Recensione a:
Guido Ghersi, La Città e la Selva, a cura di Cosimo Cucinotta, lettere da Qalat, Caltagirone 2021, Pagine 352, €17,00
di Massimiliano Magnano
Piuttosto complesse e intricate sono le vicende connesse alla scrittura, prima, e alla pubblicazione, poi, del romanzo La Città e la Selva di Guido Ghersi (Messina, 1890-1959). Meritano pertanto una pur breve riflessione, rispetto alla quale ci viene in soccorso la puntigliosa Nota al testo del curatore, Cosimo Cucinotta, il quale chiarisce quali vicissitudini abbia dovuto attraversare questo romanzo, a partire dalla travagliata stesura del dattiloscritto all’attuale edizione (letteredaQalat, Caltagirone 2021). Una prima edizione del romanzo, composto tra il 1931 e il 1933, risale infatti al 1983, per i tipi della casa editrice Rizzoli. Cucinotta definisce parziale questa prima edizione, poiché venne pubblicata non nella sua interezza e fu anzi a tratti emendata da espressioni verosimilmente ritenute anacronistiche, compiendo per così dire un’operazione filologicamente poco appropriata. Se dunque la storia editoriale di questo romanzo è stata piuttosto lunga e a tratti travagliata, lo stesso è possibile dire, mutatis mutandis, per quel che riguarda la stesura definitiva del romanzo, questa volta evidentemente da parte del suo stesso autore. A cominciare dal titolo, inizialmente La diocesi, poi sostituito dall’attuale La Città e la Selva e, per proseguire su questo versante, ricordando l’articolazione interna dei vari capitoli, più volte rimaneggiata a misura della inquietudine dello scrittore, che indagando la comunità di Pianasora indagava il proprio sé.
Chi sia Guido Ghersi è cosa nota solo a un pubblico selezionato di lettori, come si dice in questi casi, di nicchia. E tuttavia, come accade non di rado, siamo di fronte a un personaggio illustre, ancorché poco noto. Ghersi è autore di saggi filosofici e narratore, senza che questo debba essere vanamente interpretato come l’occasionale coesistenza tra abilità che nulla abbiano a che vedere tra di loro. Il che sarebbe palesemente falso, intanto perché non si tratta semplicemente di abilità, di un saper fare come un altro o di una sia pure non comune versatilità, dimostrate anche nel campo della storia dell’arte, della teologia cattolica, della simbologia. E inoltre perché in Ghersi, filosofia, letteratura, arte, teologia, simbologia si nutrono ciascuna di una relazione intensa e reciproca, che è tanto più significativa quanto più ricercata e sentita dallo stesso autore. Insomma, per intenderci, Guido Ghersi non è un filosofo che all’occorrenza si è cimentato con altri campi della cultura: filosofo e uomo di cultura egli era realmente e dolorosamente, e proprio questa sua caratteristica, di fatto, è la cifra più significativa che emerge leggendo il romanzo La Città e la Selva. Si dà anzi il caso che le ragioni dell’estro poetico dello scrittore Ghersi non potrebbero far valere fino in fondo le loro esigenze, se disgiunte dalle solide fondamenta che sono rappresentate sia da una profonda e articolata cultura filosofica e letteraria sia dalla contestuale e pervicace ricerca della verità. Non si è trattato cioè di dare saltuariamente spazio a una certa attitudine alla scrittura creativa da parte di un filosofo, quale certamente Ghersi è stato, e con esiti tutt’altro che scontati, dal momento che vita e pensiero abbiano assunto nel romanzo, per così dire, forma di narrazione, quantunque di una narrazione pensosa. Nel senso che la vita quotidiana nel romanzo sembra scorrere pressoché indifferente, tra fatti ordinari e straordinari, profezie di rinascita e brusche battute d’arresto, amori e dissapori. La letteratura funge, possiamo dire, da terreno di coltura nel quale le pianticelle dell’esame critico, che assume di volta in volta aspetto di riflessione politica, filosofica, sociologica, etc., vengono da Ghersi tenacemente coltivate, tirate su con la stessa ostinazione con la quale un contadino coltiverebbe i propri campi. Perché nell’un caso come nell’atro è questione di vita o di morte.
In primo piano sono le vicende della nuova città di Pianasora, ricostruita dopo un terremoto. Il riferimento è chiaramente al terremoto di Messina del 1908. Se però la città è stata ricostruita, adesso è necessario ricostruire le chiese della città, come vuole il vescovo, che dice testualmente: «Le cose della religione, sensibili e non sensibili avranno l’ufficio di dare al popolo le prime intuizioni della verità, della bellezza, della giustizia». Il vescovo Marino, fresco di nomina e desideroso d’imprimere alla città il proprio sigillo, è uno dei personaggi principali del romanzo, ed esprime il proprio punto di vista religioso (e non solo) su che cosa sia città, e tuttavia dovrà fare i conti con l’artista, il filosofo, il sovversivo, il politico. E soprattutto dovrà fare i conti con l’opposizione popolare. Ma il vescovo Marino non è chiaramente l’unico personaggio di rilievo che emerge dal libro. Guido Ghersi affida anzi le proprie inquietudini di uomo e intellettuale certamente a S.E. il vescovo, ma anche ad alcuni altri personaggi: il deputato, dottor La Falce; il filosofo Antonio Leto; la signorina Giulia Versa; la signora Silvia Castello; l’artista Vito Santina; il barone Marra; il sovversivo Giorgio Silas. Ognuno di questi personaggi non è depositario di alcuna verità, ci offre semmai la possibilità di ricercare la verità da tante prospettive diverse, tutte animate dalle ansie dello scrittore, colto nel momento in cui la riflessione sulla propria conversione alla religione cattolica è indifferibile. E d’altra parte, la conversione è il momento della crisi superato il quale viene conquistata una nuova prospettiva di vita: «Ci voleva una crisi, e tutte le crisi fanno bene quando non ammazzano».Sono queste le parole pronunciate dall’artista Vito Santina, verso la fine del romanzo, riferite al vescovo e che Santina ripete egoisticamente compiaciuto per non essere stato coinvolto nei tragici eventi che hanno sconvolto la città di Pianasora. Con le sue morti e i suoi eroi, da una parte e gli ottusi esecutori del disegno eversivo maturato per iniziativa del barone Marra e del socialista e rivoluzionario Giorgio Silas, che hanno portato alla distruzione delle chiese appena edificate.
Le vicende della città che cerca faticosamente di trovare una propria identità sono allegoricamente le vicende che scuotono Ghersi nel suo percorso di adesione alla fede cattolica e vengono raccontate nel romanzo attraverso la contrapposizione città – selva. Narrando le vicende della ricostruzione degli edifici sacri, nel tessuto urbano della città di Pianasora, Ghersi racconta di se stesso. Segno questo che lo scrittore vive la propria adesione alla fede cattolica con profondo coinvolgimento e nella consapevolezza che questa possa essere spazzata via facilmente e in qualunque momento. Verità, bellezza, giustizia sono quindi il fondamento stesso della città, che possono essere raggiunti attraverso un processo di espiazione. Ma sono anche strutture estremamente fragili. La selva, viceversa, non è uno stato d’innocenza, ma di abiezione, causato dalla malizia. Entrambi sono condizioni della coscienza. Espiazione e purificazione troveranno a conclusione delle vicende narrate nel romanzo un tragico epilogo, fatto di distruzione, morti, lutti, profondi pentimenti.
Questo è quanto emerge dalle lunghissime discussioni tra il filosofo Antonio Leto e Giulia Versa, filosofa sul campo. È quello che entrambe pensano del mondo: che è volgarità, malizia, ignoranza; la verità e la bellezza stanno platonicamente dalla parte opposta, dalla parte della città. Questo è anche quello che viene narrato nel romanzo. Se però in un primo tempo, nell’economia dell’opera, sembra che le donne non siano ritenute capaci di riflessione e di elaborare un pensiero filosofico, ma solo di forti sentimenti, ci si deve ricredere del tutto quando Giulia Versa dimostrerà di essere una raffinata pensatrice, chiarendo per l’amico Antonio e anche per se stessa i contorni di un pensiero perennemente in fieri, in bilico tra civiltà e il colpevole tralignamento di questa.
Nel XVI e ultimo capitolo del romanzo, Bianco e nero, «Il barone Marra e Antonio vivevano da un mese insieme nella clinica Mastri, dove li avevano portati la sera della sommossa»,quasi come nel loro ultimo incontro, nel lazzaretto, Renzo e don Rodrigo moribondo, nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. A suggellare il significato ultimo che Guido Ghersi attribuisce alla conversione, che ha senso se mette in relazione e in comunione gli uomini tra di loro, se c’è, come predicato nel vangelo, rispetto e amore reciproco. Come l’amore che lega Antonio Leto e Silvia Castello e che sopravvive alle più efferate atrocità. O come nel brano in cui apprendiamo del profondo pentimento del barone Marra, che si dichiara responsabile della morte di Giulia Versa.
Ora, questa mia riflessione sul romanzo La Città e la Selva, ancorché parziale, non potrebbe concludersi senza accennare ad alcuni elementi simbolici contenuti nel romanzo. A cominciare dal titolo del primo capitolo, Ombre e luci della controra, dall’incipit del romanzo e da taluni riferimenti alla massoneria, alle logge massoniche, che ricorrono nel testo in almeno cinque o sei circostanze. Verosimilmente, non senza un motivo, considerato che la simbologia e in particolare la simbologia massonica descrive un percorso di luce, di rinascita, di crescita spirituale e di conoscenza, che ha la propria base materiale nella simbologia tradizionale, costituita da figure geometriche, che sono tra di loro in relazione reciproca. Leggiamo nell’incipit del romanzo una bellissima descrizione dell’architettura della Pianasora–Messina ricostruita: di rettifili lucidi, piazze quadrate e rettangolari, a forma di croce. Leggiamo di una piazza ottagona, aperta da quattro lati e di un esplicito riferimento all’Umbilicus urbis. Dico questo per mettere in rilievo come Guido Ghersi si sia servito di alcuni precisi riferimenti simbolici, tracciati come indizi che ci fanno comprendere quanto importante fosse per lui questo nuovo inizio che è la conversione e che è simbolicamente fatta di rettifili lucidi, di quadrati. Le linee rette rappresentano l’elemento umano, le circonferenze, l’elemento divino; il quadrato in particolare rappresenta l’uomo, stabile, tetragono, appunto. I simboli che più di tutti colpiscono sono però l’ottagono e l’Umbilicus urbis. L’ottagono è simbolo della relazione tra cielo e terra, di rigenerazione e purificazione, della vita che si rinnova. I battisteri sono in genere di forma ottagonale. L’Umbilicus urbis, l’ombelico della città è anch’esso un simbolo importante della simbologia sacra: ombelico, è infatti il simbolo del centro del mondo, soprattutto del centro spirituale del mondo. E in effetti in molte tradizioni il mondo ha origine da un ombelico, la cui manifestazione si irraggia nelle quattro direzioni. I menhir celtici sono degli omphaloi, degli ombelichi, e l’isola di Ogigia viene chiamata da Omero nientemeno che ombelico del mondo.