplomatico, l’archivio della duplicità diabolica» (J. Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà [1980], tr. it. La carta postale. Da Socrate a Freud e aldilà, Mimesis, Milano 2015, p. 59).

[47] J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 95, p. 161.

[48] Cfr. ivi, p. 168.

[49] Ivi, p. 162.

[50] Ivi, p. 142.

[51] Ivi, p. 165.

[52] Ibidem.

[53] Cfr. S. Petrosino, Ancora su il pharmakon di Derrida, cit.,p. 37.

[54] J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 167.

[55] Ivi, p. 95.

[56] Scrive Derrida: «Occorre pensare che la scrittura è a un sol tempo più esterna alla parola, non essendo la sua immagine o il suo simbolo, e più interna alla parola che è già in se stessa una scrittura. Ancor prima di essere legato all’incisione, all’impressione, al disegno o alla lettera, a un significante che rinvia in generale ad un significato, il concetto di grafia implica, come possibilità comune a tutti i sistemi di significazione, l’istanza della traccia istituita […] e dunque della ritenzione della differenza». (J. Derrida, De la grammatologie [1967], tr. it. Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1998, p. 72).

[57] Id., La dissémination [1972], tr. it. La disseminazione [1972], Jaca Book, Milano 1989, p. 322. Commenta a tal proposito A. Dufourmantelle: «Sta proprio in questo “dar luogo al luogo”, credo, la promessa mantenuta dalla sua parola. Che ci fa anche considerare la questione del luogo come fondamentale, fondante e impensata dalla storia della nostra cultura. Sarebbe dunque acconsentendo all’esilio, in altre parole essendo in un rapporto nativo (direi quasi materno) e tuttavia insofferente rispetto al luogo, che il pensiero addiverrebbe all’umano.» (A. Dufourmantelle, Invito, introduzione a J. Derrida, De l’hospitalité [1997], tr. it. Sull’ospitalità, Baldini e Castoldi, Milano 1997, p. 10).

[58] J. Derrida, Du droit à la philosophie, [1990], tr. it. Dal diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico, Il nuovo Melangolo, Genova 2003, p. 12.

[59] Id., Margini-della filosofia, cit., p. 39.

[60] G. Dalmasso, Le ragioni di un convegno, in AA.VV., A partire da Jacques Derrida, Jaca Book, Milano 2007, p. 9.

[61] J. Derrida e B. Stiegler, Écographies de la télévision [1996], tr. it. Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, pp. 22-23.

[62] Cfr. sul tema C. Resta, Il gusto del potere, cit., p. 14.

[63] J. Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 140.

[64] Id., Politiche dell’amicizia, cit.,p. 131.