di Mattia Spanò
1. In principio è il pop
Popular music sì, ma senza populismo.[1]
Dall’andamento sincopato del jazz al deciso accento del rock; dall’imprevedibilità ragionata della musica classica all’incedere soffuso ma incalzante della bossa nova; e, ancora, transitando per le più disparate miscele musicali che confluiscono nel pop, genere ibrido, trasversale, anfibio che – al netto delle più recenti standardizzazioni di mercato – si appropria di qualunque opera diventi di dominio popolare. In principio è il pop, si potrebbe sostenere in riferimento a qualsivoglia opera edita. Se l’elaborazione artistica vuole configurarsi come comunicazione e, dunque, come dono reciproco. E, conseguentemente, rivolgersi alla gente, diventare popular, di cui pop è contrazione. Musica popolare sì, ma senza populismo, sosteneva Manlio Sgalambro in Teoria della canzone. E, di fronte a ciò, storcerebbe forse il naso – fino alla frattura del setto – l’attuale assetto dell’industria culturale, intenta – com’è – a pensare, strutturare e pubblicare opere secondo il dettato della consumabilità ad oltranza; alle volte, programmando anche la morte del singolo a beneficio della filiera. Pratica da porre al vaglio della ricerca, perché centrale nel tentativo di scorgere anche nella proposta musicale lo spirito del tempo, se intesa nel respiro che le è proprio: nessuna demonizzazione, dunque, ma il tentativo di farsi carico della questione allineandosi alle prerogative degli attori del caso.
Che si tratti, poi, di una popolarità populistica o di diverso tipo, però, è un’altra questione. In questa sede, basti fermarsi alla constatazione che – al di là dei singoli e particolari intenti – l’opera che vuole farsi comunicazione non è recalcitrante al pop. Ammesso che pop si intenda nell’accezione di popolare e non in quanto categoria che permea i meccanismi fondanti dell’odierna e generalista grande industria. Da quando, infatti, quest’ultima ha intensificato la costrizione di qualsivoglia opera entro determinati standard di riferimento – cuciti su misura del palato nazional-popolare – qualcuno ha accusato il colpo a tal punto da costruire sentieri alternativi che prescindessero dall’esclusivista dinamica della grande produzione, per la quale un brano musicale non può che articolarsi entro certi argini con un’esattezza tendente al calcolo matematico. In questa cornice, chi si discosta dall’apparato di riferimento, generalmente rimane nell’ombra. Non c’è, canta Edoardo Bennato:
Quello lì che non si vuole adeguare
Quello lì che non esiste perché
Anche nella realtà virtuale
Non può esserci uno che non c’è
Uno che non vuole partecipare
Al gran ballo delle celebrità
Ma se si rifiuta di cantare
La canzone dell’unanimità
Non c’è
Non c’è
Non c’è
E senza fare tanti giri di parole
Non c’è
Non c’è
Non c’è
Ed è così che va, prendere o lasciare[2]
Ed ecco, qualche anno fa, l’emergere e l’imporsi dell’indie, contrazione del termine inglese independent. Termine fondativo, prospettico, programmatico che – con una sorprendente vicinanza al destino del pop – è finito per diventare un genere a sé stante. Così indie, in ambito musicale, è divenuto non solo tutto ciò che viene prodotto indipendentemente – al di fuori dell’orbita – dal “giro che conta” dell’industria culturale, ma anche qualsivoglia opera che, sulla scorta di ciò, risulta al tatto uditivo “sporca”, minimale, imprecisa, imperfetta; libera in struttura, partizione, metrica, battiti per minuto, scansione ed articolazioni, stile; una sorta di neo-avanguardia che investe gli odierni più diffusi codici musicali tout court. Ma l’indie fa presto a farsi pop se l’universo degli ascoltatori – indipendenti e controcorrente anch’essi e, soprattutto, non poco numerosi – stabilisce che l’indie divenga popolare. Ed ecco l’esplosione di un’impasse non debitamente problematizzato: l’indie, nato per contrapporsi al pop, finisce per “poppizzarsi”, con-fondersi con il popolare. L’espressione indie-pop, ad oggi largamente impiegata, dovrebbe infrangersi sulla soglia dell’impercorribile ossimoro. Soprattutto agli occhi di chi, forte del fatto che l’assoluta coerenza sia il sommo bene da perseguire, non sia predisposto ad affacciarsi sull’oltre. Ma, a ben vedere, se pop è contrazione di popular – e non la stringente categoria con la quale si determina la quasi totalità dell’odierna produzione generalistico-internazional-popolare dell’industria culturale – anche l’artista indie può esserlo. Se non, addirittura, volerlo ai nastri di partenza.
In principio è il pop, si diceva in riferimento a qualsivoglia opera edita – anche se, almeno a tutta prima, questa legge non valga per tutti né alla stessa maniera per ognuno. Il pop in quanto comunicazione, dono reciproco, nella sua miscela musicale ibrida, trasversale, anfibia. Così come ibrida, trasversale, anfibia può essere la trama del jazz, del rock, della bossa nova e persino della musica classica. E, ancora, tornando all’origine del discorso e provando a rimescolare le carte e ricollocare gli oggetti: l’andamento sincopato è proprio del jazz, ma non di tutto il jazz e può essere applicato agli altri generi citati e non. E, proseguendo sulla scia della problematizzazione: esiste una definizione univoca e assoluta di jazz? O di rock, musica classica, bossa nova, pop e indie? Al netto del peculiare deposito culturale che ogni genere musicale reca in sé, i confini sono sfumati e se, in alcuni casi, maggiormente marcati, la categorizzazione è sempre una pratica mobile. L’etichetta non esaurisce – né mai potrà farlo – i tratti dell’intreccio di pratiche a cui le parole rimandano. In principio è il pop, si è enunciato e ribadito in relazione a qualsivoglia opera edita, intesa come pratica umana tra le pratiche umane; «in principio è il corpo in azione» che si protende, potrebbe ancora aggiungersi sulla scorta di ciò che il filosofo italiano Carlo Sini osserva nell’opera L’uomo, la macchina, l’automa, chiosando ulteriormente sulla questione:
L’azione però non è mai così generica come qui la diciamo; essa è definita da concrete pratiche di vita e anche di parola, se si tratta di un’azione umana. Noi parliamo «in generale», di fatto proprio esibendo un esempio della concreta pratica di parola filosofica, caratterizzata appunto dalla generalità o universalità del dire concettuale: non dobbiamo mai dimenticare questo tratto particolare della nostra pratica di parola, che ha in sé la sua peculiarità, la sua efficacia e anche il suo limite. Essa non dice e non intende dire la «verità» assoluta delle «cose», ma la verità delle cose in relazione alla figura filosofica nella quale le cose vengono qui dette e considerate.[3]
Dall’andamento sincopato del jazz al deciso accento del rock; dall’imprevedibilità ragionata della musica classica all’incedere soffuso ma incalzante della bossa nova; e, ancora, transitando per le più disparate miscele musicali che confluiscono nel pop, genere ibrido, trasversale, anfibio. E così, ancora e sempre, attraversando i cenni jazz che stanno nel rock, e viceversa; o gli influssi della musica classica negli altri generi – citati e non. E tutto ciò che il discorso ha scaturito o nemmeno sfiorato.
Parlando – ad esempio – di indie, stiamo, in una qualche misura, riscrivendo le coordinate del genere stesso. Nell’identico ma diverso modo in cui ogni produttore e fruitore d’indie, compone l’indie nel suo stesso farsi. In caso contrario, in ultima analisi, dovremmo individuare un deposito primo e ultimo dell’indie come cosa in sé: come ciò che sta nella sua assoluta inscalfibilità. Dinamica – questa – che si ripropone con e per ogni genere musicale e che complica ulteriormente le cose.
Il punto è che, al netto di ogni ragionevole e mobile categorizzazione per la quale ogni genere è ciò che è perché non è un altro – uguale a sé stesso nel differenziarsi dall’altro: ciascuno e tutti si inscrivono e riscrivono il proprio, peculiare, archivio in un archivio musicale complessivo già iniziato – non è dato all’umano frequentare la cosa musicale in sé. Sia in relazione a ciascuna e a tutte le opere che costituiscono l’orizzonte del termine musica, sia sotto il rispetto della parola in questione nel tentativo di abitarne la gittata semantica.
Il che, riportato alla radice, non riguarda solo ed esclusivamente ciò che possiamo fare e dire dei generi musicali, ma interessa il fenomeno-evento musicale in sé. Paradossalmente, senza avere mai la possibilità di frequentare lo stesso in quanto tale. Si tratta, al contrario, del tentativo di abitarne la soglia dalla distanza opportuna che si configura, al contempo, come un esercizio di approssimazione.
2. In principio è l’azione
La parola ripete il mondo nell’evento della sua pratica, sfidando di continuo il rischio di ridurre dogmaticamente il mondo stesso ai suoi significati […] o di ridurre superstiziosamente il mondo a una cosa del tutto esterna al sapere e inaccessibile al dire. La verità sta nel mezzo: che sempre di nuovo bisogna dire per sapere, nei modi molteplici delle figure dell’espressione, e che il dire è però, preso in sé, una morta spoglia, oltre la quale la vita procede imprevedibile e «orgiastica», cioè nel segno di Dioniso, come a Nietzsche piaceva pensare.[4]
Accade, non di rado, che il senso comune attribuisca una definizione univoca alle parole che impiega. Come se queste fossero portatrici o, addirittura, coincidenti con la cosa in sé che nominano. In questa pratica – lo si afferma senza timore, ma accogliendo l’intrinseca problematicità della questione – ci riveliamo molto più “filosofici” di quel che crediamo di essere. Che il fatto avvenga consapevolmente o inconsapevolmente, infatti, è la stessa struttura del linguaggio a definire un modo d’espressione che tende alla concettualizzazione. Riprendendo le parole, già citate, di Carlo Sini: «noi parliamo “in generale”». Ma occorre, poi, che non si dimentichino tanto l’efficacia quanto i limiti dello strumento che impieghiamo. In altri termini, è necessario che si coltivi la consapevolezza che l’uomo non abbia a che fare con la verità assoluta delle cose che nomina, ma che, diversamente, «la voce agisce […] come una protesi capace di fornire la prima apertura al processo del sapere, cioè alla possibilità di tradurre il mondo vissuto in un mondo nominato, grazie all’azione, al lavoro “analitico”, di quella protesi sociale che è la voce nominante»[5].
Una sosta appare necessaria. Se l’uomo – a livello ontologico, al pari degli altri enti – è una piega del mondo, è pur vero che nell’incontro con l’altro da sé (che sia alterità che si estrinseca in forma umana, animale, vegetale o dell’intero stesso) se ne riscopre frammento. In quanto tale, allora, si configura come mondo che usa il mondo, accusando sin dall’inizio l’esigenza biologico-materiale di non poter fare altrimenti: dall’ossigeno che ne permette la respirazione, al processo di metabolizzazione che segue l’alimentazione. Su questa scia, prosegue Carlo Sini, l’uomo:
Fa ciò a partire dal suo stesso corpo, raddoppiato in mezzo e strumento: le mani per afferrare, i piedi per camminare, gli occhi per guardare… È così che il corpo in azione scopre di disporne, di «averli», sebbene sia ancora lontano dal «saperli». Li usa appunto, ma non li sa. Il corpo in azione, potremmo concludere, fa di se stesso una «protesi».[6]
Si è già in presenza di una prima mossa e soglia di sdoppiamento, che riguarda l’uomo – corpo-cosa del mondo – che si riscopre corpo vivente. In altri termini, ciò che i tedeschi intercettano e rendono nello sdoppiamento linguistico di Körper e Leib per riferirsi al corpo di un uomo che è, contestualmente, cosa e vivente. Beninteso, quanto finora osservato si incardina in un fondo di ben più ampia gittata e dalle profonde implicazioni teoretiche e prassiche. Per ora – non volendo né potendo, con ciò, esaurire una questione dall’inestimabile complessità – basti ribadire che la prima mossa e soglia di sdoppiamento alla quale si è fatto riferimento – il tentativo di rinnovare la propria collocazione nel mondo a partire dall’uso del corpo come protesi – si estrinseca anche nell’impiego degli strumenti del mondo (esosomatici) come estensioni dei confini materiali corporei.
Si tratta di un processo particolarmente complesso che, ripercorso a ritroso, è quanto mai arduo definire in una genealogia che rechi in sé una precisa origine. A maggior ragione se, ponendo i riflettori sull’uomo, ci si sofferma non solo sull’uso che i frammenti del mondo – che l’animale umano condivide con altre forme viventi – fanno del mondo, ma ci si volge anche su quella continua ed ininterrotta processualità che, da un certo punto della storia, ha condotto al peculiare modo di stare al mondo dell’uomo, che all’uso ha affiancato la consapevolezza. In altri termini, si tratta del sapere ciò che si fa – oltre al più immediato fare – che presuppone una progettualità.
Il che, inevitabilmente, ha condotto nel tempo ad una riconsiderazione sempre in cammino tra uomo ed ambiente che se, da un lato, appaiono inscindibili, dall’altro lato si rivelano implicati in un processo di mutua e ininterrotta modificazione.
Un punto è centrale in questa cornice, soglia che funge da fondamentale crocevia evolutivo-culturale: l’animale umano – si diceva – da un certo momento della storia inizia ad estraniarsi dal suo rapporto immediato con l’ambiente e, al contempo, instaurandone un rapporto mediato, tenta di approssimarsi allo stesso. È nell’uso degli strumenti del mondo che, una volta problematizzato e saputo, diventa bagaglio progettuale e resto sociale, che qualcosa di umanamente diversificante accade. È difficile pensare che si tratti di una manovra esistenziale e prassica ex novo: il tracciato evolutivo umano è essenzialmente e puntualmente caratterizzato da nuovi usi di antiche funzioni.
E, proprio sulla scorta di ciò, occorre soffermarsi su un ulteriore punto di cruciale importanza: l’uomo, in quanto erede ontologico del mondo in cui è gettato, si ritrova – ancora e sempre – in un inizio già iniziato, entro il quale accade la sua emergenza, nonché la costruzione di ogni nuova – e di volta in volta attuale – apertura di mondo. Come sostenuto ancora da Carlo Sini, «il mondo-ambiente dell’uomo è una costruzione culturale, che ovviamente presuppone il mondo come sua condizione preventiva. Dico “ovviamente”, ma so bene che il chiarimento di questa “ovvietà” (come sempre accade in filosofia) è tutt’altro che semplice o scontata»[7].
A questo punto tocca chiedersi: come accade questa costruzione culturale dal punto di vista dell’umano? Si potrebbe abitare l’interrogativo tornando alla voce, già espressa da Carlo Sini nei termini di uno strumento che permette il primo passaggio dal mondo vissuto al mondo nominato. Ecco il grande salto del sapere umano, la prima soglia di pratica concettualizzante, che non può che estrinsecarsi in forma linguistica. Come, quando e perché ciò sia accaduto rimane una zona d’ombra anche per l’odierna comunità scientifica. Ma ecco anche l’emergere della necessità di interrogarsi sul significato di questo nuovo orizzonte culturale, facendosi carico tanto delle possibilità quanto dei limiti del linguaggio. Continua, infatti, Carlo Sini sulla questione:
La parola svolge la sua (preziosa e originaria) funzione “analitica”: ritaglia un pezzo di esperienza “reale” e lo trasferisce nel suo segno. In questo modo ho in mano una bussola per addentrarmi nel panorama che ho scelto e delimitato e, grazie a ciò, si offre così l’occasione di incontrare conferme o smentite in merito alle mie attese e ai miei propositi.[8]
Ecco il punto: la parola è segno del mondo, non il mondo. Nel sapere linguistico accade una sostituzione dell’esperienza vissuta del corpo vivente, che è già – come si è visto – un doppio del corpo-cosa del mondo. Ecco, allora, che Carlo Sini osserva che «grazie alla protesi, con il segno accade il doppio del doppio»[9]. Se, da un lato, tutto ciò funge da monito in relazione alla pretesa umana di ridurre il mondo ai significati costruiti linguisticamente, dall’altro lato non relega il mondo a qualcosa che accade assolutamente al di fuori della possibilità conoscitiva umana.
Farsi carico di questo itinerario teoretico-prassico significa invece, in una qualche misura, accogliere l’insegnamento vivente del Socrate platonico, «della vera trappola e della sua “ironia”: che non c’è sapere senza ignoranza e che non c’è ignoranza senza sapere»[10]. Ecco, allora, l’emergere del sapere umano come esercizio che dice e disdice, nell’impossibilità di un possesso assoluto della cosa in sé.
Gesto – quello socratico – ripetuto e rinnovato nella speculazione di Platone, uno dei primi pensatori a soffermarsi sulla questione nel solco del decisivo e ulteriore salto da una cultura precipuamente orale ad una società che si affaccia sulla scrittura. Benché dei suoi coevi è difficile supporre che i più fossero già alfabetizzati, non può essere eluso il riferimento alla temperie complessiva in cui Platone dialoga e scrive; e, nel farlo, si interroga sulla dicibilità della cosa in sé, sui limiti e sulle possibilità che si dipartono dal discorso orale e scritto che rimanda – ancora e sempre, ogni volta rinnovandosi in una ripetizione mai paga di sé – alla cosa stessa, to pragma auto, che ne è presupposto e possibilità[11]. Che, dunque, quest’ultima – appurato che non possa essere costretta negli angusti limiti che l’uomo, dalla sua prospettiva particolare, ne traccia – sia qualcosa di assolutamente inconoscibile? O, come osserva il filosofo italiano Giorgio Agamben in una variazione sui temi della Settima lettera platonica, «una tale cosa senza rapporto col linguaggio, un tale non-linguistico noi lo pensiamo, in verità, soltanto nel linguaggio, attraverso l’idea di un linguaggio senza rapporto con le cose»[12]? E che, dunque, nel linguaggio occorre addentrarsi con metodo tra meandri e orizzonti della cosa in sé, nel tentativo umano di approssimarsi asintoticamente ed ininterrottamente alla complessità dell’intero?
Ora, a che la presente digressione? In principio è il pop, si è enunciato e ribadito in relazione a qualsivoglia opera edita – nella fattispecie musicale – intesa come pratica umana di comunicazione tra le pratiche umane; in principio è l’azione, si è aggiunto e ripercorso. Tirando le fila del discorso, in che relazione possono configurarsi i due assunti? In altri termini – e centrando il discorso sulla musica – sotto quale rispetto si può dire qualcosa sulla pratica comunicativa musicale in quanto pratica tra le pratiche che ha la sua scaturigine nell’azione? Uno spunto, in tal senso, proviene ancora da Carlo Sini che, in relazione all’esercizio dialogico, aggiunge:
È la pratica del dialogo che produce i dialoganti. Essi non gli preesistono, non possono dirsi: mettiamoci a dialogare […]. Non ogni cosa può essere detta in ogni tempo, osservava Foucault; e io aggiungerei: perché non ogni cosa può, in ogni tempo, essere fatta. Sono le concrete pratiche di vita, di parola e di scrittura che allevano, per retroflessione, i soggetti nelle loro figure determinate. Il dialogare forma i dialoganti come il leggere i lettori e il calcolare i calcolanti.[13]
E, si potrebbe ancora aggiungere sulla scorta di ciò: la pratica musicale forma la nebulosa dei frequentatori della musica. Il che conduce all’esigenza di abitare la questione, attraversandone la postura mobile che assume nell’opera musicale.
3. Approssimarsi ai fatti a regola d’arte
La regola di questo «(non) sapere come fare», che è il «fare ad arte», è la «regola d’arte» generata mediante la prassi stessa che la segue: non è semplicemente imposta dall’esterno da istruzioni o regole avulse dalla situazione. Il «(non) sapere come fare» nel misurarsi qui e ora con svariati materiali è perciò auto-regolato.[14]
Che cos’è un brano musicale? Dove si colloca nel tracciato che, dalla sua scaturigine, procede fino alla frequentazione sempre in cammino che gli è propria? Carlo Sini – nel già citato saggio L’uomo, la macchina, l’automa – nel tentativo di allargare la questione posta in essere, prende le mosse dalla terza sinfonia di Beethoven. Ma la dinamica, va da sé, riguarda ogni possibile altro brano assunto come punto di riferimento. Rimanendo sull’Eroica del compositore tedesco, Sini ipotizza che la stessa, eseguita dai Berliner Philarmoniker, sia poi oggetto di scomposizione digitale da parte di un tecnico del suono. Il materiale sonoro, composto da Beethoven, è dunque riproposto da un’orchestra, registrato e, infine, ritoccato da un ingegnere del suono. A questo punto, si ripropone l’interrogativo di partenza: che cos’è un brano musicale? Dove si colloca, nella fattispecie, la terza sinfonia di Beethoven? Può ridursi al solo materiale sonoro raccolto e maneggiato dal tecnico del suono e, dunque, a niente di più che ad una mera sequenza di impulsi elettromagnetici? In tal modo, si «sostituisce il prodotto di un lavoro scompositivo (secondo la pratica digitale) all’intero di partenza»[15]. Ma allora, sarebbe necessario scorgerne la collocazione, ritornando all’intero di partenza.
È solo ed esclusivamente materiale? Si tratta della partitura originale della terza sinfonia? Il brano in questione sta esclusivamente lì? Nell’esecuzione dei Berliner Philarmoniker, allora – così come nella successiva registrazione “rifinita” – cosa abbiamo ascoltato o cosa ascolteremmo?
Lo spartito originale è ineludibilmente la traccia scritta principiale dell’esecuzione della sinfonia ma – al netto del fatto che la stessa possa essere interpretata a prescindere dal supporto del pentagramma – non costituisce i confini definitivi di un brano. D’altronde, come evidenziato dal critico musicale Giorgio Graziosi, «qualsiasi opera, specialmente di un musicista moderno, contiene simboli e annotazioni che, riducendo e circoscrivendo il campo delle possibilità espressive […], orientano la ricerca dell’esecutore, ma non la precisano mai»[16].
La terza sinfonia di Beethoven possiede, senza dubbio, una peculiare e circoscrivente ma mai conclusivamente precisata, trasposizione scritta. Il che, tirando il discorso alle estreme conseguenze, si ripercuote – a primo impatto sul filo del paradosso – anche sull’autore stesso, che tanto nell’atto della composizione, quanto nelle successive esecuzioni della sinfonia, non compie che un esercizio di interpretazione di sé e del mondo che si va costituendo in un intreccio di pratiche sempre in cammino. Quando, infatti, Beethoven ha iniziato a scrivere la terza sinfonia? Nel limitato (e si tratta, pur sempre, di una supposizione) arco temporale che ha dedicato alla trascrizione della stessa? O, invece, nel mobile e complesso esercizio di riscrittura di un archivio già scritto, in cui confluiscono «tutti i contesti di senso che ne accompagnano il lavoro: i materiali musicali e cartacei, le pratiche compositive del suo tempo […] ecc.»[17]? Dal cui svolgimento si è, poi, approdati – nella riscrittura dell’archivio già scritto del fenomeno-evento musicale – alla prima pagina scritta e alle successive ristampe dello spartito e, attraversando i secoli, all’esecuzione dei Berliner Philarmoniker, registrata e rifinita, sempre dell’Eroica, della terza di Beethoven, della quale tuttora ci si sta interrogando sull’essenza. Allora, tornando all’interrogativo iniziale:
Questi sono i fatti. La loro determinatezza e concretezza è comprensibile, descrivibile e definibile correttamente solo entro le pratiche nelle quali l’«oggetto» sinfonia si viene costituendo. Non ha quindi senso chiedersi […] che cosa è una «sinfonia» ecc., come se dietro la parola «sinfonia» stesse una «cosa» univocamente definita. Oltre le parole non stanno cose, ma pratiche complesse; è al loro interno, ogni volta in modi determinati, che le cose si sviluppano e vengono alla parola, comprese le pratiche di parola.[18]
Approssimarsi ai fatti a regola d’arte, dunque, significa intraprendere un esercizio di complessità in cui il domandare linguistico proprio dell’umano, nel suo stesso accadere, si ripiega metodicamente su sé stesso. Non dimentichi del fatto che neanche la regola d’arte – dal punto di vista umano – è univocamente e conclusivamente definibile (anche perché nel nominarla la si sta frequentando linguisticamente). Non ci resta, allora, che abitare questa complessità, nel «semplice e assoluto atto di suzén: “vivere con” […] quell’esercizio che è catarsi dell’esistenza e dello sguardo, e “condividere questa vita” con nature affini, con anime sufficientemente folli da volersi impegnare nella medesima pratica»[19].
[1] M. Sgalambro, Teoria della canzone, Bompiani, Milano 1997, p. 42.
[2] E. Bennato, Non c’è in Non c’è, Sony Music, Milano 2020.
[3] C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 42.
[4] Id., Le ragioni del mito in Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, Jaca Book, Milano 2013, p. 50.
[5] Id., L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, cit., p. 55.
[6] Ivi, p. 43.
[7] C. Sini, T. Pievani, E avvertirono il cielo. La nascita della cultura, Jaca Book, Milano 2020, p. 42.
[8] Ivi, p. 55.
[9] C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, cit., p. 55.
[10] Id., Le ragioni del mito in Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, cit., pp. 45-46.
[11] Su ciò Cfr. M. Isnardi Parente (a cura di), Lettere, Settima lettera, trad. e cura di M. G. Ciani, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori, Milano 2002, 340b-344d (pp. 105-117); Platone, Fedro, trad. e cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2013, 269d-279b (pp. 179-209); Platone, Sofista, trad. e cura di B. Centrone, Einaudi, Torino 2008, 260a-263a (pp- 215-227); Platone, Repubblica, trad. e cura di F. Sartori, Laterza, Bari-Roma, 539b-d (p. 256); Platone, Fedone, trad. e cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2017, 107a (p. 255); Platone, Teeteto, trad. e cura di G. Mazzara, Il Tripode, Napoli 1977, 142a-143c (pp. 13-15).
[12] G. Agamben, La cosa stessa in G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza Editore 2005, p. 19.
[13] C. Sini, Le ragioni del mito in Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, cit., p. 48.
[14] A. Bertinetto, Estetica dell’improvvisazione, il Mulino, Bologna 2021, p. 26.
[15] C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, cit., p. 31.
[16] G. Graziosi, L’interpretazione musicale, Einaudi, Torino 1967, p. 16.
[17] C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, cit., p. 32.
[18] Ivi, pp. 32-33.
[19] D. Susanetti, Il talismano di Fedro. Desiderare, vedere, essere, Carocci, Roma 2021, p. 75. Tra le anime sufficientemente folli da volersi impegnare nella medesima pratica, non posso che annoverare Francesco Baiamonte, Michele Caruso, Sara Dell’Albani, Giuseppe Di Natale, Marco Licciardello, Myriam Magno e Stefano Piazzese. A loro va la mia più profonda gratitudine per i preziosi, e sempre in cammino, spunti che mi hanno restituito nella stesura del presente (e modesto) scritto.